lunedì 26 febbraio 2007

La mia infanzia felice senza (troppo) calcio in tv

(sabato 21 ottobre 2006, copyright Il Resto del Pallone)


Sono nato nel 1980 e pertanto la mia infanzia felice è coincisa con l’apice del Milan di Sacchi e, su più larga scala, con la sbornia calcio-televisiva prima durante e dopo Italia ’90. Ricordo distintamente che una vignetta del Guerin Sportivo, all’epoca, diceva che il sogno di ogni maschio italiano era di veder giocare Roberto Baggio con le gambe di Alba Parietti: calcio e televisione, poiché l’occhio vuole sempre la sua parte, sarebbero così stati uniti in un matrimonio inscindibile. Sembra inverosimile a ricordarlo oggi, ma durante la mia infanzia felice il campo verde e lo scatolone nero venivano in contatto molto poco spesso in confronto alle nostre infinite dirette quotidiane, ai canali specifici per maniaci, al weekend di calcio che inizia al venerdì e finisce al lunedì sera solo per lasciar posto a Coppe e nazionali di martedì, mercoledì e giovedì. Soprattutto, c’era una precisa distribuzione localizzata degli eventi: durante la mia infanzia felice il calcio si vedeva due giorni a settimana. Alla domenica c’era Novantesimo Minuto alle sei e dieci e, se mi capitava di perderlo (ma non mi capitava mai), potevo recuperare con Domenica Sprint alle otto o, se i miei me lo consentivano, con La Domenica Sportiva in seconda serata. Soprattutto, c’era la sintesi (di solito il secondo tempo) della partita di cartello trasmessa sul secondo canale alle sette, nobilitata dalla telecronaca di Bruno Pizzul il quale fingeva diretta concitazione come se si trattasse di una partita della Nazionale.
Perché era la Nazionale che sempre, irrinunciabilmente, andava trasmessa in diretta. Ricordo lo scandalo pubblico quando - ma ero già adolescente e quindi non più felice - Telemontecarlo soffiò alla Rai i diritti di Inghilterra-Italia 0-1 con goal di Zola, il sardo più inglese che ci sia. Altrimenti, la partita in diretta era il pregio del secondo giorno del calcio in tv, da sempre il mio preferito: il mercoledì.
Oggi mi riesce difficile spiegare a qualsiasi Italiano fra gli otto e i dodici anni che al giovedì mattina, a scuola, ci si presentava necessariamente impreparati; perché ogni mercoledì era una maratona che iniziava (faccio un esempio a caso: fingiamo di essere a ottobre del 1990) subito dopo il pranzo con Bologna-Heart of Midlothian alternata con Atalanta-Fenerbahçe, poi attraversava il pomeriggio con Spartak Mosca-Napoli e Sampdoria-Olympiacos per concludersi con il folle andirivieni fra Bruges-Milan, Juventus-Austria Vienna e Inter-Aston Villa; e si finiva per andare a letto col rimpianto di non aver potuto finire di vedere Valencia-Roma perché iniziava troppo tardi.
Non era solo l’evenienza che all’epoca le squadre italiane vincessero tutte (nel caso specifico, venne eliminato solo il Napoli e ai rigori); era che nel giro di dieci ore io e qualsiasi bambino potevamo sentirci testimoni diretti di un evento più grande di noi, del quale tramite la televisione ci accadeva di cogliere le cadenze segrete e incomprensibili (i goal in trasferta che valevano doppio, questo mistero insondabile). Ogni due settimane, un mercoledì di felicità; e consolati si affrontava con baldanza il resto dei giorni e, nell’immediato, l’inevitabile impreparazione in geografia al mattino dopo.
Di oggi, invece, purtroppo tutti ci ricordiamo tutto. Appartengo alla folta schiera di Italiani senza satellite né digitale terrestre né videofonino, pertanto vivo nel paradosso che del gran macello mediatico a me restino solo frattaglie, che nell’orgia calciotelevisiva permanente io resti perpetuamente col cerino (per non dire altro) in mano e che nell’ora in cui a tutti è consentito vedere tutto io non riesca a vedere più niente. Martedì sono andato in un pub a vedere Anderlecht-Milan, e tifo nonostante ammetto di essermi un po’ annoiato. Mercoledì sono tornato nello stesso pub per vedere Inter-Spartak Mosca e tifo nonostante (per lo Spartak, ovviamente) all’inizio del secondo tempo mi son messo a chiacchierare del più e del meno con gli amici, poi intorno al sessantacinquesimo sono uscito col bicchiere in mano per guardare le ragazze che passavano per il centro di Modena. Della Coppa UEFA, sempre ammesso che qualcuno ne abbia capito la formula, è meglio non parlare: era il torneo che da bambino eccitava le più esotiche fantasie, con le trasferte a Stettino e a Zabrze, a Salonicco e Famagosta, mentre oggi è un incomprensibile calderone con troppe partite di cui non se ne riesce a vedere nemmeno una, o quasi.È venuta meno l’eccezionalità: mentre sullo schermo del pub l’Inter intereggia contro lo Spartak (due goal in dieci minuti, poi traccheggio, poi quasi rimonta subita, poi goal annullato, poi fine in apnea), io penso che, se voglio, il giorno dopo potrò vedere Eintracht-Palermo; e venerdì Rimini-Brescia, sabato Triestina-Juventus, domenica Milan-Palermo, lunedì Verona-AlbinoLeffe, e così via all’infinito, vedendo tutto e non ricordando niente. Mentre Maradona con la schiena sul terreno gelato dello Sparatk Mosca, col gomito davanti agli occhi per non far inquadrare la disperazione della sconfitta, lo ricordo come se fossi stato lì, e mi sento un bambino affamato che si annoia a morire d’indigestione.

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