domenica 23 dicembre 2007

Buon Natale

Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto.
(Giovanni 1, 11)


Quest'anno una preghiera per tutti i bambini
nati male, non nati, non fatti nascere.


(Il blog riapre a gennaio.)

sabato 22 dicembre 2007

Il sommo sacerdote

(Gurrado per Quasi Rete / Em Bycicleta)

Ma la Messa, chiedeva scettico Massimo Troisi in Pensavo fosse amore (invece era un calesse), non è noiosa, uguale, sempre la stessa? Macchè, gli rispondeva il suo devoto amico e interlocutore, la Messa è un miracolo che ogni volta si rinnova.

A leggere Derby!, il volume della Baldini & Castoldi Dalai (edito nel 1994 e ristampato quest’anno) che raccoglie gli articoli di Gianni Brera riguardo ai molteplici incroci fra Milan e Inter, si ha la netta percezione che, lungi dal poter risultare noioso, uguale, sempre lo stesso, l’accostamento cromatico di squadriglie rossonere e nerazzurre sul verde prato di San Siro è un miracolo che si rinnova due volte all’anno. Gianni Brera ha visto, accumulato, commentato quarantasette derby, dall’ottobre 1956 al novembre 1992, rendendone partecipi dapprima i lettori de Il Giorno, quindi quelli de La Repubblica. I quali di certo non si sono annoiati, e anzi presumibilmente attendevano con particolare trepidazione i derbistici pronostici prima e i resoconti poi, puntuali uno in autunno e uno in primavera.

Tuttavia siamo in presenza di un libro e quindi, in questo tourbillon di Milan-Inter e Inter-Milan, non è possibile frapporre i lunghi mesi che, col normale dipanarsi del campionato fra un derby e l’altro, costituiscono la ragion d’essere della golosa attesa. I libri invece, per il loro stesso essere oggetti rilegati con le pagine una dietro l’altra in rapida successione, si prestano (per chi non lo sappia) a una lettura continuativa e magari ininterrotta; io, almeno, abitualmente li leggo così. Domanda dirimente: c’è da fare un’eccezione per questo volume che infila un derby dietro l’altro, concentrandone quasi cinquanta in meno di cinquecento pagine? Corollario interrogativo: non è che l’indiscussa (e indiscutibile) maestosità del roboante stile del Brera giornalista va un po’ a male quand’è compattata in forma di volume, tanto più d’argomento monografico e col pericolo della ripetitività sempre in agguato dietro l’angolo?

Non ho tempo né voglia di stare a porre distinguo fra come si scrive per un giornale e come si scrive per un volume, o peggio ancora stare a sindacare sui giornalisti che fanno gli scrittori e gli scrittori che fanno i giornalisti. Accontentatevi di quest’assunto indimostrabile, che ho per certo sin dalla primissima adolescenza e che decenni di letture assortite non hanno contribuito a fugare minimamente: Gianni Brera è stato il più grande giornalista italiano. Ne consegue immediatamente che viene meno la speciosa distinzione che lo vorrebbe giornalista sì ma sportivo, come a dire che chi parla di partite di calcio fa un mestiere diverso rispetto a chi trascrive resoconti politici o è inviato in una zona di guerra o, ça va sans dire, scrive recensioni di libri appena usciti.

Ne consegue anche, su un più ampio respiro, che Gianni Brera è stato il più grande giornalista italiano perché è stato il meno giornalista di tutti: ha lasciato su ciò che vedeva l’impronta inconfondibile dei suoi occhi che guardavano (rileggetelo, e noterete che è uno dei pochi che non stona mai quando dice “io” e intorno a “io” fa ruotare il mondo), che si rispecchiava nell’estrema proprietà del linguaggio, nello stile inconfondibile e tale da far esclamare a chiunque, nel corso degli anni, aprisse a caso Il Giorno o La Repubblica: “Questo è Gianni Brera”. Senza sbirciare la firma in calce.

A Gianni Brera tutto perdóno, anche di tifare contemporaneamente per il Milan e per l’Inter (quando è invece peccato mortale). Essendo milanese, era il suo sillogismo, devo tifare per le squadre entrambe che giovano alla gloria della mia città. Poco importa che Brera non fosse milanese ma pavese (di San Zenone), poco importa che avesse sempre avuto un debole (più propriamente: tifo) per il Genoa d’altri tempi; ciò che gli premeva era che la grandezza di entrambe le squadre contendenti rendesse grande ciò per cui lui apertamente tifava: il derby.
Ragion per cui è possibile in questo raro caso leggere di fila quasi cinquecento pagine di cronache reiterate senza annoiarsi per un nanosecondo: perché di fondo c’è la sicurezza breriana che il derby milanese sia una partita che vive di vita propria, legato da un sottile filo rosso-nero-azzurro che alla continuità nelle maglie immutabili, nell’ambientazione sansiresca, nelle rivali speranze del tifo suburbano faccia corrispondere il rinnovamento per il quale Zenga è conseguenza di Bordon che è conseguenza di Sarti che è conseguenza di Buffon Lorenzo fino a risalire al Ghezzi primigenio (così come Papin è conseguenza di Hateley che è conseguenza di Calloni che è conseguenza di Chiarugi che è conseguenza di Amarildo).


Per Brera il derby è più di una partita, è un minimo comun denominatore. È la costante fissa che rendeva importante la variabile, nel dettaglio ora di un pomeriggio luminoso (“fin troppo”, commenta Brera nel 1958), ora del treno preso in fretta e furia da Concetto Lo Bello (“che con molto fair play ci ha messo fuori”, mastica amaro Brera nel 1966), ora nelle preoccupazioni interiste per l’influenza di Baresi I (“mangia in camera, gli viene servito il pranzo da un cortese cameriere”, notifica Brera nel 1980). È il miracolo che ogni volta si rinnova e del quale, in autunno e in primavera, Brera è stato sommo sacerdote, rendendo eterno ciò che sarebbe stato dimenticato, traducendo in parole sempre nuove magoni inesprimibili.

mercoledì 19 dicembre 2007

L'accademia dei Brera

Gianni Brera
8 settembre 1919 - 19 dicembre 1992


Avendo mangiato, avendo bevuto, posso darmi alla chiacchiera smodata, disinvolta, scombiccherata.


Ho mangiato e bevuto, lunedì a pranzo, presso il bar della Pro Loco di Spessa Po, a una ventina di minuti da Pavia, per commemorare il quindicesimo della morte di Gianni Brera; e già è indicativo del personaggio e del suo mito reso perpetuo l’evenienza che per commemorarlo degnamente siano stati serviti, nell’ordine: affettati misti con cipollotti in agrodolce, frittatine, cotechino caldo con purè (come antipasti); risotto con pasta di salame, ravioli in brodo (in qualità primi); ragò, bollito di manzo, testina e gallina (quali secondi); panettone con crema, spumante (verbigrazia dessert); caffé (ossia caffé). Non pianti, dunque, ma cachinni: dalla mezza alle cinque del pomeriggio.


L’unico liquido versato in abbondanza è stato quello dei vini bianchi e rossi dell’Oltrepo pavese; fra i quali ultimi spiccava la Ciurlina, produzione esclusiva di Angelo Roveda, cugino di Brera. Il mio vicino di desco mi ha informato della curiosa origine del suo nome. Ciurlina lombardamente è la pipì che scende lenta e insoddisfacente, una pioggerellina mesta che ripugna ma non sazia. Quando il Roveda gliela serviva, Brera protestava e gli chiedeva robusti vini piemontesi, “e basta con questa ciurlina”; ciò nondimeno la beveva in abbondanza, ragion per cui il Roveda la imbottiglia oggi con l’etichetta farlocca di Ciurlina doc, da bersi solo e soltanto alla salute di chi ci vuole male e in memoria di GioannBreraFuCarlo.


Sia chiaro che alle dodici e venticinque, lungi dal conoscerlo, il mio vicino di desco non me l’immaginavo nemmanco, esattamente come l’altra cinquantina di commensali, eccezion fatta per l’amico Gino Cervi, che mi ha invitato e accompagnato (sopperendo alla mia mancanza di automobile, patente, fiducia nel mezzo meccanico e in me stesso quale guidatore), e per un professore dell’Università, che conoscevo di (chiara) fama. Non per questo alle due e un quarto uno di questi cinquanta sconosciuti s’è trattenuto dal salutarmi più calorosamente di un figlio o di un nipote, andandosene verso altri improrogabili impegni; non tanto per via della Ciurlina (ma anche), quanto per il contenuto dell’intuizione che avevo espresso precedentemente riguardo al motivo fondante dell’incontro stesso, e cioè (ci vuole un nuovo capoverso per dirlo):


1) che Brera aveva rispolverato l’antica origine aggregativa della letteratura, facendo vivere i suoi scritti dagli incontri gastronomici con la miriade di amici a Spessa come altrove; 2) che Brera ha anzi fatto dell’aggregazione la ragion d’essere della letteratura sua, portando il linguaggio colloquiale, il vernacolo e l’apostrofe diretta al lettore a un livello di naturalezza sconosciuto al secondo dopoguerra letterario italiano, così intento a rimirarsi l’ombelico sporco; 3) che di conseguenza il lettore è posto sullo stesso livello dell’amico, e che anzi amico e lettore sono interscambiabili: ragion per cui, 4) al bar della Pro Loco di Spessa Po trovano posto parenti (come il Roveda), amici di vecchia data (che lo chiamano Giovanni), allievi giornalisti (quorum Claudio Gregori, che conquista raccontandomi una Torino-Hajduk Spalato di venticinque e rotti anni fa), calciatori (Mario Corso, sinistro di Dio), ammiratori che rimpiangono di essere nati troppo tardi (io medesimo) senza distinzione alcuna. Nessun paravento ideologico, nessun separè psicologico: ancora amici di Brera, con la differenza che è presente soltanto nelle decine e decine di foto sui muri.


(Parentesi e intermezzo di gratitudine: a un certo punto Gino Cervi è impazzito e, avendo saputo del mio morboso collezionismo joyciano che mi spinge da anni ad accumulare edizioni diverse dell’Ulisse di Joyce, me ne ha regalato sull’unghia una, maiuscola e critico-filologica, in tre volumi e con la riproduzione a fronte delle singole varianti e correzioni autografe sul dattiloscritto originale; quella Gabler sulla quale s’è basata poi la moderna traduzione Mondadori.)


Ne segue il corollario che non c’è differenza particolare fra gli scritti giornalistici, letterari, biografici e quant’altro di Brera: è sempre la stessa voce che parla, è sempre lo stesso orecchio che ascolta. Nella fattispecie, lunedì scorso, la voce è stata quella di Gian Felice Facchetti (figlio e attore), che ha letto fra antipasti primi e secondi sei passi breriani diversi di quarantacinque secondi ciascuno (ha tenuto a specificarlo il brerologo Andrea Maietti, quale dimostrazione che non servono tante parole ma poche e giuste; e dovrei tenerlo da conto, tanto più che ho appena scoperto che anni fa Maietti ha pubblicato per Limina un volume intero per il mio ciclista preferito di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le strade e di tutte le misure: Gianni Bugno).


Dai lineamenti di Facchetti junior emergono decisi quelli del padre, a ben guardare sotto i riccioli e la barbetta, e dopo due o tre bicchieri di Ciurlina (vabbe’ sette; otto, giuro, non uno di più) mi verrebbe quasi voglia di dirgli che suo padre, Facchetti Giacinto, l’ho visto una sola volta e mai allo stadio, ma solo attraversante la strada al centro di Milano; solo che lo faceva trasformando le strisce pedonali in fascia sinistra con un piglio, con una nobiltà, con un mento alto e fiero tale che perfino chi non capisse nulla di calcio (come mia madre, ad esempio, o certi giornalisti che so io) a vederlo in impermeabile e mani in tasca non avrebbe potuto che esclamare: “Ecco, quello è Facchetti!”.


Ma non l’ho fatto. Mi sono limitato ad avvicinarmi a Corso Mario per chiedergli un autografo, che ora impreziosisce l’invito/menu del bar della Pro Loco (lo stesso fa il signore che mi siede di fronte; e poi aggiunge che porterà menu e autografo in omaggio a suo padre, di cui Corso era la gioia, al cimitero); e a stupirmi quando, insieme al panettone, è comparso Paolo Brera, figlio, che a una certa s’è sistemato a parlare col Professore di cui sopra sotto una foto del padre con la pipa: e, sant’Iddio, erano uguali pure loro, il figlio e la foto. Commozione, viene quasi meno il rimpianto di non aver visto Brera vivo e operante (morì che io avevo dodici anni e dieci giorni; me ne informò mio padre al mio risveglio, esattamente come aveva fatto tre anni prima per Scirea; boia d’un mondo, va’ a vedere le coincidenze).



Ma si erano fatte le cinque, bisognava tornare agli ultimi scampoli del pomeriggio lombardo, ché da queste parti è già quasi ora di cena e un pranzo lungo è altrettanto vergognoso; cercando qualcuno che mi riaccompagnasse (Gino Cervi è andato verso Lodi con Maietti) la Ciurlina entrata in circolo mi ha permesso di godere di visionaria lucidità mnemonica; così da non rimpiangere più di non avere la patente anzi benedire addirittura i viaggi in treno, durante i quali si può leggere di più; come ad esempio quello da Pavia a Brescia che mi ero sobbarcato due giorni prima e che iniziava medias in res con l’acchito di Luciano Bianciardi:


Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo da un alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della dentale intervocalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno: sarebbe a dire che la più lombarda di tutte le parole, pensa te, suona Braida, Brèda, Brera.

sabato 15 dicembre 2007

Lo Stato dei Licei: 4, il gran consiglio (bis)

[Mannaggia. Io sono intollerante, ragion per cui non tollero i treni, le femministe, i comunisti, i mussulmani, i propagandisti dell’omoerotismo, i venditori ambulanti, l’Inter, l’Alto Adige, i punti esclamativi, le dichiarazioni d’amore (attive e passive), Repubblica e le dediche. Ciò nondimeno stamattina riflettevo che sarebbe stato un buon gesto dedicare la mia tesi di dottorato alla memoria del mio primo professore di filosofia, sempre che ciò non gli implicasse l’addossamento della colpa di essere diventato filosofo di professione (o meglio storico della filosofia, ché confondere gli uni e gli altri è come scambiare i cavalli per fantini). Piuttosto perché da ragazzini si tende a focalizzare, isolare, rifiutare quelli che possono essere i singoli inevitabili difetti di ogni insegnante; salvo poi ritrovarsi pari pari addosso gli stessi difetti, gli stessi tic metodologici, le stesse circonlocuzioni e talvolta gli stessi errori – così come la tragedia di ognuno consiste nel voler scappare dai suoi genitori e poi, una volta riuscitoci, nel guardarsi allo specchio e scorgervi un preoccupante miscuglio del peggio di suo padre e sua madre. Fissando per iscritto ciò che ci urta di ogni adulto o maestro o superiore altro non si fa che esteriorizzare le proprie nevrosi e idiosincrasie finendo per tratteggiare profeticamente il ritratto di come inevitabilmente diventeremo, mannaggia. Ed è quello che presumibilmente non sa di aver fatto Silvia G nella continuazione della sua carrellata professorale:]


-ficienti. [Nota di Gurrado: non è che Silvia G è improvvisamente diventata dadaista o scema, è che sto riproducendo la pagina successiva del resoconto che avevo già iniziato a trascrivere, tramandare e travasare già la settimana scorsa]
-Come avrete notato-, introduce la Fiorello, -vi abbiamo fatte entrare con venti minuti di ritardo. Ciò non è certo dovuto a una nostra leggerezza, credetemi. Avevamo molto di cui discutere-, a questo punto alza lo sguardo severo e accigliato verso di me, pietrificando i miei sensi e trasmettendomi sentimenti di aspra ostilità, -molto di cui discutere, care le mie ragazze. Davvero molto.
-Tralasciando momentaneamente il vostro rendimento generale-, prosegue la professoressa Selli, -mi risulta che alcuni di voi, la settimana scorsa, si divertissero a giocare con le macchinine durante le mie lezioni, costruendo tra l’altro delle rampe di lancio in ultima fila e facendo a gara per chi riuscisse a scagliare il suo mezzo più lontano.
[NdG: ce l’ho: ai miei tempi però giocavamo a Shangai, che era più pacifico. Ma talvolta simulavamo risse.]
-Per la verità-, interviene la mia collega Eleonora F, -non si trattava di macchinine, bensì di piccoli skateboard trovati in una confezione di merendine. I mezzi in questione, tra l’altro, erano solo due.
-Sorvolerò su questa precisazione-, sospira la professoressa Fiorello, -ma mi è stato riferito inoltre che alcuni di voi hanno introdotto nell’edificio scolastico degli alcolici
[NdG: noialtri non solo avevamo celebrato l’ultimo compito di latino stappando spumante invece di pensare alla versione, ma avevamo anche filmato il tutto. Però all’epoca non esisteva YouTube, e forse nemmeno internet]. Questo è un fatto gravissimo e assolutamente inaccettabile!
Deglutisco a fatica; i pochi argomenti di difesa che avevo in mente sono drammaticamente evaporati. Che dire?
-Era un termos pieno di vin brulé-, precisa la professoressa Gatto, -ed è stato consumato durante la mia lezione, per festeggiare la vittoria di una partita di calcetto contro la Secondaccì
[NdG: oggi sono sul nostalgico andante (sarà la digestione) e ricordo che le nostre sfide calcistiche, ai tempi, si chiudevano sempre su risultati che ci stavano un po’ stretti: 3-1, 5-1, 14-1, 16-1 – per gli avversari].
-Un termos! Vi siete portati a scuola un intero termos!-, esclama la professoressa Pedro, indignata. Io non mancherei di ricordarle che lei stessa, qualche tempo fa, aveva portato in classe un termos, e che quindi ha ben poco di cui scandalizzarsi; certo, il suo era pieno di caffè, e la nostra situazione è già abbastanza critica, quindi decido di tacere.
-Mi soffermerei inoltre-, prosegue la professoressa Gatto, -sul fatto che gli studenti non arrivino mai puntuali alle mie lezioni di ginnastica.
Felice che l’argomento vin brulé sia caduto, colgo la palla al balzo e intervengo:
-La responsabilità di ciò non è sempre nostra, professoressa. Dobbiamo aspettare che i suoi colleghi delle ore precedenti finiscano la loro spiegazione e, se impiegano qualche minuto in più, noi certo non possiamo andarcene come se nulla fosse.
-Sicuro!-, esclama irata la Gatto, -Quando poi sono io a invadere ore altrui, allora si grida all’ingiustizia e allo scandalo!
Non so nuovamente come ribattere. Sorprendentemente, a venirmi in aiuto è la professoressa Fiorello:
-Non voglio prendere posizioni impopolari, Gemma, ma ammetterai che un’interrogazione di latino, in questa scuola, potrà ancora avere la precedenza sulle prestazioni dei ragazzi alla spalliera.
-Ancora con questa gerarchia delle discipline?-, interviene la professoressa Ivani, insegnante di inglese, -Ancora con l’idea che il greco sia più importante dell’inglese?
-No di certo-, risponde timidamente la professoressa Arcangelo, -però… ammettiamolo… la storia… la filosofia… in un liceo classico…
Esplode il finimondo: l’argomento toccato ha sempre il potere di mettere in crisi l’autocontrollo delle nostre professoresse, che tutte desiderano vedere riconosciuta la propria disciplina come fondamentale e più importante delle altre
[NdG: quando è invece evidente che di tutte si può fare a meno, a parte educazione fisica]. La professoressa Allori, in un delirio di onnipotenza, litiga a turno con la Pedro e la Ivani; la professoressa Fiorello è ora passata a un’animata discussione con la professoressa Selli riguardo all’utilità delle scienze rispetto al greco, lasciando all’Arcangelo la professoressa Gatto, la quale rivendica l’indubbia precedenza che gli esercizi ginnici dovrebbero avere rispetto allo studio di qualche rachitico filosofo del passato, al grido di “mens sana in corpore sano” (che lei storpia, non conoscendo il latino, in “mense sane in porpore sane”); nel frattempo, l’Allori si è scagliata contro la Fiorello, che continua però ad incalzare la Selli, la quale è tornata a litigare animatamente con la Ivani. La mia collega Eleonora F ed io osserviamo la scena, con la sensazione di trovarci nel bel mezzo di un dibattito televisivo della domenica pomeriggio, o di una puntata particolarmente vivace di “Porta a Porta” [NdG: ho appena realizzato, in un loop spaziotemporale, che “Porta a Porta” veniva trasmesso già quando io facevo il liceo]. Il professor Boni, altrettanto turbato, si guarda attorno con aria interrogativa, non avendo ben compreso le origini dell’anarchico conflitto tra le colleghe.
All’improvviso, una bidella bussa alla porta, facendo cadere nell’aula il più religioso silenzio:
-Scusate tanto, ma sono le sette e mezza, e la scuola avrebbe già dovuto chiudere da un’ora…
[NdG: si resta ammirati e pressoché sconvolti di fronte all’idea di una bidella che entra in un’aula dicendo “Scusate tanto”. È tuttavia presumibile che si tratti di una licenza poetica]
-Oh perbacco!-, esclama la Fiorello.
-Accidenti!-, fa eco la Selli.
-Così tardi!-, aggiunge l’Ivani.
-Bene!-, esclamiamo all’unisono la mia collega Eleonora F, il professor Boni e io, -avremo modo di continuare la discussione in un prossimo consiglio di classe.
-Tra cinque mesi…-, sospira la professoressa Fiorello, profondamente avvilita, -e non abbiamo neanche toccato gli argomenti più problematici della vostra sezione!
Nel frattempo, io ho già indossato il mio cappotto, mi sono già avvolta nella sciarpa, ho già salutato educatamente tutti e ho già trascinato la mia collega fuori da quel girone infernale, anche perché il caldo dei termosifoni, così vestita, mi è diventato assolutamente insopportabile.
Il consiglio è sciolto, l’animo è sereno e la notte è giovane.
E noi quindi usciamo a riveder le st
[NdG: sul quaderno di Silvia G c’è un’enorme e imprevista macchia di caffè, pertanto il manoscritto termina qui]

giovedì 13 dicembre 2007

Politically incorrect

Tanto per cominciare, la senatrice Anna Finocchiaro (Pd – ex Ulivo – ex Ds – ex Pds –ex Pci) ha accusato gli uomini tutti (nel senso di maschi, non nel senso di figli di Adamo) di essere giunti al capolinea, di essere ormai esausti, incapaci, isterici. È la vacca che dà del cornuto al ciuccio?

Giova ricordare che abbiamo corso il rischio che la non-esausta, non-incapace e non-isterica senatrice diventasse Presidente della Repubblica, com’era stato ventilato da voci di corridoio un anno e mezzo fa. Si sarebbe trattato di uno dei pochi casi in cui sarebbe stato addirittura meglio, che ne so, Napolitano.

Per non parlare di non so più che senatore di non so più quale partitino della Cosa Rossa che aveva proposto al Senato di votare un emendamento che condannava ad anni tre di reclusione chiunque utilizzasse il termine frocio (e derivati) in maniera palesemente spregiativa. Ora, a parte che non ho ben presente quali possano essere i casi in cui si possa utilizzare il termine frocio in maniera palesemente elogiativa, con un rapida sommatoria ho calcolato che ora come ora sarei già bello pronto per l’ergastolo. In ogni modo, una volta appurato che non si trattava di un pesce d’aprile (a dicembre?), il presidente Marini ha dato il via alla votazione. Non ho seguito la diretta, ma sarebbe stato stupendo se il presidente Marini, dichiarata conclusa la votazione, col suo sornione accento marsicano avesse sentenziato: “Il Senato respinge l’emendamento di quel frocio”.

Emendamento per emendamento, in Italia si pensa sempre a difendere gli omosessuali (perfino la Binetti, ieri, ha ammesso che costoro possono essere dei discreti stilisti, bontà sua) e non si difende quasi mai la dignità delle donne (perfino quella della Binetti andrebbe difesa di tanto in tanto, non è vero, compagni del Partito poco Democratico?). Quando faremo un bell’emendamento per proibire a non so più quale senatrice dei Verdi di aggredire non so più quale senatrice comunista perché sfoggia una pelliccia, manco fosse una signora che ha freddo? O per evitare che la Brambilla (e con lei la Carfagna, la Prestigiacomo, la Carlucci, la Santanché, la Mussolini, etc. etc.) venga sprezzantemente giudicata dalla medesima senatrice Finocchiaro secondo la quale i tempi della politica sono più lenti del tempo massimo che consente a una donna di mostrare le (belle) gambe? È la tipica frase di chi non le ha altrettanto belle e pertanto le ritiene superflue; come gli uomini quando dicono che in fondo in fondo le dimensioni non contano.

Dev’essere una vendetta divina questa che stare a sinistra progressivamente imbruttisce. Non so se l’avete notato, ma se vi infiltrate in un corteo di giovani sinistrorsi noterete che è pieno, sit venia verbo, di gnocca. Dopo di che non so cosa succeda ma quelle stesse signorine, man mano che fanno carriera, diventano la Finocchiaro, la Palermi, la Bindi, tutt’al più la Pollastrini. Perfino Giovanna Melandri (che il correttore automatico di microsoft word, maschilisticamente, prima che possa accorgermene corregge sempre in Meandri) da quando si è trasformata da icona a ministro s’è imbruttita notevolmente - forse perché temeva che la Finocchiaro la accusasse di non essere adeguata ai tempi lenti, o ai fianchi larghi, della buona politica?

A proposito della Brambilla, la notiziona di ieri è che intervenendo alla Tv della Libertà Berlusconi ha detto esplicitamente che: 1) il Partito del Popolo Italiano della Libertà non pone come pregiudiziale lo scioglimento degli altri partiti della crollata Casa della Libertà; 2) il sistema di voto proposto da Veltroni è applicabile solo nel caso di dichiarazione preliminare delle future alleanze governative; il che, tradotto, è esattamente quello che Fini chiedeva di dichiarare da tre settimane almeno. Per rincarare, Berlusconi ha aggiunto che con Gianfranco (sono così teneri quando si chiamano per nome) si sente per telefono e che i rapporti stanno tornando cordiali. Insomma, è la prima schiarita a destra e il possibile ritrovamento di una piattaforma comune di discussione fra il Pdpidl (Gesù, speriamo che cambi nome, l’idea è buona ma la sigla è improponibile) e An. Ragion per cui cosa succede? Berlusconi viene indagato a sorpresa per corruzione e la vera notizia politica viene bruciata, oscurata, nascosta.

Ah, la Brambilla! L’unica Cosa Rossa che mi piace è la sua.

(Fra parentesi, stamattina mezza pagina del Corriere della Sera spiegava che Fini e Veltroni vorrebbero farlo alla francese ma non possono. Spero che non sia una conseguenza della mancata approvazione dell’emendamento del frocio).

Vorrei far notare che sono pienamente consapevole di come i capoversi qui sopra siano estremamente volgari, offensivi, gratuiti; e me ne vergogno oltremodo. Sono altresì consapevole che se avessi parlato di Furio Colombo immerso in una vasca da bagno con Prodi e un trans procacciato da Sircana che gli pisciano addosso, il procuratore di Napoli che gli caca in bocca e la Finocchiaro in completo sadomaso che li frusta tutti quanti sarei diventato un eroe e un martire della libertà di parola.

Comunque consoliamoci e anzi rallegriamoci. Quando Berlusconi viene indagato vuol dire che le elezioni sono vicine.

martedì 11 dicembre 2007

Gurrado in Spagnolo, Shakespeare in Latino

Abrí la puerta de la entrada y pregunté: «¿va bien la pasta al ragú?»: mi è appena arrivato il file di prova contenente la traduzione di un mio racconto per una rivista spagnola. Invece di dilungarmi su come mai va a finire regolarmente che le riviste letterarie italiane, forse perché non le seguo mai con la morbosa regolarità che dedico al Guerin Sportivo, quelle due o tre volte che ho tentato di spedir loro dei miei racconti me li hanno sempre rispediti indietro variamente schifate – dicevo, inevce di tutto questo preferisco concentrarmi sulla meraviglia inevitabile di quando ci si legge in una lingua diversa, e per giunta non la si conosce. Ammetto candidamente che per me è la prima volta; e che i miei sforzi di controllare la traduzione, secondo la corretta richiesta dal traduttore, stanno naufragando fra i marosi della mia ignoranza linguistica. Uno crede di avere ben presente ciò che ha scritto, anzi, pensa che i suoi prodotti siano inscindibile parte di sé stesso; poi arriva un file di prova e si passa mezza mattinata ad arrovellarsi per cercare di capire ciò che si è scritto, inventandosi una lingua parallela le cui regole immaginarie valgano, con alterna verosimiglianza, esclusivamente all’interno delle poche pagine etero-tradotte. Accade in quel momento che il testo prenda vita propria, indipendente da chi l’ha scritto; e che l’autore non possa fare altro che restare ammirato a guardarlo, cercando di capirsi: come se dall’altro lato della pagina ci fosse un Gurrado che io ignoro ma che parla Spagnolo, e tentasse di insegnarmelo.

Sto leggendo un libro meraviglioso: per la prosa in cui è scritto, per l’apparato iconografico, per la relativa difficoltà a trovarlo in Italia (è stato pubblicato da Jonathan Cape nel 1970, e ripubblicato da Carroll & Graf nel 2002), nonché per l’autore (Anthony Burgess) e per l’argomento (Shakespeare: che scrivo in corsivo poiché è anche il titolo). Come si sa, il problema con Shakespeare è che ha lasciato molte più parole scritte di quante, scritte da altri, testimonino la sua effettiva vita, così che al pari di Omero il suo ruolo nella letteratura è talmente decisivo che potrebbe benissimo non essere mai esistito. Anthony Burgess è un romanziere (esageriamo: è il più grande romanziere del secondo dopoguerra. Non si accettano discussioni), e a Shakespeare ha dedicato anche un fantasioso resoconto romanzesco (Nothing Like the Sun, 1964), la sceneggiatura Will and Testament, nonché una cospicua parte di Enderby’s Dark Lady e un sottobosco di riferimenti in opere diverse sufficienti a riempire un’enciclopedia intera. La peculiarità dello Shakespeare di Burgess è che in questo caso il romanziere cede il passo al biografo, e consiste proprio nell’aggiungere parole verosimili alle poche parole vere che testimoniano l’esistenza del biografato (particolarmente sfuggente in questo caso). Spiega Burgess: “Ogni biografo anela a qualche nuovo gesto reale – un’unghia tagliata il 7 maggio del 1598, o un brutto raffreddore durante la prima spedizione guidata da Re Giacomo I – ma il gesto non si materializza mai”. Tutt’al più possono materializzarsi le parole, ed è questo che fa lo scrittore: ragion per cui viene un brivido a pensare al corto circuito letterario quando si manifestano le prime e pressoché uniche parole che traggono Shakespeare fuori dalla sua nube immaginaria, nella riproduzione fotografica dei registri parrocchiali di Stratford-upon-Avon che il 26 aprile 1564 riportano il battesimo di “Guglielmus filius Johannes Shakspere”. Segue la firma del padre: “XXX”.

Shakespeare potrebbe benissimo non essere mai esistito, però, e inquieta la somiglianza fra il suo ritratto e quello dell’altro grande commediografo elisabettiano, Christopher Marlowe. Non bisogna eccedere in buon senso per ritenere che lo Shakespeare calvo possa essere la versione matura del giovane Marlowe capellone; tanto più che questi è morto ucciso nel 1593, poco prima che iniziasse il celebrato “secondo periodo” di Shakespeare, con il Romeo e Giulietta del 1595. In Shakespeare in Love Tom Stoppard, che proprio fesso non è, fa sì che Shakespeare si cavi d’impaccio rispondendo brillantemente a uno scagnozzo che lo interrogava (con annesso coltellino) riguardo alla propria identità: “Io sono Christopher Marlowe”.

Noi conosciamo Rowan Atkinson soprattutto come Mr Bean, ma in Inghilterra è famoso soprattutto per la situation comedy storica Blackadder. La seconda serie (del 1986), ambientata durante l’età elisabettiana, prevede una puntata sull’invidia di lord Edmund Blackadder nei confronti di sir Walter Raleigh, impegnato a percorrere in lungo e largo i sette mari per portare regalini alla deliziosamente isterica regina Elisabetta. Per riguadagnarne i favori, Blackadder decide di salpare e in suo omaggio la Regina compone il poemetto Edmund: “When the night is dark / and the dogs go bark, / when the clouds are black / and the ducks go quack, / when the sky is blue / and the cows go mooo, / think of lovely Queenie / she will be thinking of you” (“Quando la notte è oscura / e i cani fanno bau, / quando le nuvole sono nere / e le anatre fanno quà, / quando il cielo è blu / e le mucche fanno muuu, / pensa alla cara Regina / e lei penserà a te”). Dopo di che ammette compiaciuta: “Shakespeare mi ha aiutato col titolo, ma il resto è tutta farina del mio sacco”.

Questo divertissement senza filo conduttore intende nel suo piccolo onorare la memoria di Liana Macellari, vedova di Anthony Burgess, morta a Sanremo lo scorso 3 dicembre.

lunedì 10 dicembre 2007

Meridione per meridionali

(Gurrado per Books Brothers)


La consueta diffidenza che mi assale di fronte alle uscite antologiche si squaglia quando mi trovo di fronte Sporco al Sole, dell’editore Besa. Primo perché conosco i tre curatori – Gaetano Cappelli, Michele Trecca ed Enzo Verrengia – e da loro comprerei macchine usate a bizzeffe, figurarsi nove racconti assortiti. Secondo perché spogliano il libro della sovraccoperta impressa quest’anno (come numero 142 della collana Lune Nuove) si rivela la sottocoperta del 1998, quando (come numero 3 della collana Books Brothers) era stata pubblicata la prima edizione della incontestabilmente prima antologia di narratori meridionali under 25 (“o quasi”, come recita il sottotitolo). E poi perché quest’antologia ha oggettivamente segnato una strada, stante che di lì a poco l’Einaudi niente meno (versante Stile Libero) pubblicò Disertori che altro non faceva che ampliare l’intuizione ascrivibile ai tre curatori di Sporco al Sole, firmatari dell’accorato appello – ritrasmesso dalla Gazzetta del Mezzogiorno come da Radionorba e da un ammirevole elenco di mass media volenterosi – al sommerso dei giovani autori meridionali, così riassumibile in tre domande: “Esistete davvero? Scrivete sul serio? Perché non pubblicate?”.

E, con esiti miracolosi per simili operazioni di censimento che solitamente lasciano il tempo che trovano, si scoprì che i giovani giovanissimi autori meridionali esistevano davvero, scrivevano sul serio, potevano pubblicare. Mi pare furba la scelta dell’editore Besa che non ha tanto pensato a rifare il libro quanto semplicemente a riproporlo con una giacca nova – addirittura con l’attuale recapito leccese (di Nardò, nello specifico, altrimenti Livio Romano mi mangia) appiccicato in semitrasparenza sul vecchio indirizzo barese (via Jatta, se non mi sbaglio). L’operazione non è peregrina poiché intende fornire un come eravamo, retrospettiva significativa nel momento in cui diventa specularmente un come siamo diventati nel frattempo. I curatori, innanzitutto: Michele Trecca nel 2004 ha edificato L’Albergo delle Storie, calendario di narrativa contemporanea che aiuta non poco ad orientarsi in ciò che è troppo vicino per essere ben distinto (sono un critico presbite, io); Enzo Verrengia si è visto ripubblicare La Notte degli Stramurti Viventi e ora è autore riconosciutamene nero e sanguinario per Avagliano (Divora il Prossimo Tuo e Complottario); Gaetano Cappelli, be’, è Gaetano Cappelli: allora aveva appena esordito con Marsilio (Floppy Disk), ora si gode la gloria della Storia Controversa dell’Inarrestabile Fortuna del Vino Aglianico del Mondo (l’altro giorno era dalla Dandini, nientemeno) dopo due romanzi destinati a non essere dimenticati tanto facilmente come Parenti Lontani (Mondadori) e Il Primo (Marsilio).

La scommessa vera, però, era nella scoperta e selezione degli autori. All’epoca Livio Romano era il più grandicello, avendo trent’anni (sono sempre stato dell’idea che i limiti di età per i concorsi letterari debbano essere malleabili; e a trent’anni Livio Romano quanto a verve sperimentale era più under 25 di molti adolescenti smorti d’oggidì), e quello destinato ad avere più successo immediato, con l’immediata inclusione in Disertori (nel 2000), con la successiva ripubblicazione dei tre racconti pubblicati da Besa, insieme ad altri, nella raccolta mono-romanica Mistandivò (Einaudi, 2001) e poi con la digressione impegnata Porto di Mare (Sironi, 2002) che lo ha portato adesso, dopo un congruo silenzio narrativo, a conseguire i riconoscimenti mica da ridere di Niente da Ridere (Marsilio, 2007). Ora ha quasi quarant’anni.

Un anno in meno di Romano, ventinove all’epoca, aveva Ottavio Cappellani che nell’antologia è il prosatore più raffinato, che avvolge la pagina in volute quasi snob di prosa svogliata, lenta, calibrata; e che con lo stesso ritmo lento e consapevole collabora al Foglio (che è il quotidiano meglio scritto d’Italia, quindi contrariamente al solito collaborarvi per uno scrittore è un merito) producendo nel frattempo due romanzi di fascino come Chi è Lou Sciortino? (nel 2004 per Neri Pozza, che è a mio avviso l’editore che più di ogni altro sta attento a tenere alta l’asticella della selezione in base ai ritmi della prosa) e all’inizio di quest’anno il conto mitopoietico Sicilian Tragedi (si legga tragedài) per Mondadori, mica pizza e fichi.

Annalucia Lomunno aveva venticinque anni e non era ancora sposata. Rosa Sospirosa fa la sua prima comparsa in Sporco al Sole, con circa trenta pagine fitte di abissi dialettizzanti e picchi latineggianti, come se l’autrice fosse una pianista che si esercita a fare le scale (suonava davvero il pianoforte, all’epoca, si vede che ogni arte trasmette qualcosa a un’altra). Dal punto di vista strettamente semantico, il suo racconto è il più – interessante è dir poco, il più – dirompente di tutta l’antologia, in quanto porta avanti la miscela di alti e bassi soppesando la paratassi, i dialoghi, le singole sillabe con sorprendente saggezza: e difatti Rosa Sospirosa, allungato e reso romanzo compiuto, venne pubblicato nel 2001 da Piemme, che due anni dopo le pubblicò anche Nero Sud. Da che sono quattro anni che attendo il terzo romanzo di Annalucia Lomunno, pronto a comprarlo trenta secondi dopo la stampa della prima bozza, avendo dovuto a malincuore rinunziare a sposarla.

Non conoscevo Francesco Dezio, nella mia somma ignoranza; ed è di Altamura, a dodici chilometri da casa mia (ribadisco che sono letterariamente presbite, lince da lontano e talpa da vicino). Apprendo dalla tuttologia internettiana che nei dieci anni intercorsi ha pubblicato un solo romanzo per una grande casa editrice (Nicola Rubino è entrato in Fabbrica, Feltrinelli, 2004), il quale dev’essermi sfuggito per conclamata allergia feltrinellesca. Eppure il suo racconto, che la mia stessa somma ignoranza mi ha permesso di leggere senza il filtro del tempo, come se oggi avesse ancora i ventott’anni di allora, ha le stesse corde della Lomunno nell’altalena semantica, stavolta particolarmente vivace e quasi cruenta, fra dialetto e lingua nazionale (come scrive lui stesso, “Parla tricolore!”). Un romanzo in più anche per Giovanni Di Iacovo (Sushi Bar Sarajevo, Palomar 2005), il cui racconto per Sporco al Sole è una distopia surreale con qualche colpo di genio che ai tempi nostri può procurargli gloria di lungimirante (come l’ipotizzazione – e si balza sulla sedia a leggerlo dieci anni dopo – di un grande “Partito Apolitico Democratico”). Da quel che ho capito Francesca Forleo, il cui racconto apre l’antologia di Besa, nel corso di questi dieci anni è diventata giornalista per il Secolo XIX, e questo potrebbe sorprendere: ma il Secolo XIX non è di Genova? E infatti la Forleo, essendo di Genova, aveva potuto partecipare all’antologia in quanto sangue misto, come rivendica fieramente nel suo curriculum riprodotto in quarta di copertina, e forse anche perché Genova è una città del Sud capitata un po’ troppo in alto.

Infine c’è Luigi Biamonte, del quale non ho altre notizie se non l’età precisa, ventisei – quasi ventisette – anni adesso, come me. Il che mi fa pensare (e, eliminando una consonante, mi fa pure penare): se già allora, visto che esistevo davvero e scrivevo sul serio e volevo pubblicare, avessi mandato alla premiata ditta Cappelli-Trecca-Verrengia un racconto di quand’ero maturando e ragionevolmente felice, un brano di quando solevo scrivere a mano su enormi quaderni a quadretti religiosamente conservati e mai più riaperti, un estratto di un romanzo magari che andavo scrivendo con periodi ininterrotti e ipotattici sempre più lunghi fino al confine estremo delle venti pagine filate per un solo punto interrogativo finale, l’antologia pubblicata nel 1998 e riedita quest’anno sarebbe stata di una dozzina di pagine più lunga?

sabato 8 dicembre 2007

Lo Stato dei Licei: 3, il gran consiglio

[A che età si diventa grandi? È un po’ come chiedersi quanti granelli di sabbia sono sufficienti a fare un mucchio, quanti alberi fanno un bosco (cento: se sono novantanove si tratta di un arboreto) o quanti terzini destri argentini debbano ancora essere comprati dall’Inter. I decreti delegati, che hanno introdotto nella scuola la democrazia e con essa la rovina irreversibile, obbligano di anno in anno una classe liceale a scegliere al proprio interno i due membri più autorevoli, più alfabetizzati, più verosimili – in una parola più adulti – per rendere conto delle comuni malefatte nel consiglio di classe. Ammantati dalla nobiltà che deriva dall’ingresso nella scuola al pomeriggio, quasi fosse un vero luogo di lavoro, i rappresentanti di classe si presentano vestiti bene e magari con un quotidiano in tasca per darsi un’aria più cresciuta di fronte ai professori; finché non si rendono conto che questi stessi professori, una volta lasciati a sé stessi senza il controllo di una ventina di adolescenti, l’età adulta non l’hanno ancora raggiunta del tutto. Sarà perché la scuola mantiene giovani?]

Gurrado, si è solitamente abituati a trovare dall’altra parte della cattedra un solo insegnante, un singolo e solitario individuo, che pure ha potere di vita e di morte su tutte le decine di alunni che siedono dietro ai banchi. Il manico del coltello è dalla sua parte [Nota di Gurrado: sarà che il manico ce l’ha lui, ma in alcune scuole che conosco io il coltello ce l’hanno gli alunni, sul serio], o meglio, è dalla sua parte il famigerato registro scolastico, arma molto più potente e temuta. Eppure, come si suol dire, è l’unione a fare la forza: l’idea di essere in tanti contro uno solo può alleggerire la frustrazione degli studenti, e placare un poco lo spirito, sadico per natura, dei professori.

La situazione acquista però una tinta più fosca quando i ruoli si invertono, e cioè quando gli studenti diventano improvvisamente un’esigua minoranza, in opposizione al gran numero di insegnanti dietro la cattedra: ciò avviene durante il Consiglio di Classe. Alla mia collega Eleonora F e a me è stato assegnato l’ingrato compito di rappresentare la Terzaddì in sede di consiglio [NdG: devo trarre indebite conclusioni? Ai miei tempi, in quarta ginnasio, avevamo frainteso il senso dell’elezione e avevamo nominato rappresentanti Lucia e Annarita, sull’esclusiva base della considerazione che si trattava, ehm, delle due più gnocche], e di varcare quindi le porte di un’aula dove i nostri professori hanno appena terminato lo scrutinio per le pagelle di metà quadrimestre, nonché discusso sui numerosi e svariati problemi riguardanti la nostra sezione. Il clima generale non è dunque tra i più distesi, e risuonano ancora nell’aria tutte le velate imprecazioni [NdG: si noti la raffinatezza stilistica di Silvia G la quale, probabilmente senz’accorgersene nemmeno, ha lasciato cadere dal proprio inconscio letterario nelle “velate imprecazioni” il riferimento del Foscolo all’ “Amore in Grecia nudo e nudo in Roma / d’un velo candidissimo adornando”, etc. etc.] e i coloriti insulti pronunciati dagli insegnanti fino a un attimo fa. Entrando, noto infatti che le loro gote sono alquanto arrossate, forse a causa della temperatura decisamente eccessiva dei caloriferi, o più probabilmente per via del disperato impeto che hanno messo nel dare sfogo ai loro sentimenti di sconforto.
Saluto con garbo e mi siedo. Davanti a me, un quadretto che ricorda vagamente L’ultima cena di Leonardo: una lunga tavolata composta da alcuni banchi uniti, imbandita di agende, registri e scartoffie varie, dietro la quale siedono, solenni e severi, tutti i docenti, pronti a pronunciare il loro grave giudizio conclusivo. Al centro, la già citata professoressa Fiorello, insegnante di latino e greco, coordinatrice di classe, nonché portavoce ufficiale del malcontento generale; accanto a lei, la professoressa Selli, che insegna chimica e geografia astronomica, donna apparentemente innocua che nasconde però un profondo risentimento nei confronti di tutti gli studenti di sesso maschile, in quanto si mormora che il fidanzato l’avesse abbandonata a un passo dall’altare in gioventù, trasformandola, da fanciulla ingenua e accomodante, in una femminista attiva, nonché in un’autentica zitella
[NdG: succede sempre così; ragion per cui amo le donne maschiliste]; procedendo, ecco la professoressa Pedro, personaggio obeso, ambiguo e annoiato, grande amante del caffè e dei cioccolatini, a cui sono affidate la matematica e la fisica; alla sua sinistra, la professoressa Arcangelo, insegnate [ndG: presumibilmente "insegnante", ma come di consueto opto per la lectio difficilior, grazie alla quale Silvia G mette in risalto l'insegnamento patito dall'insegnante insegnata dagli imparanti imparati, manco fosse Heidegger] irrisolta e senza speranza, che tenta con tutta la buona volontà di rendere interessanti le sue lezioni di storia e filosofia, ottenendo però penosi risultati; si procede con la professoressa Gatto, una delle tante insegnati [ndG: idem come sopra, con l'aggravante dell'ambiguità sessuale, ma la professoressa Gatto evidentemente non è una professoressa Gatta] di ginnastica convinte che la loro materia abbia lo stesso valore e la stessa importanza delle altre; di fianco a lei, la professoressa Allori, già predisposta alla pazzia fin dalla nascita, esplosa però nel più drammatico delirio solo dopo l’abbandono del marito, la quale dovrebbe insegnare storia dell’arte, anche se fondamentalmente vaneggia [NdG: si vede che è dadaista]; alla sua sinistra, la professoressa Ivani, docente d’inglese frustrata dalla competizione tra le lingue vive e le lingue morte, nonché lunatica zitella; infine [NdG: rendetevi conto, ignoranti che non siete altro, che mentre voi perdete tempo su internet e cascate qui per caso dopo aver morbosamente cercato “giovani liceali” o “professoresse severe” su Google, motore immobile del male assoluto, la piccola Silvia G ha già tanta cultura entro il proprio perimetro corporeo da utilizzare con disinvolta scioltezza la teichoscopia come tecnica narrativa; e se non sapete che minchia è mai questa teichoscopia, rileggetevi il terzo canto dell’Iliade in cui le forze armate mirmidoni vengono mostrate con una carrellata dalle Mura di Troia, roba che Baricco se la sogna], a ricoprire il ruolo di un benefico Giuda è il professor Boni, insegnante di letteratura, che non solo tradisce questo cenacolo di stravaganti donnette essendo uomo, ma che si differenzia da loro per la garbatezza dei modi, l’eccellente professionalità, la piacevolezza delle lezioni, la straordinaria competenza e la generale amabilità che lo contraddistinguono. Costui è inoltre l’unico tra i professori a non manifestare alcuna ostilità nei nostri confronti, poiché tutti i suoi studenti lo stimano e lo adorano, e nessuno si permetterebbe mai di turbare una sua lezione, o anche solo di distrarsi. Conscia della mia piccolezza e della mia impotenza di fronte a tante e tali autorità, chino il capo e mi preparo al peggio: il verdetto che la professoressa Fiorello si accinge a pronunciare mi pioverà addosso come una travolgente cascata, e i miei argomenti di difesa saranno poveri e drammaticamente insuf- [NdG: quale sarà il verdetto della professoressa Fiorello? Riuscirà Silvia G a sopravvivere a cotanta furia? Il testo si interrompe all’ultimo rigo, bisognerebbe girare la pagina ma, nel foglio a quadretti che ho strappato dal quaderno di Silvia G, il retro è costituito da delle considerazioni sintetiche ma piuttosto entusiastiche riguardo a personaggi presumibilmente famosi la cui identità mi è ignota. Procurerò di sottrarle questa settimana la pagina successiva col resto del resoconto, ma per ora non ci sono santi e il manoscritto si interrompe qui.]

giovedì 6 dicembre 2007

Meridione per settentrionali

(Gurrado per Ore Piccole)



I libri che non mi piacciono hanno tutti un titolo indicativamente scoraggiante. Il Dolore Perfetto, ad esempio, sintetizza mirabilmente ciò che ho provato leggendo ciascuna delle sue quattrocento pagine. Così anche l’ultimo di Mariolina Venezia, Mille Anni che Sto Qui, si riferisce evidentemente al tempo in cui l’ho tenuto in stand-by sul comodino preferendo fare tutt’altro piuttosto che iniziare a leggerlo. Ché poi, prima ancora di averlo iniziato, già mi pareva di averlo digerito sulla base di indizi collaterali ricavati dalla terza di copertina: la faccenda della giovane scrittrice emergente che ha quarantasei anni; la faccenda della giovane scrittrice che vive a Roma ma non ha dimenticato le proprie radici lucaneggianti e materane (di Grottole, precisamente, sempre ammesso che esista per davvero); la faccenda della scrittrice emergente che ha pubblicato una raccolta di racconti per Theoria e nientemeno che tre libri di poesie in Francia (per un romanziere pubblicare poesie non è un buon segno; pubblicare in Francia non è un buon segno; pubblicare poesie in Francia promette decisamente male; farlo tre volte è diabolico).

Allora uno già s’immagina come andrà a finire, con il ricupero della storia plurisecolare della famiglia, sintetizzata in duecentoquaranta pagine per mancanza di sinonimi, infarcita in salsa democratica con la giovane rampolla ribelle e istruita che va altrove per cambiare aria ma tuttavia non rinnega le radici eccetera eccetera; si viene assaliti dallo sconforto quando ci si rende conto che si poteva scrivere il riassunto in seconda di copertina (“un Sud poco esplorato…le vicende straordinarie e quotidiane…il destino dona tutto e non risparmia niente…assorbiti dal vortice del tempo…la fine di un mondo…padri e figli, ma soprattutto madri e figlie…gli ideali politici, le lotte…la voglia di vivere…al di là di ogni ideologia, credo e religione…due palle a cocomero…”) senza aver nemmeno non dico letto ma soltanto aperto il romanzo. Va specificato che “due palle a cocomero” è una mia interpolazione.

Ciò nondimeno la seconda di copertina resta la parte più interessante e meglio scritta del volume. La casa editrice Einaudi, che è formata da gente che se ne intende, mette in guardia il lettore di Mille Anni che Sto Qui proponendo in quarta non solo l’avvertimento biografico “questo è il suo primo romanzo”, che è l’equivalente letterario del “nuoce gravemente alla salute” sui pacchetti di sigarette, ma anche un breve estratto della prosa di Mariolina Venezia, che suona: “Fin dalla mattina, quando entrava nella camera di Gioia, iniziava a raccontare. Storie che Gioia aveva sentito migliaia di volte, due palle a cocomero” (va specificato che “due palle a cocomero” è una mia interpolazione). Per gli speranzosi, per gli ottimisti e per gli ingenui che quando comprano un libro nemmeno se lo voltano fra le mani, la Einaudi ha scelto di schiaffare in prima di copertina, nella copertina propriamente detta, la sentenza che dovrebbe costituire il deterrente assoluto: “Le loro storie diventano un’unica storia. L’unica storia possibile. Una storia d’amore. Due palle a cocomero” (va specificato che “due palle a cocomero” è una mia interpolazione).

Ma io sono temerario e, con pomposo sprezzo del pericolo, ho voluto comunque leggere questo libro che puzza di già sentito lontano mille chilometri, che vive di una prosa sorprendente come un encefalogramma piatto, che gronda retorica narrativa per ciascuna delle sue duecentoquarantaquattro pagine di romanzo e una di ringraziamenti, che ha l’unico obiettivo di descrivere un meridione completamente corrispondente a come se lo immagina chi non c’è stato mai, o chi se l’è dimenticato e l’ha confuso coi quadretti stereotipi. Sarebbe stato più vivace leggere duecentoquarantaquattro pagine di ringraziamenti e una di romanzo.

Alla fine, più che leggere, giravo le pagine; pur limitando il mio campo visivo al centro della pagina, o a un rigo su tre, come un puzzle altrui il romanzo si veniva componendo intorno ai pochi indizi che scorgevo: e i barili d’olio, e il matrimonio saltato, e il ballo del valzer, e la contestazione giovanile; se poi, divorato dagli scrupoli, rallentavo la mia corsa e mi soffermavo a leggere parola per parola il capoverso che avevo degnato di solo mezzo sguardo, ecco che il romanzo di Mariolina Venezia corrispondeva esattamente a quello che avevo ricostruito in un fugace momento di ozio immaginativo: con la sola difficoltà che era difficile distinguere fra i vari don Franceschi e Colini e Rocchi e Mimmi, come se i personaggi tutti non fossero che la solita genia di zotici malcresciuti che assaltano gli scompartimenti dei treni e sbafando panini obesi riferiscono il gran teatro dei fatti loro impedendo alle persone decenti (metaletterariamente) di leggere in santa pace oppure (cosa che sarebbe stata più utile nella circostanza specifica) di richiudere il romanzo e mettersi a dormire.

Con Mille Anni che Sto Qui Mariolina Venezia ha vinto il Premio Campiello.

mercoledì 5 dicembre 2007

Dante per tutti, Dante senza Dio

Lei viaggia sulle trame dantesche?
Le piace viaggiare sulle trame dantesche?
(Enzo Decaro a Massimo Troisi)


Vittorio Sermonti l’ha fatta fuori dal vasino nell’istante in cui ha rimproverato Benigni di leggere la Divina Commedia sulla tv generalista, operazione per la quale secondo lo scrittore letterato e critico sarebbe stato più indicato uno scrittore, un letterato, un critico: insomma Vittorio Sermonti stesso. Cosa non si fa pur di finire su Rai1. Autoproponendosi in nome della propria superiorità culturale, Sermonti ha tradito l’essenza stessa della Commedia così come la si può leggere su ogni manuale di prima liceo classico, dove Dante rivendica la propria capacità di scrivere nello stile in cui et mulierculae communicant (in cui parlano perfino le donnicciole), e al contempo il senso stesso della poesia che (soprattutto nei secoli in cui era scritta decentemente) deve saper parlare a tutti per mezzo di qualsiasi bocca. Prova ne sia che a Modena, giovedì scorso, di fronte a una sola televisione eravamo in quindici o venti, chi per vedere Benigni, chi per sentire Dante; numero che è stato superato a mia memoria negli scorsi anni solo dall’elezione del Papa e dalle partite del Mondiale. Per quanto il pubblico non debba essere l’unica unità di misura del gradimento, il consenso è necessario passaporto per la fama e l’immortalità, che a loro volta richiamano consenso col loro stesso essere famose (come Benigni) e immortali (come Dante). A sentire Vittorio Sermonti, invece, Dante andrebbe preservato da tanto affollamento e meglio sarebbe stato rivolto se esclusivamente a un pubblico colto, di scrittori, di letterati, di critici: insomma se rivolto soltanto a Vittorio Sermonti stesso.


Tuttavia ci sono delle cose che non si possono dire mai, tanto meno in prima serata, tanto meno su Rai1; e ciò sa pure Benigni, che ha la lingua sciolta e la capacità di non bere per tre ore di discorso ininterrotto. Archiviata la satira politica, avanzando nel commento del V dell’Inferno (che non era semplicistico, ma calibrato sull’esclusiva necessità di fornire al pubblico gli strumenti sufficienti alla decrittazione del verso dantesco), parlando dell’amore fra uomo donna e Dio Benigni s’è reso conto d’un tratto che stava facendo l’elogio del cristianesimo razionale; allora ha avuto la bella pensata di chiosare (cito a memoria): “Quest’etica ricavata dalla rivelazione divina è grande tanto quanto quella che è dedotta esclusivamente dalla razionalità umana.” Ragion per cui Dante avrebbe scritto altrettanta Divina Commedia se invece dei Vangeli si fosse limitato a leggere John Rawls e Sebastiano Maffettone.

martedì 27 novembre 2007

L'esegeta sempre, costantemente incazzato

Buongiorno Giobbe, amico mio.
(Voltaire)

Evviva Gioele Dix! Perché mi ha salvato dall’ennesimo sabato sera trascorso a guardare impotente l’Inter che sconfigge avversari inadeguati come l’Atalanta (che palle, e poi dicono che alla fine il bene vince sempre…). Il bello dell’abbonamento a Sky, infatti, è che uno lo fa pensando di ammazzarsi di partite di calcio, poi va a finire che si annoia e cambia canale in continuazione; così gli capita di scoprire che su Canal Jimmy, invece della consueta marea di scemenze, sta andando in onda un’estrema difesa del patto fra uomo e Dio. E pure divertente.


La Bibbia ha (quasi) sempre ragione è il one man show con cui Gioele Dix (che quand’ero bambino faceva fortuna col personaggio dell’automobilista sempre, costantemente incazzato; e che qualche venerdì fa mi è capitato di sbirciare in Zelig nel personaggio dell’automobilista nuovamente, costantemente incazzato) si libera della maschera che il tempo e il pubblico gli hanno cucito addosso (l’imitazione di Alberto Tomba o di Fabrizio Ravanelli ai tempi di Mai Dire Gol) e dà briglia sciolta alla propria capacità di comico intelligente, colto, profondo, nella miglior tradizione (soprattutto ebraica) degli stand-up comedians.

“In principio”, inizia citando Genesi 1,1 – e lo fa pronunziandolo come un’unica parola, così come l’ebraico Bereshith, a sé stante e avulsa dal resto del testo biblico, la parola che segna l’inizio del tempo ed è quindi parola creatrice, unica, irripetibile – “In principio”, inizia Gioele Dix e il pubblico si aspetta, se non lo conosce, la solita parodia ritrita della Bibbia, della fede, della religione; una spruzzata di anticlericalismo, magari. Ma subito Gioele Dix spiazza, e inizia il commento alla Creazione spiegando che Dio gli è simpatico perché un po’ gli somiglia (ed è una cosa seria, poiché c’è scritto lì: “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”). Se non che il pubblico non se ne accorge, parte l’applauso facile, si ride sguaiatamente, non si suppone nemmeno che in questa somiglianza originaria risieda il senso di due ore di spettacolo. E invece.

La parte su Giacobbe, ad esempio, è teatro immortale. Lo è dal versante comico, con Giacobbe che vede Rachele, se ne innamora e subito rimuove un gigantesco masso dalla bocca di un pozzo, “così, per fare il brillante con la cuginetta gnocca”. Dal versante umano, con Giacobbe costretto a scappare da Labano, con impermeabile e valige, che dorme scomodo come un attore in tournée con la pizza sullo stomaco, con un sasso come cuscino, ma in tutto ciò che cosa sogna? Una scala dalla quale salgono e scendono gli angeli, e lassù in cima il Signore in persona, luminoso, consolatore, fermo immobile e a portata di mano. Dal versante satirico, infine, quando lo show che il pubblico s’immagina rivolto contro la Bibbia all’improvviso si rivolta e si ritorce contro il pubblico stesso, portandolo a scegliere fra Giacobbe che attende sette anni più altri sette per avere in sposa Rachele e i giorni in cui dopo due ore del primo appuntamento, si chiede preoccupati a una ragazza: “Ti ho offerto la cena, perché non me la dai?”.

La dirompenza di Gioele Dix risiede nell’assoluta mancanza di moralismo e ipocrisia; presenta una Bibbia per uomini che vivono, mangiano, scopano, soffrono e inevitabilmente prima o poi contravvengono ai comandamenti. Il paradosso, nel quale risiede la grandezza della rivelazione giudaico-cristiana, è che non per questo la Bibbia è distante dagli uomini che più o meno volutamente si allontanano dai suoi precetti. Anzi. L’ultimo episodio, la lettura dal Qoelet, fa accapponare la pelle, travolge ogni confine prestabilito fra comicità, sacra rappresentazione, satira ed esegesi.

“Parola di Salomone, figlio di David, re di Gerusalemme”, ricomincia – e il pubblico tace assorto, non sa più se sia il caso di ridere come preventivava a inizio spettacolo. “Vanità delle vanità”, ripete, “vanità delle vanità, tutto è vanità”. Racconta la storia del re potente, longevo, sapiente, pacifico, ricchissimo, mangione, amante del gentil sesso (settecento mogli e trecento amanti – frèchete!, direbbero a Pescara); che dopo quarant’anni di gloria e bagordi si chiede “quale utilità ricavi l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole”. E racconta, al contempo, il peso vuoto che ogni uomo si porta dentro, sia re o attore comico, la forza gravitazionale diretta verso il cielo che rende insufficiente il benché piacevole accumulo di beni materiali; perché insomma – e qui si chiude il cerchio con la Creazione – tutti quanti somigliamo a Dio, anche gli atei.

Grandioso, Gioele Dix prosegue e rincara. Si scopre incontestabilmente che la risata, la satira, l’incazzatura dell’esegeta non sono rivolte contro la Bibbia, ma contro chi se l’è dimenticata. Alla fine, sopraffatto da tanta incontestabile verità, il pubblico esita per un poco, lì per lì quasi non applaude: l’attimo di silenzio è la testimonianza che il pubblico è smarrito, che l’attore ha vinto la sua battaglia. Evviva Gioele Dix!

sabato 24 novembre 2007

Lo Stato dei Licei: 2, la classica professoressa

[Una delle etimologie più significative della storia è quella che risale al termine latino classis, che si riferisce alla rigida stratificazione sociale presso gli antichi Romani (non che presso i Romani moderni la stratificazione sia meno rigida, però si evita di parlarne) e che dovendo all’inizio indicare ogni singola (appunto) classe sociale ha finito per identificare tout court la prima, la più ricca e, cose che al tempo andavano a braccetto, la più colta e moralmente superiore. Donde l’aggettivo classico, che colorava tutto quanto si riferisse a questa prima classe (se mi si perdona la metafora ferroviaria), secondo due direttrici: una temporale, che rimandava nei secoli a un passato che si presumeva migliore e irrimediabilmente perduto (musica classica, un testo classico, un vestito classico, una ragazza classica); una spaziale, che sanciva la superiorità di questo o quello rispetto a un mondo che via via si adeguava volgarmente alle mode e alle esigenze dei tempi correnti. Ma classico, così come aggettivo sostantivato, ormai è rimasto a identificare soprattutto la scuola che guarda indietro (verso il tempo perduto) e che contemporaneamente guarda in basso (verso la bolgia di licei e istituti di rango inferiore, in cui si crede comunemente che la partenogenesi non abbia nulla a che vedere con la verginità delle parthenoi ma che sia detta così perché coinvolge solo parte dell’organismo – così ho sentito giurare una professoressa di scienze, dieci anni fa). E insomma, quale altra scuola poteva mai frequentare una come Silvia G?]

Gurrado, ogni scuola superiore ha le sue caratteristiche e le sue materie d’indirizzo: esistono i licei scientifici, che prediligono lo studio della matematica e delle scienze in generale, gli istituti tecnici, che invece focalizzano l’attenzione sulla prospettiva e sul disegno geometrico, i licei artistici, dove si studiano la pittura, le proporzioni e si impara a modellare la creta [nota di Gurrado: nella speranza di trovare un giorno lavoro come protagonista nel remake di Ghost]. Ogni materia acquista maggiore o minore importanza a seconda del tipo di scuola in cui è inserita, e così mutano le gerarchie fra i professori che la insegnano.

Il Liceo Voltaire essendo un classico, assoluta precedenza va data alla presentazione della docente di latino e greco, la professoressa Fiorello. Caratteristica principale di questa irrinunziabile insegnante è il suo radicato e viscerale amore per le materie che le competono: mai creatura umana viva provò probabilmente una così profonda adorazione per le lingue morte, mai ci si commosse tanto nello studiarle e nel tradurle [ndG: solo per ricordare le mie versioni di Greco, perigliosi viaggi che partivano senza una rotta e terminavano in un punto creativamente diverso da quello in cui Senofonte o Tucidide aveva intenzione di portarmi; o, più spesso, terminavano nel nulla, risucchiate da gorghi abissali che non mi avrebbero mai fatto rinunziare a una partita di calcio in tv per scoprire cosa fosse mai un ottativo], mai nessuno dedicò così larga parte del proprio tempo e delle proprie energie alla diffusione e alla salvaguardia della cultura classica ad esse legata.

Di origini calabresi, trasferitasi nell’estremo nord per studio e per lavoro, la professoressa Fiorello corre talvolta col pensiero alla patria lontana, ch’ella non chiama mai sud Italia, bensì Magna Grecia [ndG: come tutti i terroni, d’altronde]. La sua massima manifestazione d’affetto consiste nel tramandare al prossimo parte dell’eredità culturale acquisita con anni di sudati sacrifici, durante i quali la professoressa Fiorello si è consumata i polpastrelli componendo tesi, trattati, articoli e volumi intorno alle figure di Pericle, Tucidide, Cicerone e Seneca.
Come il Machiavelli, ogni sera questa donna straordinaria si immerge nel suo studio, coperta con una sontuosa vestaglia, cercando la compagnia e il conforto dei grandi classici
[ndG: Disney?]; e preferirebbe, in caso di incendio, bruciare in mezzo a tutte le sue carte, piuttosto che condurre una vita misera e infelice senza di esse, come ogni buon capitano di marina desidera colare a picco con la nave, qualora essa affondi. A suo parere, infatti, la specie umana avrebbe potuto tranquillamente estinguersi appena prima del medioevo, età sciagurata [ndG: che dura tuttora] in cui il latino perse la sua meravigliosa purezza e andò a mischiarsi con quelle barbare lingue germaniche e anglosassoni che tanto le disgusta sentir pronunciare oggidì. Se ammette, o per meglio dire tollera, l’idea che possano essere esistiti grandi letterati anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la professoressa Fiorello considera però degni della sua attenzione solo quegli autori che fanno uso di un volgare italiano il più possibile simile alla lingua latina [ndG: di’ la verità, Silvia G, fra questi pochi ci sei tu?]. Perciò i suoi studenti, che lei ama teneramente e che quindi tortura con impensabili pretese contenutistiche e puntigliosissime regole grammaticali, sono costretti a studiare le letterature latina e greca non su comuni libri di testo, bensì sopra enormi e antichissimi saggi, opera dei più grandi studiosi della materia. Ed è una fortuna che questi grandi studiosi, vissuti in un passato remoto, si siano ormai estinti da tempo, perché più di uno studente della professoressa Fiorello, in un delirio di disperazione, ha minacciato sanguinose vendette contro di loro, a causa del linguaggio pressoché incomprensibile che li caratterizza, e delle frasi prolisse e articolatissime che riempiono le pagine dei loro scritti.

Capita spesso di incontrare la professoressa Fiorello in giro per i corridoi [ndG: sempre in vestaglia?], intenta a trasferire da una classe all’altra svariate copie dei suoi amati “testi scolastici”, curva sotto il loro peso e oppressa dalla loro mole; non è raro che qualche giovanotto suo studente, un po’ per dare buona impressione, un po’ per autentica compassione, si offra di aiutare la povera donna (che va ormai per i cinquantatré [ndG: Silva G, Silvia G, prima di scrivere parentesi così cattive pensa che anche tu fra trentacinque anni avrai bisogno di qualcuno che ti aiuti a spostare libri inutili]) nel trasporto di tutti quei volumi, ma ella non acconsente mai, perché ritiene che quello sforzo e quella sofferenza siano sacrifici indispensabili, e che l’estremo gesto non faccia che nobilitare ed elevare i suoi sentimenti d’amore sincero per la classicità. Ragion per cui la docente ha sviluppato con gli anni una notevole forma di cifosi.

La professoressa Fiorello, la quale afferma di non essere mai stata sposata, tuttavia possiede un figlio, un ottimo ragazzo sui venticinque anni, che però rappresenta il principale dei suoi tormenti, avendo egli scelto di specializzarsi, finito il liceo, in quella branchia dello scibile umano [ndG: presumibilmente “branca dello scibile” ma, trattandosi di fogli di quaderno a quadretti fittamente scritti a mano, l’interpretazione è sempre ambigua e come ogni filologo che si rispetti opto nuovamente per la lectio difficilior; tanto più che, trattandosi di sapere scientifico, è presumibile che Silvia G abbia voluto inserire un sagace ammicco al celebre “organo respiratorio, filamentoso o lamellare, ricco di vasi sanguigni di solito situato ai lati della testa di pesci e altri animali acquatici”, stando a quanto riporta nel suo dizionario Tullio De Mauro, noto comunista all’asciutto d’Italiano] che sono le scienze naturali, rinunciando alle lettere classiche. Capita spesso che la povera donna si lagni e si disperi coi suoi stessi alunni di questa terribile sciagura, affermando con la voce rotta dal pianto che mai si sarebbe aspettata una tale presa di posizione da parte del figliolo, avendolo ella introdotto sin dalla più tenera infanzia agli studi umanistici, alla poesia di Omero, all’epicureismo lucreziano, all’esametro, al giambo e al distico elegiaco, e avendogli insegnato prima il paradigma di fero che ad andare in bicicletta [ndG: non ho mai imparato nessuna delle due faccende, io]. Come il ragazzo possa aver maturato negli anni una repulsione per la classicità tale da spingerlo ad iscriversi a scienze naturali rimane, per la Fiorello, il più impenetrabile mistero.

Nel tentativo di sopire il grande dolore che il figlio le ha dato, la professoressa tenta in ogni modo di rifarsi su coloro che considera la sua seconda famiglia, gli studenti appunto, e di persuaderli a portare avanti la nobile causa delle lingue morte:
“Non disprezzate il passato, signori! Il latino, il greco sono genitori della vostra lingua madre, sono antenati dell’italiano, e noi dovremmo dimostrarci degni rappresentanti del connubio tra l’indubbia superiorità della civiltà romana
[ndG: rispetto, ad esempio, alla civiltà brianzola?] e la meravigliosa cultura dei greci antichi. Dare scorrette interpretazioni dei testi corrisponde ad una mancanza di rispetto nei confronti dei vostri stessi nonni! Ma cosa possono capire queste giovani generazioni? Cosa ne sapete del rispetto che noi tutti dobbiamo ai grandi classici? O tempora, o mores!”

Inutile dire che, almeno in Terzaddì, i semi del suo lavoro non hanno affatto attecchito, e la sezione rimane quella con le medie più basse della scuola sia in latino che in greco, con gran disperazione della povera professoressa Fiorello [ndG: Si noti come Silvia G ha il pregio, ormai rarissimo a trovarsi fra gli italiani d’età inferiore ai trentacinque, di chiamare i docenti per esteso, con tanto di suffisso femminile, e giammai prof, pro, pr, p] e, naturalmente, di tutti i [ndG: essendo suonata la campanella della ricreazione, il manoscritto si interrompe qui]

venerdì 23 novembre 2007

FF SS 2, ovvero: che viaggio a fare in regionale se poi mi costa più che andare in intercity?

La Lombardia è la regione più onesta d’Italia. Per andare da Pavia a Modena c’è un regionale che parte alle sette del mattino, con cambio a Voghera; per tornare da Modena a Pavia c’è un regionale che parte alle sette di sera, con cambio a Voghera. I restanti treni sono invece degli intercity e costano grossomodo il doppio (circa diciotto euro contro nove) pur impiegando grossomodo lo stesso lasso di tempo. Dovendo ieri andare a Modena, ho pianificato il mio viaggio secondo la rete di regionali, partendo con quello delle sette di mattino; il quale, comprensivo di cambio a Voghera, alle dieci mi ha scodellato puntuale a due passi dalla Ghirlandina con mia somma felicità. Dovendo altresì ieri tornare a Pavia, sono salito sul regionale delle sette di sera; il quale è arrivato in orario ma ha iniziato ad accumulare ritardo non appena posato il muso sul suolo lombardo.


Mi rendo conto che di questo la Lombardia non è colpevole, tutt’al più se ne può dedurre che è regione vagamente iettatoria. Risulta colpevole invece in quanto su territorio lombardo sale a bordo un controllore il quale, da me esplicitamente interrogato, mi illustra che nonostante le apparenze il treno viaggia in perfetto orario, così che io possa tranquillamente effettuare il cambio a Voghera nei dieci minuti di intervallo senza per questo essere un novello Ben Johnson. Risulta colpevole perché il regionale arriva invece a Voghera con undici minuti di ritardo (li ho cronometrati mentre in posa plastica attendevo di lanciarmi dal portellone); risulta colpevole perché alla stazione di Voghera i due treni che garantiscono la (non balzana, anzi frequentatissima) coincidenza per Pavia vengono fatti uno arrivare al primo binario e l’altro partire dall’ultimo; perché va a finire che il regionale Voghera-Pavia parte in orario nel momento in cui arriva in ritardo il regionale Modena-Voghera. Fin qui, tuttavia, si tratterebbe soltanto di sadismo o più probabilmente di un eccesso di ottusità e assoluta mancanza di senso comune, caratteristiche che impreziosiscono il soggiorno in Lombardia anche al di fuori delle sue stazioni ferroviarie.


Ma la Lombardia è la regione più onesta d’Italia – punto esclamativo – pertanto mentre io sono ancora fermo al binario con la faccia da persona che ha appena perduto una coincidenza per una combutta fra un controllore disposto a giurare il falso e un macchinista che aveva prescia di partire puntuale in un microcosmo di treni in ritardo, dal nulla (anzi dalla pioggia battente) si materializza un intercity; dal quale scende un cinghiale con il distintivo da controllore e senza frapporre indugio mi chiede se ho perso il regionale per Pavia. Rispondo di sì e lui dice di salire pure, perché Pavia è appunto la fermata successiva dell’intercity in questione. Mangio la foglia e gli chiedo se devo pagare la differenza. Il cinghiale teme che io non salga e mi risponde che posso pagarla a bordo. Mangio un’altra foglia e gli chiedo a quanto ammonti questa differenza. Si stringe nelle spalle dicendo che non sa con precisione, ma comunque mi invita a salire accennando a gesti a una cifra irrisoria.


Ragion per cui salgo e, nel momento in cui il treno si muove e io non posso più abbandonarlo se non a costo di morire (o di farmi molto male), il cinghiale mi raggiunge nello scompartimento vuoto e mi chiede di onorare il pagamento del supplemento rapido, che ammonta a undici euro e settanta centesimi. A differenza di lui e dei suoi colleghi corregionali, io sono una persona decente pertanto pago; non mancando però di fargli notare che:
- avevo viaggiato in regionale appositamente per evitare di pagare il doppio viaggiando in intercity;
- il regionale che mi conduceva da Modena a Voghera ha iniziato a rallentare in maniera sospetta non appena messa rotaia in Lombardia, accumulando alla fine il minimo ritardo utile a far saltare la coincidenza con il regionale successivo;
- a quel punto si è presentato un intercity che non era previsto nell’orario, e che viaggiava con un ritardo tale da arrivare non già prima del regionale per Pavia, ma subito dopo, come se fosse partito con l’intenzione di raccogliere a bordo chiunque fosse stato costretto a mancare la coincidenza fra i regionali;
- ho pagato undici euro e settanta centesimi di supplemento rapido per coprire una tratta che abitualmente ne costa due;
- grazie a questo giochetto di fortunate coincidenze, l’ammontare totale della spesa per un viaggio da Voghera a Pavia, indipendentemente dai giudizi estetici che si possono esprimere su sede di partenza e di arrivo, mi è costata all’incirca un euro a minuto (a Modena una puttana mi sarebbe costata di meno);
- ironia della sorte, l’esoso supplemento rapido per la tratta Voghera-Pavia mi è stato chiesto su un intercity che portava venti minuti di ritardo, a fronte di un viaggio di un quarto d’ora (in proporzione, è come se un treno da Milano a Bari portasse dodici ore di ritardo su dieci di tragitto).


Per fortuna la ben nota onestà istituzionale ed endemica dei Lombardi mi rassicura sul fatto che tal sospetto è infondato; e sono stato ben felice di pagare ventitremila lire di supplemento rapido al cinghiale travestito da controllore, augurandogli di spenderle quanto prima in onoranze funebri per sé e i suoi cari, per i quali auspico una morte lenta e atroce come un viaggio con Trenitalia.

mercoledì 21 novembre 2007

FF SS, ovvero: che vado a fare a una presentazione a Milano se i soldi per comprare il libro devo darli a un capotreno?

“Con la P: film del ’59 con Marlon Brando?”
“Pavia, stazione di Pavia.”
(Gerry Scotti e Damiano Latella a Passaparola)

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Poniamo che voi siate me e dobbiate andare a Milano per una presentazione (che si rivelerà spettacolare, peraltro, con Franco Loi che commenta e Sandro Bajini che legge con inflessione sorniona alcuni poemetti di Carlo Porta dall’antologia Hoepli appena curata da Gino Cervi – accattateville, c’è pure il cd!). Poniamo che la presentazione sia alle 18 e che possiate prendere comodamente il regionale delle 17:03 che vi consente di essere in Stazione Centrale alle 17:37 e dopo di che recarvi con tutto comodo in Duomo via metrò itterico e di lì arrivare passeggiando in via Ulrico Hoepli dopo che i tre passanti interpellati sull’ubicazione vi avranno dato ciascuno una risposta differente.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Poiché siete persone puntuali e fuggite il ritardo come nulla mai, vi presentate in stazione venti minuti, no, un quarto d’ora, no, diciassette minuti e mezzo prima della partenza del treno, così da poter fare con estremo comodo il biglietto. Civilmente, vi mettete in coda e attendete. Attendete. Attendete.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Attendete ma la fila non avanza di un metro. La stazione di Pavia è dotata di quattro sportelli umani per l’emissione di biglietti, a cui si aggiungono due macchinette automatiche. Essendo degli umanisti, optate per gli sportelli umani; ma due dei quattro sono chiusi, e i restanti sono in possesso a persone più calme di un barcaiolo morto e pagato a ore. Tuttavia attendete il vostro turno con fiducia, tanto alla partenza del treno mancano ancora diciassette minuti, no, dodici, no, sette, no, due. Iniziate ad accettare scommesse sul vostro destino e a controllare nervosamente gli orari dei treni successivi i quali hanno due caratteristiche: essendo degli Intercity costano il doppio (pur impiegando esattamente lo stesso tempo di percorrenza, mistero della fede) e vi consentono di arrivare alla presentazione con un ritardo compreso fra i la mezz’ora e i due giorni.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Quando alla partenza del treno delle 17:03 manca talmente poco che già è stata annunziata la sua incombenza, con mossa sparigliatrice e berlusconiana decidete di abbandonare la fila, alcuni componenti della quale sono nel frattempo morti di vecchiaia, e di precipitarvi alle macchinette automatiche, che per fortuna sono entrambe libere. Troppo libere. Sospettosamente libere.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Una delle due macchinette, infatti, reca l’avviso mortuario: “Sportello Chiuso”. Manca il corollario: “cazzi vostri” ma poco male, visto che c’è l’altra. Chi non le abbia mai provate dovrebbe quanto prima: si ha davanti uno schermo al plasma toccando reiteratamente il quale ottenete risultati contrari a quelli che vi prefiggete; è possibile pagare con carta di credito, bancomat, assegni, preziosi, oro a 24 carati, porzioni varie del corpo umano e vaghe promesse di saldare il conto sabato prossimo – tutto insomma che non sia denaro contante, che la macchina rifiuta con nobiltà sconosciuta all’umano genere.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Io ho un naturale pudore economico che mi rende scettico di fronte agli acquisti virtuali, ossia a comprare ciò che non posso toccare pagando con soldi che non posso vedere; ma in onore di Carlo Porta, di Franco Loi, di Sandro Bajini e di Gino Cervi decido di estrarre dal portafoglio la carta di credito. Palpando lo schermo a casaccio seleziono fortuitamente la destinazione, l’orario, la tariffa; dopo di che la macchinetta infernale torna alla schermata d’esordio chiedendomi in che lingua desidero che mi parli. È il tilt.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Ma poiché di fronte a Carlo Porta, e a tutti i signori citati in precedenza, non potrei fermarmi di fronte a nulla, con gesto eroico decido di salire sul treno senza biglietto; ma poiché si ha un bel dire che in Italia i servizi non funzionano se poi si viaggia nascosti per mezz’ora nei cessi onde evitare il controllore, dritto come un fulmine mentre la locomotiva si rimette in modo vago fra gli scompartimenti alla ricerca del capotreno, finché non trovo qualcuno che gli assomigli.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Al che gli spiego che sono appena salito, a Pavia, dove le persone in fila sono state trasformate in stalagmiti e dove le macchinette automatiche devono essere d’ascendenza francese poiché in sciopero generale. Il capotreno risponde che è evidentemente colpa mia. Protesto che io ho passato metà pomeriggio a tentare di comprare un biglietto per Milano, e che avendo fallito ciò nondimeno una volta sul treno sono corso a cercarlo immantinente per regolarizzare la mia posizione di fronte alla giustizia umana e divina. Pondero se infilare come captatio benevolentiae geografica pure un discorso d’elogio per Carlo Porta, Franco Loi, Sandro Bajini e Gino Cervi, ma scarto l’ipotesi in quanto mi suona ridondante.

La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.

Il capotreno come da regolamento emette il tagliando da Pavia a Milano al costo di due euro e novantacinque, ai quali aggiunge cinque euro di ricotta per il servizio di biglietteria sul vagone. Io pago e ammiro l’efficienza lombarda, che escogita il blocco delle file e lo scassamento delle macchinette per estorcere a chiunque abbia degli impegni (e quindi degli orari da rispettare, e quindi qualcosa da fare nella vita che non sia la coda agli sportelli della stazione di Pavia) il triplo di quello che avrebbero pagato se le file si fossero mosse, se le macchinette avessero funzionato. Dopo di che mi sistemo in prima classe e quando, due minuti dopo, il capotreno passa a mo’ di controllore e sta per dirmi che il biglietto da lui emesso è valido per la seconda classe e non per la lussuosissima in cui sono assiso, si trattiene dal farlo e resta con la bocca mezza aperta solo perché legge nel mio sguardo un bagliore luciferino: che con l’occhio destro rimugina come gli abbia appena dato sedicimila lire per un tragitto di trenta chilometri in una caffettiera sfrigolante, e con l’occhio sinistro gli augura vivamente che finiscano tutte spese in medicine.

(Nonostante l’enciclopedica cultura dell’amico Damiano, il film con Marlon Brando del 1959 è Pelle di Serpente.)

lunedì 19 novembre 2007

Restyling

Restyling, restyling! Il lato B dell’Osservatore Romano è stato svelato con rapidità napoleonica al momento del cambio di direzione in favore di Giovanni Maria Vian; di solito avviene che i nuovi direttori lascino passare un po’ d’acqua sotto le rotative prima di rivoluzionare grafica e contenuti, o al contrario che il rimaneggiamento più o meno scioccante costituisca la zampata che certifica l’autorità consolidata di un direttore storico che teme il logorio della vita postmoderna. Invece, da un giorno all’altro, la foliazione dell’Osservatore è stata dimezzata (da 16 a 8 pagine); le illustrazioni sono state pressoché eliminate, e le poche residue sono state decisamente ridimensionate; la tradizionale cronaca di Roma, incredibile dictu, è svanita nel nulla. In particolare, è evidente la prospettiva fondamentale di Vian (il quale, fra una cosa e l’altra, insegna Letteratura Cristiana Antica alla Sapienza): ciò che differenzia il Papa dagli altri capi di Stato è che non persegue il benessere o la ricchezza o il progresso contingente ma la salvezza eterna, e che la salvezza a differenza del benessere (o della ricchezza o del progresso) non può essere circoscritta a un’unica nazione ma deve essere partecipata a tutto il mondo. Da un versante giornalistico, questo cambia radicalmente la gerarchia e conseguentemente la disposizione delle notizie. Ho sotto gli occhi il numero dell’Osservatore dello scorso giovedì, che titola “La Sacra Scrittura ci offre la guida dell’educazione e del vero umanesimo” pubblicando in prima pagina, senza mezza parola di commento, la lezione tenuta dal Papa nell’udienza del giorno prima. Le pagine due e tre sono dedicate a varie notizie dal mondo intero, tutte in stile conciso e assolutamente britannico, dando una netta sensazione di equidistanza di ogni punto della Terra dalla Città del Vaticano. Non c’è traccia delle vicissitudini del governo italiano (mercoledì scorso doveva essere approvata la legge finanziaria), mentre le pagine quattro e cinque sono dedicate alla cultura: resoconto dell’incontro fra mons. Ravasi e Giuliano Ferrara (moderati dal card. Ruini) in San Giovanni Laterano, riproposizione di un intervento dell’allora card. Ratzinger su fede e ragione (“Il vero illuminismo è il cristianesimo”), lunghi saggi sulla liturgia latina e sulle radici celtiche del Dies Irae. Le pagine sei e sette sono dedicate alla cronaca ecclesiastica, di nuovo worldwide, e infine pagina otto chiude il circolo con gli interventi secondari del Papa e l’elenco dettagliato dei gruppi presenti ad ascoltarlo. Così concepito, l’Osservatore è mirabile: con la sua aria un po’ snob di bollettino d’altri tempi, costituisce la conferma cartacea e quotidiana che non a Roma, non all’Italia, non al particolare guarda il papato ma a riunire tutti i popoli in uno solo nella fede in Cristo: la prima e l’ultima pagina, dedicate al Papa, sono la cornice che racchiude (abbraccia anzi) da un lato le vicissitudini politiche del mondo (le pagine due e tre) e dall’altro le alterne fortune della Chiesa (le pagine sei e sette), il cui centro e fulcro è la riflessione razionale sul mistero della fede (le pagine quattro e cinque). Così concepito, l’Osservatore di Vian dà la misura della fiducia incrollabile che, comunque vada, non praevalebunt.


Restyling, restyling! Il lato B del Corriere della Sera, orgogliosamente mostrato da Paolo Mieli & co. a seguito di rutilante battage pubblicitario sul mondo che cambiando fa cambiare necessariamente anche il quotidiano più comprato d’Italia (quello più letto, invece, è la Gazzetta dello Sport), è sconvolgentemente simile a Leggo, oppure a Metro, oppure a City, insomma a uno dei tristi giornaletti tristemente gratuiti che i tristi milanesi leggono tristemente sui tristi treni che li conducono ai loro tristi uffici. Tempo ce ne vorrà, certo, ma la strada imboccata è quella: non solo per la colorata fascia superiore che fa rimpiangere il candido Corriere di Alberini anche a chi (come me) non è nato in tempo per comprarne mezzo, ma anche perché gli articoli sono improvvisamente diventati più corti, dando ragione in maniera preoccupante alla boutade di Ernesto Galli della Loggia il quale, dopo aver sottolineato con veemenza “il Corriere non sono io”, ha argomentato nel corso della sua conferenza sul Papa che i quotidiani ormai rincorrono un pubblico che vuole essere lasciato in pace a guardare la tv. Di bruttarello, inoltre, c’è che il nuovo Corriere della Sera nel corso del restyling s’è dimenticato di far finta di non trovare spazio per le imbarazzanti frasettine di Severgnini e Lina Sotis; imbarazzanti per motivi diversi anzi opposti: le prime perché Severgnini ha un’ironia che meglio funziona sulla pagina lunga, e quindi cercando la battuta fulminante si incarta anzi si accartoccia; quelle di Lina Sotis perché monotone, talvolta gratuitamente offensive e vagamente isteriche (si sa, l’età). Di bello, invece, c’è che il nuovo Corriere ha moltiplicato i pani e i pesci, pigliando la pagina delle recensioni domenicali e sestuplicandola in ciascuno degli altri giorni della settimana (esclusa, genialmente, la domenica stessa): di modo tale che, al paziente lettore che vorrà ritagliarla ogni giorno e conservarla in eterno, resteranno in mano sei pagine a settimana, ventisei a mese, circa trecento all’anno, per un totale di almeno novecento libri recensiti. Mica pochi, e recensiti per bene. Quanto al Corriere della Sera Magazine, anch’esso ristrutturato, m’è mancato il coraggio: il totem di Biagi sulla copertina del primo numero ha funto da deterrente insormontabile. Sarà per il prossimo numero, spero. Tuttavia continuo a rimpiangere (e non capisco perché ristrutturando ristrutturando Paolo Mieli non la restituisca) la Domenica del Corriere, inserto illustrato leggibile con calma, fruibile a tutti, godibile nei decenni. Da riconcepire con l’esplicito scopo di giocarsela alla pari, nell’immaginario collettivo, con la televisione e con internet, senza per questo rinunziare alla carta, il cui odore fresco di stampa è l’asso nella manica di ogni quotidiano.


Restyling, restyling! Il lato B di Berlusconi, abbiamo scoperto alla fine, è Berlusconi stesso.

sabato 17 novembre 2007

Lo Stato dei Licei: 1, la pecora nera

[“Io mi chiamo G”, esordiva Giorgio Gaber ai tempi del bianco e nero; al che un altro Giorgio Gaber, nella metà di schermo lasciata libera, repentinamente replicava rincarando: “Anch’io mi chiamo G” – e via allora con tutta una serie di differenze e dissonanze fra le vite dei due G speculari che avevano in comune tanto il nome quanto il sembiante.
Per certi versi, anch’io mi chiamo G, e per certi versi neanch’io sono l’unico. Me ne sono reso conto appieno nel momento in cui ho realizzato – con la nostalgia tipica di chi sta inevitabilmente, precocemente invecchiando – che sono trascorsi dieci anni esatti dall’inizio dell’anno scolastico che mi condusse alla maturità; e al contempo mi sono interrogato su cosa sia cambiato nella vita quotidiana (e cosa sia invece rimasto immutabile per saecula) nella repubblica dei registri, nel sotterraneo Stato dei Licei che accomuna gli adolescenti d’Italia da Vipiteno a Lampedusa.
Io mi chiamo G e mi sarei interrogato a vuoto in eterno, temo, se non fosse sorta nell’altra metà dello schermo immaginario un’altra vocina che mi ha risposto: “Anch’io mi chiamo G”. Di chi si tratta? Silvia G a quanto pare non fa parte della “generazione degenerata” della quale si torna periodicamente a parlare (vedi Panorama di ieri); non suole comparire ubriaca su YouTube né sniffa colla Bostik né compie esperienze sessuali estreme da sola o in compagnia; fa parte della maggioranza silenziosa di liceali che va a scuola tutti i giorni e non finisce mai in un telegiornale. Silvia G è la parte sommersa dell’iceberg; ciò nondimeno è convinta che anche quando non hanno niente di cui vergognarsi i licei d’Italia abbiano comunque adeguate storie da raccontare, pregevoli cubetti di ghiaccio. Ragion per cui Silvia G è la spia perfetta che ho intrufolato nello Stato dei Licei, dove io non potrò più mettere piede se non, auspicabilmente o malauguratamente, come professore prima o poi; e ora che l’anno scolastico ha ingranato, con il superamento delle occupazioni-autogestioni-cogestioni e l’avvicinarsi delle prime verifiche serie sotto Natale, mi spedisce regolari dispacci e l’accompagnerò commentando fra parentesi quadre da qui alla maturità. Silvia G ha diciott’anni e una dolce ironia; scrive bene, promette meglio e per questo merita di venire letta, a partire dal rigo qui sotto:]

Gurrado, il mondo del lavoro, in quest’epoca sovraffollata, è sempre soggetto a una dura selezione più o meno naturale, che tende a scartare con discreta leggerezza tutti gli elementi deboli o sfortunati, e a mettere in dura competizione quegli individui che invece riescono a tenersi a galla e a sopravvivere. Ogni giovane volenteroso che decida di non accontentarsi del diploma di licenza media, e di iscriversi conseguentemente a una scuola superiore, è consapevole che più avanza più dovrà brillare per distinguersi dagli altri e ambire prima o poi a cariche di rilievo. Per questo motivo si ritiene che più una scuola dimostra scrupolo nella selezione dei suoi iscritti, miglio è [nota di Gurrado: presumibilmente “meglio è” ma, trattandosi di fogli di quaderno a quadretti fittamente scritti a mano, l’interpretazione è sempre ambigua e come ogni filologo che si rispetti opto regolarmente per la lectio difficilior]: disciplina, diligenza, metodo e amore per lo studio, ecco quali sono sempre state le qualità richieste a tutti i bravi studenti, in ogni liceo che si rispetti.
Nel liceo che frequento, l’istituto più selettivo (o presunto tale) di ***
[ndG: per evitare che Silvia G venga espulsa da tutti i licei del regno, ho ritenuto opportuno occultare il nome del luogo, ma sono pronto a rivelarlo a qualsiasi dirigente scolastico lo desideri dietro congruo pagamento in contanti], la presidenza e i docenti in generale tengono moltissimo a rimarcare questo concetto: senza sacrificio non c’è soddisfazione, senza impegno non ci sono risultati, e senza risultati, purtroppo, non si può andare avanti. Non per nulla il liceo Voltaire [ndG: sfido chiunque a trovare un Liceo Voltaire in Italia. Se esiste, sappia che non stiamo parlando di lui] vanta il più alto numero di ammissioni alle più prestigiose università d’Italia da parte degli studenti giudicati maturi, le più alte medie nei sondaggi a livello regionale, la più alta fama tra i mortali e tra gli immortali e, di conseguenza, il più basso numero di iscritti alle IV ginnasio (non tutta la gioventù locale, infatti, è del parere che si sia al mondo solo per soffrire, e finisce per far domanda altrove).
Varcando le porte del Liceo Voltaire, ogni visitatore avrà il piacere di incedere attraverso ampi e luminosi corridoi, di soffermarsi ad ammirare i busti in marmo dei più prestigiosi studenti del tempo che fu, di penetrare in aule spaziose
[NdG: rincresce riconoscere che Silvia G non abbia trovato un verbo meno ambiguo], colme di fresche e vivaci testoline ordinatamente disposte a coppie, in bancate regolari e allineate. Il clima è insomma armonioso e idilliaco, e nel respirare quest’aria impregnata di diligenza, erudizione e buoni sentimenti, il cuore del suddetto visitatore guizzerà nel petto dalla delizia, gli occhi gli si riempiranno di commosse lacrime, ed egli penserà che istituti come quello sono senz’altro l’orgoglio di tutta l’istruzione pubblica italiana.
Tuttavia, ogni famiglia ha la sua pecora nera, e così ogni liceo; la mela marcia del Voltaire è la sventurata Terzaddì
[ndG: si noti l’implicita citazione manzoniana, dal capitolo X dei Promessi, segno tangibile che finché si studia a scuola si riesce ancora a imparare qualcosa, magari senza accorgersene]. Sezione dal passato travagliato, ricco di ritiri, bocciature e fughe ardimentose, non ha mai mantenuto lo stesso numero di alunni per due anni di seguito: se in IV ginnasio se ne contavano ben venticinque membri, essi erano diventati già diciannove in V, diciotto in I, sedici in II, e il numero sarebbe disceso ancora se non fosse stato per l’aggiunta di tre studentesse provenienti da una classe parallela in III liceo. Sono dunque diciotto giovani virgulti; tuttavia, a detta degli insegnanti, procurano di sembrare molti di più. Per quanto l’intelligenza di alcuni tra loro superi di gran lunga la media dei coetanei [ndG: media invero bassina], la singolare predisposizione all’eccesso, allo sprezzo delle regole e del pericolo, all’umorismo sagace e impertinente, allo smodato amore per il vin brulé e il Passito di Pantelleria, alla mordacità e alla vita spericolata in generale che li caratterizza, fa di questi alunni una stonatura fastidiosa in un ambiente tanto ordinato ed etereo. La situazione è inoltre aggravata dal fatto che alla Terzaddì, a questo manipolo di debosciati, a questa manica di barbari rinciviliti, sia stato assegnato un cospicuo gruppetto di professoresse zitelle e discretamente bigotte, profondamente vergognose di aver macchiato la loro ordinaria carriera con una cattedra nella classe famigeratamente trascurabile e, quando non se ne lagnano tra di loro, tentano di nascondere ai colleghi e al resto del mondo gli inenarrabili scandali che avvengono tra le quattro mura dell’aula [ndG: noi, ai tempi, solevamo lanciare festosamente nell’aere i calzini rientrando dall’ora di educazione fisica; rinchiuderci segretamente in un armadio e periodicamente aprirlo per ruttare a mo’ di orologio a cucù, invero volgarotto; giocare a Shangai durante le ore di Greco; chiedere alla professoressa di Geografia Astronomica di spiegare a bassa voce perché stavamo studiando Filosofia; eccetera eccetera eccetera; le professoresse di Silvia G ne sarebbero morte, le nostre avevano senso dell’umorismo e pertanto le ricordo con piacere]. È quindi speranza del sommo dirigente scolastico che si salvaguardi l’apparente perfezione, e che l’ignaro visitatore del liceo Voltaire., tutto concentrato sulla maestosa bellezza architettonica dell’edificio e sul clima idilliaco che trasuda da ogni parete, non si accorga che oltre la seconda porta a destra del primo piano, sotto la luce intermittente di neon difettosi e sibilanti, si combatte ogni mattina una guerra di trincea tra giovanotti vispi ma annoiati e insegnanti ormai prive di speranza, ma certo non disposte a [ndG: la pagina è strappata, il manoscritto si interrompe qui]


(continua)