lunedì 26 febbraio 2007

Charlotte Simmons c'est moi



(giovedì 19 ottobre 2006, copyright Ore Piccole)




Da anni ormai detesto i weekend per i più vari motivi, primo fra tutti quello che a un dato punto della mia vita cosciente, ovvero all’inizio dell’univesità, il pranzo del venerdì è diventato l’apertura del baratro verso due giorni e mezzo senza lezioni e senza colleghi di studio (non che questo fosse necessariamente un male in sé, ho capito a posteriori); vedere i tavoli della mensa mezzi vuoti, le porte delle stanze chiuse a chiave, la finestra bagnata dalla pioggia che nei fine settimana lombardi non mancava quasi mai - e per di più con la piena consapevolezza che in una città come Pavia l’artificio migliore per passare il tempo consiste nel dormire senza accorgersi di essere lì: tutto questo, insomma, mi ha sempre un po’ scosso e mi ha portato da un lato a guardare con estrema diffidenza il sabato e la domenica (anche a Modena che in fin dei conti è una città decisamente più morbida e più piacevole), dall’altro ad affezionarmi oltremodo all’apoteosi di sport in tv in attesa del ritorno del lunedì in cui rimpiangere l’ennesimo weekend gettato al vento.
Oppure leggo romanzi, fingendo di studiare filosofia: si tratta di una soluzione nobile (diceva Leslie Stephen, storico e padre di Virginia Woolf: “Se al giorno d’oggi volete non far nulla ed essere egualmente rispettabili, il pretesto migliore è dite che state lavorando a qualche profondo studio”) che non manca di fornire notevoli vantaggi rispetto alla compagnia femminile (se un libro di annoia, lo chiudi; se una ragazza ti dà noia, le spari? la uccidi precipitandola dal bordo del letto?). Tutto questo per introdurre una notazione autobiografica: questo weekend ho letto Io Sono Charlotte Simmons, l’ultimo romanzo di Tom Wolfe appena uscito in economica nei Bestsellers Mondadori, e le sue settecentosettantasette pagine sono scivolate più che agevolmente dal mesto venerdì dopopranzo all’addormentata domenica dopopizza. Non perché io sia un fenomeno della lettura rapida; né perché lo scorso weekend sia stato particolarmente povero di avvenimenti significativi (se non mentre il Milan pareggiava con la Sampdoria), ma perché raramente mi era capitato di ritrovarmi a leggere un romanzo così pieno di fatti miei.
Sia chiaro: io con Charlotte Simmons non ho nulla da spartire, tanto più che lei non esiste e io purtroppo sì. Lei, la signorina il cui volto immaginario è fotografato sulla candida copertina (meglio l’anonima sagoma dell’originale edizione Picador) senza il corredo di uno straccio di numero di telefono, è cresciuta a Sparta, nelle pieghe più profonde del North Carolina, in una landa desolata che senza sesso né alcol l’ha vista emergere come il cervello più eminente di tutto il circondario. La prima della classe dunque, ma non solo: una ragazza-evento senza precedenti i cui risultati scolastici, con conseguente ammissione alla prestigiosissima università Dupont, sono una pubblica meraviglia prima ancora che un successo privato.
La Dupont si rivela tuttavia il contrario di quello che lei aveva sperato: non l’incubatrice intellettuale nella quale crescere all’ombra del premio Nobel prof. Starling, bensì un guazzabuglio di goliardi ubriachi e vistose troiette, una pletora di alunni più o meno tutti uguali il cui principale interesse risiede - se si è cool - nelle partite di basket e - se non si è cool - nella rumorosa difesa dei diritti degli omosessuali. Fosse solo questo, Io Sono Charlotte Simmons andrebbe archiviato come un romanzo di deformazione (se ne scrivono decine all’anno, già solo in Italia, e per fortuna solo pochi vengono pubblicati) o peggio ancora come squallida autobiografia sessuale - come sembra aver inteso la mia migliore amica leggendo l’estratto semiporno in quarta di copertina, e senza leggere null’altro dopo che un anno fa sua cugina le aveva regalato l’edizione rilegata (“Come, hai una cugina e non me l’hai ancora presentata?” “Ma ha quarantacinque anni!” “Meglio.” “Ma è sposata!” “Meglio ancora”).
L’evenienza che l’autore sia un elegantissimo settantacinquenne, e in particolare che risponda al nome di Tom Wolfe, spariglia non poco le carte in tavola. Empiricamente, ci vuole una sagacia narrativa fuori dal comune per costringermi a leggere settecento pagine in tre giorni, per di più andando a coricarmi col pensiero di come continuerà il romanzo e non di come farò a sopravvivere con la mensa chiusa. Volendo scendere a un più basso livello di critica testuale, il principale motivo di interesse per Io Sono Charlotte Simmons risiede nel suo essere la storia di tre uomini. Uno, Hoyt Thorpe, appartiene a una fraternity (sostanzialmente una società goliardica i cui membri, se passano indenni alcune sanguinarie prove d’ingresso, restano legati fra loro non solo per tutta la vita ma addirittura dopo essere riusciti a conseguire il diploma di laurea) e gode dell’universale ammirazione per aver sorpreso nottetempo il governatore della California estremamente compenetrato negli affari di una locale matricola. L’altro, Jojo Johanssen, è alto due metri e quindici ed è l’unico bianco nel quintetto base della squadra di basket (dev’essere più o meno come essere italiano e giocare nell’Inter): per di più non è totalmente rincretinito come i suoi compagni di squadra, ma tende a limitare i buoni esiti accademici che potrebbe ottenere per equipararsi invece alla loro mediocrità (non è inverosimile: chiedete a qualsiasi psicologo di qualsiasi squadra giovanile italiana di calcio e vi dirà che lo fanno tutti i giocatorini alfabetizzati). Infine, Adam Gellin è un ebreo che porta ancora i capelli con la riga (non ricordo da che lato) e cova il sogno di diventare un intellettuale (questo lo ricordo bene: de sinistra, ovviamente).
Charlotte Simmons ondeggia fra loro tre, nella parossistica indecisione tipica di chi si è appena visto togliere il guinzaglio; loro, tutti grandicelli, ne approfittano in maniera diversa: chi rendendola un distributore automatico di affetto, chi utilizzandola come tutor gratuita, chi - banalmente, verrebbe da dire - sverginandola. Queste tre figure (o meglio, questi tre figuri) sono statiche e si stagliano sullo sfondo della lenta ma inesorabile degenerazione della vita di Charlotte, la quale precipita rapidamente dallo sconsiderato entusiasmo alla più cupa disperazione (esattamente come sta avvenendo in queste settimane a tutte le povere matricoline sparse per l’Italia). Il lento deperire dell’anima di Charlotte viene presentato alla moviola, se si pensa che nel giro di seicento pagine si passa soltanto dall’estate a Natale, offrendo quasi uno scenario da romanzo sperimentale, in cui a ogni impulso offerto dal variopinto mondo esterno corrisponde un’affezione sul suo mondo interno, dapprima incrollabile e poi sempre più mutevole.
(Sono un po’ sconvolto dall’evenienza che in questo momento, mentre scrivo scrivo scrivo, sulla scala d’emergenza di fronte alla mia finestra si sia seduta a guardarmi incuriosita una matricola che vive due piani più su; ciò nondimeno mi trattengo dal fare sbandieramenti e proseguo nella disamina, perché è più conveniente fingere di essere un intellettuale.) Il principale mutamento che viene posto sotto gli occhi del lettore è esclusivamente soggettivo, e riguarda la percezione che Charlotte ha del mondo. La casa, la famiglia, la professoressa del liceo che costituivano la sua personale trinità valoriale sono irriconoscibili già quando lei torna a Sparta due mesi dopo l’iscrizione; ma - a parte un tavolo in legno che in soggiorno ha sostituito quello da picnic - ciò che la sgomenta è esattamente la loro immobilità, mentre per lei, come direbbe Groucho Marx, non solo ne è passata di acqua sotto i ponti ma soprattutto ne sono passati di ponti sotto l’acqua. (Sarebbe ancor più sgomenta la matricola guardona se cessassi di scrivere scrivere scrivere e spalancassi la finestra per urlarle che ieri sera passando per un corridoio buio l’ho intravista mentre si teneva per la lingua con - vabbe’, lasciamo perdere.)
Il precipitare della situazione esterna di Charlotte è più inquietante ancora se si pensa all’incapacità di sua madre, tanto per prenderne una a capo, di rendersi conto che il cambiamento della figlia non è una colpa; terrorizza l’idea, sottesa a tutto il romanzo, che l’affetto di cui Charlotte era stata circondata durante il liceo fosse dettato esclusivamente dall’affermazione della sua personalità (in questo senso dunque Io Sono Charlotte Simmons) e non dal fatto che lei possa essere una persona dalle infinite e inevitabili sfaccettature (il romanzo avrebbe potuto altrettanto chiamarsi, seguendo questo ragionamento, Non Sono Charlotte Simmons).
Tom Wolfe ha una prosa che inganna - tant’è vero che una mia amica anglo-canadese, alla quale avevo regalato il romanzo originale (I Am Charlotte Simmons) prima di leggerlo, mi ha ringraziato per averla messa a parte di some of the worse prose I’ve ever read. Sbaglia, temo, per quanto le voglia molto bene. Di là dal tentativo che Wolfe ha sempre inseguito in tutti i suoi scritti, ovvero quello di produrre un linguaggio facilmente comprensibile ma non per questo banale, le parole di Io Sono Charlotte Simmons sono state accuratamente scelte per costituire un language made plain, che si uniformasse il più possibile a quello dei personaggi-studenti che animano il racconto e che tanto più risaltasse per la propria scarsa attinenza semantica con quella che dovrebbe invece essere una culla del sapere e del discernimento. Probabilmente Tom Wolfe esagera un po’ con l’insistenza sul - l’hanno tradotto così - “patois del cazzo fottuto”, non tanto per mettere in bocca ai personaggi più parolacce di quante vadano in onda sulle nostre reti televisive in un qualsiasi pomeriggio, ma proprio nel battere reiteratamente (e metaforicamente, s’intende) la propria lingua su questo dente che duole. Non lo conosco (ancora) di persona ma credo che lo faccia per dimostrare che lui s’è veramente spinto dove nessun ultrasettantenne ha mai osato, ovvero nei cessi delle università e nelle feste dove il vomito scorre a fiumi portando con sé le confezioni strappate di preservativi (speriamo non bucati); ma il punto non è questo.
Il punto è, a mio immodesto avviso, che la prosa troppo scorrevole di Tom Wolfe inganna e lascia passare inosservati indizi che altrove risulterebbero enormi. Ne basti uno per tutti: Charlotte si iscrive per sbaglio a un corso di Francese base (che nel gergo studentesco è definito Frère Jocko, sarebbe a dire Francese per scimmioni) e il primo romanzo che le viene propinato (in traduzione) è Madame Bovary; e segue anche un lungo dibattito con gli studenti (chiunque abbia seguito una lezione in una qualsiasi università sa di cosa parlo e può adeguatamente inorridire) su cosa intendesse dire Flaubert sentenziando Madame Bovary c’est moi. Giuro, Tom Wolfe fa cadere questa discussione nel bel mezzo del romanzo con tanta naturalezza che un lettore scemo quasi quanto me sulle prime non si accorge che grattando via Flaubert si sta parlando della traduzione francese del titolo del romanzo che ha per le mani.
Cosa vorrebbe dire questo? Che Tom Wolfe è Charlotte Simmons? Non so, non credo, non conviene che un vecchietto, per quanto ben tenuto, pensi di essere una diciannovenne, per quanto immaginaria. Piuttosto mi è giunta l’eco che la Dupont University potesse essere in realtà un nascondiglio, un travestimento di Duke, università che conosco soprattutto per il basket NCAA ma che presumo abbia anche più alti meriti. I bloggers, sempre ammesso che esistano veramente e non siano tutti fittizi eteronimi, si sono scatenati alla ricerca per la giusta interpretazione di questo presunto roman à clef; ma evidentemente è sfuggita loro una possibile interpretazione del c’est moi, dell’io sono. Tom Wolfe, immortalato in una celebre puntata dei Simpson mentre si toglieva il classico completo bianco rivelando che sotto ne aveva un altro completamente identico, immagina un procedimento simile: vuole che il lettore guardi la copertina e legga il titolo in prima persona - ovvero: Io, Antonio Gurrado, sono Charlotte Simmons - e che all’atto di spogliarsi della propria individualità per calarsi nella realtà romanzesca scopra sotto il proprio Io un altro Io che non gli appartiene ma che è completamente identico.
In settecentosettantasette pagine (Tom Wolfe ne sa centoundici più del diavolo) viene presentato il peccato originale di chiunque; e viene presentato con gli occhi spalancati di Charlotte Simmons, Eva postmoderna il cui albero della conoscenza è l’iscrizione all’università e la cui mela proibita è il primo sorso di vodka e succo d’arancia (per i curiosi, a pagina 515). La caduta, la degenerazione, il punto di non ritorno è quello in cui Charlotte smette di essere una talentuosa adolescente di fronte a una rosa illimitata di allettanti possibilità e inizia a diventare una vera signorina, una donna quasi, ma una e basta, senza possibilità di alternativa, perdendoci inevitabilmente e per certi versi iniziando prematuramente a morire: non a caso lo capisce durante il primo periodo all’università, che è il weekend sprecato della vita intera, gli anni in cui volendo si potrebbe ma non si riesce.
Così, prima di tornare a immergermi in una lunga settimana di letture pomeridiane nella biblioteca Delfini, beatamente circondato da centinaia di urì sedicenni, ho capito perché quando le guardo non penso a ciò che loro pensano che io stia pensando ma alla maniera più docile possibile per imporre loro di non andarsene mai dal liceo quotidiano, di non diplomarsi e di non crescere mai. Un’infinità di parole fa ho citato (avventatamente?) il romanzo sperimentale non solo per mettere in mostra la mia ignoranza in materia (sono pur sempre un laureato in filosofia, e sarà il mio peccato originale tutte le volte che scriverò di letteratura) ma soprattutto perché Io Sono Charlotte Simmons si apre con una falsa citazione da un falso Oxford Dictionary of Nobel Laureates (falso, e tuttavia assolutamente verosimile: è qui che si scorge il grande romanziere, inveterato e adamantino contaballe compulsivo). Qualora un dì avessi un figlio, qualora venisse a dirmi che vuole iscriversi all’università, prima gli farei leggere con attenzione:



Victor Ransome Starling (USA), premio Nobel per le scienze biologiche, 1997. Nel 1983 Mr Starling, allora ventottenne processore associato di psicologia alla Dupont University, condusse un esperimento: con l’aiuto di un assistente, rimosse chirurgicamente da trenta gatti l’amigdala (…). Era noto che tale intervento induceva gli animali ad assumere una serie di atteggiamenti inappropriati: si mostravano apatici quando avrebbero dovuto aver paura, si ritraevano quando avrebbero dovuto mettersi in mostra, erano sessualmente eccitati in situazioni in cui un animale normale non avrebbe avuto nessuno stimolo. Gli esemplari operati di Mr Starling erano diventati preda di un’eccitazione sessuale addirittura maniacale. I gatti cercavano continuamente di copulare: uno montava l’altro che a sua volta veniva montato da un terzo, e quello da un altro ancora, e così via, fino a creare dei tandem (volgarmente detti “trenini”) lunghi anche tre metri.
Mr Starling mostrò il fenomeno a un collega. I trenta gatti privati dell’amigdala e altri trenta normali usati come gruppo di controllo erano tenuti in gabbie singole, tutte nella stessa stanza. Mr Starling iniziò ad aprirle in modo che gli animali fossero liberi di venire a contatto tra loro. Il primo gatto liberato si lanciò sul visitatore, afferrandogli la caviglia con le zampe anteriori e spingendo ripetutamente il basso ventre contro la sua scarpa. Mr Starling osservò che il gatto aveva scambiato l’odore del cuoio per quello di un animale a lui compatibile. Ma il suo assistente disse: “Professore, questo è uno di quelli normali”.




Poi gli dirò che la mia progressiva vecchiaia mi impedisce di ricordare quale animale fosse la mascotte dell’immaginaria Dupont; la mia cultura generale da Trivial Pursuit mi consente di sapere che quella di Duke è un diavoletto blu; la depressione del fine settimana mi suggerisce che a ogni latitudine, in ogni università, la mascotte potrebbe essere il gatto normale, e che tutte le matricole al mondo potrebbero anzi riunirsi sotto il vessillo del gatto di Schroedinger del quale, chiuso ermeticamente in una scatola, non si sa se è vivo o morto.

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