mercoledì 28 febbraio 2007

Dalla periferia dell'Impero


(mercoledì 21 febbraio 2007, copyright Ore Piccole)


Io ho commesso svariati peccati mortali, il non meno grave dei quali consiste nell’aver invitato, qualche anno fa, un gruppo di giovani scrittori meridionali a confrontarsi col pubblico nelle brume del profondo nord. Gli errori si commettono per imparare, e infatti nella circostanza specifica imparai che in Italia tutti sentono un gran bisogno di leggere romanzi e ascoltare presentazioni, a patto tuttavia che a leggere romanzi e ascoltare presentazioni sia qualcun altro. Uno degli autori che si mostrò più entusiasta della mia sciagurata iniziativa, non solo prima ma anche dopo aver parlato di fronte a una decina di volenterosi nordici, fu Livio Romano, romanziere che viene dalla provincia di Lecce e che ora va per i quarant’anni.
Avevo scelto Livio Romano perché all’inizio del millennio, con Mistandivò (Einaudi, 2001), aveva provato a far convivere un sincero (e impietoso) ritratto del meridione con un ardito (e colto) sperimentalismo linguistico. Pensando al ritrito figurativismo linguistico col quale nei decenni i narratori meridionali hanno tentato di descrivere il meridione, e in particolare sentendomi mancare di fronte all’inimmaginabile sottobosco di autorucoli semidialettali che puntano esclusivamente al plauso del loro paesello e all’invidia di quello vicino, il solo pensiero che Livio Romano avesse tentato qualcosa di nuovo mi consolava; la consapevolezza che l’Einaudi l’avesse appoggiato mi rincuorava; la possibilità che potesse addirittura tracciare una strada nuova mi lasciava ben sperare.
L’idea fondamentale del ciclo di incontri che avevo organizzato con spirito suicida era appunto quello di mostrare al nord un sud inatteso e, per certi versi, disatteso rispetto alle aspettative del comodo pubblico delle brume; montandomi la testa, la mia intenzione era di presentare dal vivo le diverse voci che avevano composto l’antologia Disertori (sempre Einaudi, 2000) poiché appunto disertavano ogni luogo comune sul meridione comunemente accettato. Se non che, com’è noto, il pubblico è come Giucas Casella, preferisce che i luoghi comuni vengano disattesi solo quando lo dice lui e di conseguenza, se questo o quell’autore disattende, non lo ascolta.
Un paio di settimane fa Marsilio ha pubblicato il nuovo romanzo di Livio Romano, Niente da Ridere; ovviamente l’ho letto con curiosità acuita dall’attesa intercorsa dalla sua ultima opera (Porto di Mare, Sironi 2002) e ancora una volta, come accadde per Mistandivò, mi sono sentito consolato, rincuorato e pronto a ben sperare. Innanzitutto per la trama: Niente da Ridere è una tela di ragno che muove dal suo protagonista, Gregorio Parigino, e coinvolge la compagnia di giro che lo circonda e lo opprime, dalla moglie insicura alla madre schizofrenica, l’amica instabile e l’idealista accecato, l’onorevole maneggione e un’infinità di figlie e nipoti. Centro del proprio mondo, Gregorio Parigino si ritrova all’improvviso schiavo del suo stesso mondo, e ciò su cui faceva affidamento diventa invece ciò che lo sconfigge.
L’unica consolazione che gli resti è l’Alprazolam, uno psicofarmaco i cui benefici effetti rilassanti vengono resi magistralmente da Romano alternando inserti di prosa distesa a pagine e pagine di narrazione forsennata. Forse dico una banalità, ma mi è parso che l’Alprazolam sia il vero protagonista di Niente da Ridere, col suo scandire il ritmo del romanzo da un rovescio all’altro; così come nel libro di Giobbe il vero protagonista è Satana, irrefrenabile causa delle disgrazie ingiuste. Il repentino crollo di Gregorio Parigino, tanto nella vita privata quanto in quella pubblica, prende le mosse proprio dal demone del protagonista, il suo continuo e inevitabile affidarsi al supporto esterno per rimettere in carreggiata la vita interiore; e Livio Romano, che è furbo e sa come in narrativa non si possa propinare una verità univoca, si guarda bene dal dichiarare che per Parigino il male assoluto sia lo psicofarmaco e il bene assoluto la ricerca di un senso interiore, oppure che l’amante sia buona e la moglie cattiva (o viceversa, si accettano scommesse), che il partito che candida Parigino alle comunali sia corretto e il partito che lo avversa sia mascalzone. Piuttosto Livio Romano rimesta in questo disorientamento e lascia che il lettore si renda conto da solo di come sia proprio in questa mancanza di un alto e di un basso che Parigino si smarrisce.
Quanto a me, non mi è ancora necessario l’Alprazolam e riesco abbastanza agevolmente a consolarmi con minor roba. Ad esempio, è stato un motivo di notevole soddisfazione rincorrere per le oltre trecentocinquanta pagine di Niente da Ridere le marche degli accessori posseduti da Parigino, la musica che ascolta, i libri che legge, i film che vede; non solo per ricavarne suggerimenti (in fin dei conti, uno dei principali vantaggi dei romanzi è che la pubblicità di ogni genere è sincera e mai occulta) ma soprattutto per dimostrare empiricamente che Gregorio Parigino vive in un Salento atipico.
Vive in un Salento atipico se si pensa alle infinite rappresentazioni da cartolina che – oserò dirlo? – persino i suoi stessi abitanti non sembrano impegnati altro che a produrre continuamente. Vive in un Salento atipico che è indubbiamente Salento ma che potrebbe assomigliare a qualsiasi altro posto di mare: non nelle descrizioni, non nella parlata, ma nell’anima di chi lo abita e, soprattutto, nelle marche degli accessori che possiedono, nella musica che ascoltano, nei libri che leggono, nei film che vedono. Gregorio Parigino, esaurito quantunque, in questo è il mio Salentino ideale, poiché alla retorica di sole mare e vento contrappone un solido ancoraggio al quotidiano mondo occidentale. Scappa dal difetto peggiore del meridione, il terronismo psicologico, il lamento dell’abbandono frammisto alla reiterata (auto)attribuzione di una superiorità morale. Gregorio Parigino è un uomo. Punto. Gregorio Parigino è un Italiano. Gregorio Parigino è un Occidentale nato per caso nel cuore del Salento.
Sono stati questi dettagli, sono state le marche degli accessori e le parole delle canzoni a ricordarmi un passaggio dell’intervento di Livio Romano nel corso del brumoso seminario piuttosto che organizzare il quale meglio avrei fatto a non essere mai nato. Mentre io cercavo di rintracciare un pansessismo apulico che riunisse in sé le disparate pagine di lui stesso, di Cosimo Argentina e di Annalucia Lomunno, mi sono sentito toccare il braccio da Livio Romano il quale mi ha interrotto per insegnare a me e alla decina di brumosi astanti: che la tendenza di molta narrativa meridionale consisteva proprio nel configurarsi quale meridionale; che questa tendenza era pericolosa in quanto respingeva in secondo piano il principale criterio di giudizio letterario, ossia il valore intrinseco di un’opera; che tuttavia questa tendenza poteva godere di un certo qual successo, benché provinciale, in quanto rispecchiava il desiderio recondito di (auto)reclusione e (auto)compatimento del pubblico meridionale, nonché quello di (altrui) differenziazione e (ipocrita) ammirazione del pubblico settentrionale; che, infine, il meridione d’Italia era sì periferia dell’Impero, ma era pur sempre Impero, frontiera che vive di friselle ma anche di Coca Cola.Così, se con Niente da Ridere Livio Romano arriva agevolmente a un pubblico più vasto di quello che poteva essere ammirato dalle acrobazie linguistiche di Mistandivò o interessato all’impegno sociopolitico di Porto di Mare, questo accade perché il suo nuovo romanzo riesce a fondere entrambi i temi facendoli confluire nel più vasto, e universale, interesse per la psicologia della comunità e lo psicodramma del singolo. Lo sguardo dell’autore infatti si colloca a metà fra pubblico e privato, e non perdona né all’anima di Parigino né allo spirito del suo tempo (o del suo luogo). E soprattutto, nella colonna sonora del Salento di Livio Romano non c’è traccia dei Sud Sound System, non c’è traccia delle rintronanti pizziche. Più che un inizio, è un punto d’arrivo.

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