lunedì 26 febbraio 2007

Egomemetipsum: un'autorecensione altrui


(sabato 13 maggio 2006, copyright La Nottola di Minerva)

Hai voglia a dire che tutti scrivono e non legge più nessuno; hai voglia a ripetere dai nemici mi guardi Iddio ché dagli amici mi guardo io; hai voglia, insomma, a lamentarti che non ti recensisce nessuno e che gli altri li recensiscono tutti. Il mio amico Alessandro Poli (eclettica guardia forestale, dottorando in filosofia a Macerata, leibniziano di ferro, appassionato critico cinematografico e propagatore della vera fede) mi ha dedicato sulla rivista La Nottola di Minerva una recensione commossa e commovente: l’unica in cui si guardi di là dalla trama, l’unica in cui non ci si lamenti che l’intreccio è inconsistente e al contempo difficile a seguirsi, l’unica in cui si sottenda una teologia cosmogonica all’intermezzo di ventisette capitoli, ché solo il primo e il ventinovesimo sono importanti; in definitiva, l’unica in assoluto. Hai voglia a dire che il Cristianesimo non capisce i giovani e che i giovani non capiscono il Cristianesimo, hai voglia a lamentarti del clangore molesto dei Papaboys: la recensione di Poli è meglio del romanzo stesso, è la dimostrazione more aesthetico che si schiude un modo nuovo di cristianeggiare, e che ai miti gianpaolini succedono a poco a poco i feroci razzinghérii. Scrive Poli:

Tra le forme espressive utilizzate per trattare con serietà temi spirituali e religiosi, lasciando che questi permeino in modo egregio lo stile, il romanzo rimane quella più avvincente e difficile da percorrere, poiché si può facilmente incappare in banalizzazioni e perdite di senso. Tuttavia, non corre questo rischio l’ultimo lungo racconto di Antonio Gurrado, 2 5 98 (Michele Di Salvo Editore, 2005). Dopo l’esordio con Il gatto che si morde la coda (Schena, 2001), in questa seconda opera Antonio Gurrado conferma la sua attitudine letteraria e capacità di sintetizzare, in un’avvincente prosa, l’erudizione biblica (e profonda comprensione dei problemi) con la simpatia e leggerezza che non solo letteralmente, ma anche personalmente lo contraddistinguono. Con l’ironia degna del più raffinato illuminista, il giovane scrittore (appena venticinquenne) ci racconta la vicenda di un gruppo di liceali pugliesi, riuscendo a coniugarla con la profondità della teodicea e del confronto con il tema del bene e del male, delle sofferenze che la narrazione distesa nell’arco di una giornata può contenere ed esprimere. Di fatto, la copertina ed il primo capitolo del racconto riportano una l’immagine, l’altro la descrizione, di un’iper-simbolica statua di San Michele Arcangelo ripreso nell’atto di pestare Satanasso e difendere, come “d’ufficio”, il cielo. Il potere evocativo della statua si frantuma nel corso degli eventi e lascia il suo segno, lastricando le vie che il gruppetto di compagni di scuola percorre il 2 maggio del 1998. Con una scrittura erudita ed una quantità di citazioni (a voi scoprirle tutte!) che aumentano lo splendore e l’essenza degli episodi, la voce narrante di Gurrado descrive a volo d’uccello la sospensione ed il dilemma che il dialogo con i grandi temi sa – più di altri – concedere: affronta la vita a tuttotondo ma lo spazio coscienzioso e sacro, circoscritto da due figurazioni di San Michele, è l’orizzonte immoto di un’appassionata giornata in cui si tessono in modo inusuale vicende immerse anche nella fenomenologia della vita religiosa. Tra i percorsi tortuosi che legano le strade di Gravina in Puglia a quelle di Roma, si rivivono le altrettanto labirintiche relazioni, amicizie, bisogni ed illusioni dei ragazzi del Liceo Cagnazzi. L’occhio costantemente disteso sul paesaggio delle Murge o nelle vie della “città eterna” incontra chiese, locali, ristoranti e negozi: un brulicare di vita ed aneddoti che focalizzano l’incessante dialogo di giovani pieni della loro freschezza, e d’altrettanti aneliti ad un’agognata felicità. Antonio Gurrado, un poco scrittore, un poco regista, animato dalla “mala abitudine” di introdursi, non invitato, nelle case altrui, regala una serie di magnifiche rappresentazioni con le quali riesce a barcamenarci dentro le stanze e lungo le vie, come se il suo occhio fosse una macchina da presa, ed il racconto una complicata sceneggiatura; il suo è uno sguardo attento al paesaggio ed alle persone che lo popolano, alle loro peculiarità e nevrosi, che riesce ad illuminare la sua quotidianità descrivendo, al contempo, la nostra. Attento alla lezione di Wittgenstein, 2 5 98 trova la sua dimensione nel tentativo di esporre ciò che non esiste, ossia la totalità dei rapporti umani: “nel senso che essi si decidono non nei fatti, ma in ciò che di volta in volta si crede che siano” grazie a quell’insieme di conoscenze che solo rende comprensibile la situazione. In 2 5 98, l’intreccio narrativo ed un processo demistificatorio vanno alla ricerca della storia sotto gli eventi, mostrando che “tutte le ufficializzazioni di qualsiasi rapporto, il ripetersi l’un l’altro che si è amici, amanti, genitori, figli e datori di lavoro, sono pure e semplici convenzioni, sulle quali però gli uomini si basano considerandole reali, ossia esistenti nei fatti, per evitare la confusione di ruoli che ne conseguirebbe, e dalla quale si è universalmente spaventati”. La presenza di questo rischio non può non terrorizzare, e lo scarto che quotidianamente può subire una pudica tentazione, o che provoca una risposta inattesa, sono portati alla loro giusta dimensione trasformandosi in anelito ad una migliore condizione che i nostri adolescenti non sono riusciti a raggiungere nel breve arco di una “transumanza” giornaliera. Oltre che nella buona penna dell’artefice, la grandezza del libro sta nel descrivere un cammino teso tra la prospettiva limitata e finita della giovinezza, e l’aspirazione a pronunciare qualcosa che valga per tutti, a raggiungere un’apertura su un quid universalmente valido, su sensazioni cosmiche, cosa in cui riesce egregiamente. Intanto la statua di San Michele Arcangelo, dopo aver inframmezzato il tempo dell’adolescenza con la vita religiosa (divertentissime le scene liturgiche), rimane lì, nella Cattedrale di Gravina, e resta ancora vivo in alcuni il ricordo di quella stessa enorme statua un tempo portata in processione per le strade del paese durante la festa patronale. A noi rimane invece da chiederci, dopo averlo intravisto nelle pieghe di un romanzo, dove effettivamente riposi il vero San Michele e se, per sempre od ogni momento, non brandisca la sua spada contro il Maligno, sorvegliandoci muto.
Alessandro Poli per “La Nottola di Minerva”, anno IV n.1/2, gennaio/aprile 2006

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