lunedì 26 febbraio 2007

Attraverso lo specchio: la Patria dell'anima

(lunedì 4 settembre 2006, copyright Ore Piccole)

Immagino che non le interessi più di tanto, ma non ho mai provato particolare stima per Victoria Beckham; almeno fino al giorno in cui - ieri o ieri l’altro - ho scoperto che non ha mai letto un libro in vita sua. Di là dall’evenienza (generale) che più passa il tempo più non riesco a distogliere il mio sguardo ammirato dalle persone che non hanno bisogno di libri per rendere accettabili le giornate, mi ha colpito l’evenienza (particolare) che l’ex ragazza speziata abbia appena pubblicato il suo terzo libro, mica male per chi ammette di sentirsi venire lo svenimento appena mette piede per sbaglio in una biblioteca. Dice allora l’interlocutore immaginario e puntiglioso: “Vabbe’, bella forza: mica se li scrive lei, ma si limita a firmarli. Chissà che pena, poveri ghost-writers.” Invece la genialità della signora Beckham (una donna che talvolta fa indossare le proprie mutande al marito e, a giudicare dagli ultimi Mondiali, anche durante le partite di calcio) sta proprio nell’aver colto la sottile distinzione fra avere scritto e aver pubblicato. In Italia, per quel che ne so, siamo pieni di scrittori che non hanno pubblicato un accidente; lei, al contrario, siede sovrana sulle copie impilate dei libri di cui è autrice senza averne scritto una riga.
Non sto menando per il naso il rispettabile pubblico, non è il solito paradosso, né il mio tradizionale tentativo di parlare di donne e calcio travestendoli da libri. La bibliofobia di una delle autrici più vendute del Regno Unito mi ha fatto chiaramente intuire un principio più generale: ci sono dei libri che vengono scritti su un impulso altrui. Nel caso specifico, l’impulso del ghost writer che scrive ma non firma i libri della Beckham è la percentuale di valsente che gli deriverà dalle caterve di copie vendute. Lo stesso procedimento, con estremi differenti, ha animato Ian Buruma nella scrittura del suo Voltaire’s Coconuts (Weidenfeld & Nicolson, 1999), che ormai pare essere quasi introvabile anche sul mercato britannico; ed è talmente introvabile da spingermi a sua volta a parlarne per preservare un testo così prezioso - non sia mai! - dalla dimenticanza. Così, posso romanticamente constatare, una parola genera l’altra, dietro una pagina c’è un’altra pagina, ogni libro riposa su altri libri e Victoria Beckham, beata lei, non ne legge nessuno.
Ian Buruma è, come il suo stesso nome, mezz’Inglese e mezz’Olandese. Si è trasferito da qualche tempo in Inghilterra ma, quando ancora viveva in Olanda, l’Inghilterra era per lui più di un pezzetto di atlante geografico. Innanzitutto perché sua madre era una signora Inglese (come Victoria Beckham, incidentalmente), e quindi l’Inghilterra era un luogo della memoria trasmessa in famiglia; ma precipuamente perché all’Inghilterra hanno guardato, con sentimenti variabili dall’invidia alla monomania, gran parte degli autori e personaggi che hanno contribuito alla sua formazione di uomo colto (e, a giudicare dal numero di citazioni nel suo libro in fin dei conti breve, di uomo onnisciente). Il fastello di libri scritti in più di duecento anni dagli autori più disparati gli è stato comodo scranno (oggi parlo forbito) su cui sedersi a comporre il suo saggio, riassumendo reinterpretando e facendo rivivere i testi altrui, con l’aggiunta di otto pagine di bibliografia e dodici di indice analitico.
Voltaire’s Coconuts, come si può intuire dal titolo, non è un libro su Voltaire ma sulle noci di cocco. Queste ultime crescono naturalmente in una parte del mondo talmente esotica che non me la ricordo nemmeno; se non che sono state per lungo tempo un frutto vagheggiato a ogni latitudine, proprio in virtù della loro irreperibilità; ciò ha fatto sì che più d’uno si industriasse a trapiantarle, di modo tale che - se le si vuole - adesso crescono pure sulla Riviera Romagnola. Dice allora l’interlocutore immaginario e preoccupato: “Ma che c’entra l’Inghilterra? Le hanno trapiantate in Inghilterra? È l’Inghilterra la landa sperduta di cui sono originarie?” Niente di tutto ciò. Nel libro di Buruma l’Inghilterra non c’entra con le noci di cocco, ma c’entra con Voltaire.
Tutti sanno (e anch’io dovrei ricordarmelo) che il giovane Voltaire trascorse alcuni anni oltremanica, dove non solo conobbe alcune delle menti più eminenti del tempo ed ebbe l’agio di assistere ai funerali di Newton, ma soprattutto dove contrasse il virus che l’avrebbe accompagnato - cinquant’anni dopo e più - alla tomba. Voltaire morì anglomane. Conservò per tutta la sua lunga vita una profonda nostalgia del liberalismo inglese, da buon filosofo, ma anche dei salotti, delle dame, dei conversari, da buon viveur; su questa nostalgia è improntata non solo la composizione delle Lettres Anglaises, su Locke e compari, ma gran parte della sua sterminata opera e del suo pensiero mai cheto. Tutta la vita di Voltaire fu un tentativo, fallito come gran parte dei tentativi, di trapiantare l’Inghilterra al confine fra Francia e Svizzera. Morì ma non demorse: Buruma informa che alcune delle ultime parole pronunziate da Voltaire, sul suo ultimo letto, furono in Inglese e riassumono per certi versi le centinaia di volumi uscite dalla sua penna: “God and liberty”.
Non c’è solo Voltaire, tuttavia, che pure dà il titolo al saggio: anzi, a lui sono dedicate trenta pagine su trecento. C’è Goethe, ad esempio, che forzò la propria produzione nel tentativo di divenire lo Shakespeare dei suoi tempi. C’è Theodor Herzl che all’Inghilterra guarda come basilare sostegno e modello ideale dell’erigendo Stato di Israele. O il folle dongiovanni Hermann Von Plucker-Muskau, il quale dopo aver rocambolescamente collezionato donne le più diverse (ma non Victoria Beckham) trovò più vera felicità nella proliferazione di giardini all’inglese nelle sue proprietà - per cui Buruma lo ribattezza parcomane. L’Inghilterra è nei sogni più rosei dei grandi conservatori, come Charles Maurras, e degli allegri rivoluzionari, come Giuseppe Mazzini. Chi non pare spendere troppe parole elogiative per la candida Albione, come Karl Marx, finirà per trascorrervi l’ultima parte della propria vita, ironia della sorte, e per morirvi.
Né viene trascurata l’Inghilterra immaginaria e immaginata, mèta di astratti vagheggi dai contorni sfumati (come le noci di cocco e - presumibilmente - come lady Beckham). Tutta l’Europa ammattì per l’inesistente Ossian e per i suoi arcaici inni d’amore per una regione che l’Europa intera non conosceva. Tutto il mondo, di quattro anni in quattro anni, plaude allo spirito di Olimpia senza sapere che de Coubertin, quando parlava della Grecia classica, in realtà intendeva realizzare l’ideale salutista delle scuole del Dr. Arnold, dove l’educazione fisica era il fulcro della crescita (anche morale) degli studenti, e dove si agitavano giovani corridori e canottieri decisamente troppo biondi per corrispondere all’ideale ellenico.
Andare in Inghilterra, ancora oggi, è come attraversare uno specchio: si viene proiettati in un mondo al contrario, dove i volanti sono a destra e i Re non sono in esilio, dove nelle autostrade non si paga pedaggio e il bidet è una perversione da sibariti, dove il vino rosso fa vomitare ma viene servito il più tenero agnello d’Europa. Per questo non è peregrino che chi torna a casa, una volta sopravvissuto al vino rosso, rimanga come minimo con la sensazione di essere appena sceso da un ottovolante e come massimo col desiderio di vivere eternamente a testa in giù. Perfino agli occhi degli Inglesi gli Inglesi appaiono peculiari: un paio d’anni fa la Vintage ha pubblicato un saggio di un’antropologa, Kate Fox, che si mimetizzava nei pub e nei treni e studiava il comportamento dei passanti con la stessa perizia che avrebbe avuto di fronte agli aborigeni che saltano come canguri (o sono i canguri che saltano come gli aborigeni?).
Il libro di Kate Fox si intitolava Watching the English, e con un minimo adattamento sarebbe stato anche un buon titolo per il testo di Buruma. Watching (the) England, guardare l’Inghilterra e guardare all’Inghilterra, è il minimo comun denominatore dei due secoli che Buruma racconta, movendo da Voltaire e arrivando a sé stesso. Prima di ogni ritorno - sempre tristemente segnato da sconfitte o per lo meno rimpianti - tutti i personaggi storici che affollano Voltaire’s Coconuts hanno fissato negli occhi una nazione straniera, la più straniera e la più strana delle nazioni d’Europa, e vi hanno riconosciuto un riflesso dei propri desideri, dei propri sogni, della propria anima: così, si sono resi conto di essere nati altrove solo accidentalmente. Hanno visto uno specchio e l’hanno attraversato; poi, quando sono rimpatriati (o, come Alice, si sono svegliati) hanno seguitato ad attendere il momento in cui tornare a pronunziare le parole di Leslie Howard di fronte alle scogliere di Dover nel film La Primula Rossa: “Guarda.” (pausa) “L’Inghilterra.”

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.