lunedì 26 febbraio 2007

La preghiera inascoltata


(mercoledì 4 ottobre 2006, copyright Ore Piccole)


Dio tace, ma non acconsente. Non è passato molto tempo dall’anno in cui Giovanni Paolo II dichiarò che perfino Dio pareva essersi chiuso in un impenetrabile silenzio, quasi fosse disgustato dall’evolversi del mondo che Egli stesso aveva creato: immagine potente e paradossale che ha avuto un impatto mediatico magari relativamente scarno, nel mondo ad alta velocità che tutto mastica e tutto dimentica; considerazione però che, seminata nel tempo, dal tempo verrà giudicata e - ciò che ci interessa qui in quanto lettori, anzi divoratori di romanzi - idea che mi è tornata alla mente forte e chiara già dalle prime pagine di Kristus, l’ultimo romanzo di Robert Schneider (Neri Pozza, 2006). Agli occhi del credente, infatti, pare che spesso il tempo passi invano e che non si impari nulla dagli errori della Storia: la vita di tutto e di tutti, rivolta inevitabilmente verso l’eternità che le dà un senso, assume periodicamente e reiteratamente i caratteri di un indaffararsi insensato quando ci si sforza di mettersi in ascolto della voce di Dio, qui e ora, inevitabilmente senza sentir nulla.
La maggiore densità del suo romanzo Robert Schneider la ottiene proprio attraverso questo immanente silenzio divino, cui giustamente l’editore fa richiamo già nella (bella) copertina; e pare anzi quasi ironica la scelta di ritrarvi le mani e il pennino di Erasmo da Rotterdam, forse il più prolifico ed assertivo fra gli autori cattolici, prodigo di consigli al milite cristiano e pugnacissimo nella polemica antiprotestante, in un romanzo - questo Kristus - in cui viene coraggiosamente affrontata la controversa figura di Jan da Leida. Questi, nella brevissima vita che lo portò a regnare su Münster all’età in cui io sto ancora tentando di finire il dottorato di ricerca, dal racconto di Schneider emerge ossessionato e distrutto dal silenzio di Dio; arso da un’inestinguibile sete di ricercare Cristo sin da quando, bambino, assiste alla processione del Venerdì Santo e progressivamente roso dalla impossibilità di metter capo alla propria vocazione, che sente essere quella di proporsi quale nuovo Cristo, di sostituirsi a lui; ciò nondimeno testardo, indefettibile, inarrestabile nel portare avanti il proprio progetto di instaurare in terra il Regno dei Cieli e di portare così a compimento la storia del mondo, chiamando a sé l’Apocalisse prevista a Münster in occasione della Pasqua 1535.
Schneider, già autore di quattro romanzi variamente tradotti, è troppo furbo per risolvere la dinamica della trama esclusivamente nello squassante dialogo fra Jan da Leida e il Dio silenzioso, fra il sospetto che Dio sia assente e l’impeto di voler prendere il Suo posto per ristabilire l’ordine delle cose. Alla follia - lucidissima, intenzionale, sacra - di Jan da Leida fa così da contorno una follia collettiva - questa sì irrazionale, tumultuosa, profana. La setta degli anabattisti, sorta in opposizione al battesimo degli inconsapevoli infanti e in favore dell’immersione nell’acqua benedetta di adulti consenzienti (anà, di nuovo; baptìzo, battezzo), diviene il corpo dalle infinite membra che intende restaurare la giustizia divina, esclusivista e selettiva, alimentata com’è dalla reinterpretazione dei versetti biblici che Jan cita con maestria e memoria sovrumane: Passa in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti li abomini che vi si compiono (Ezechiele 9,4); Non devastate né la terra né il mare né le piante finché non abbiamo impreso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi (Apocalisse 7,3); Poi guardai ed ecco l’Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del padre suo (Apocalisse 14, 1).
Scopo degli anabattisti riuniti a Münster è di procedere a ribattezzare col tau sulla fronte chiunque mostri di desiderarlo sinceramente fino a giungere al numero di centoquarantaquattromila; Jan ritiene di trovare in questo segno la risposta alle domande che cadono nel vuoto della sua stessa anima, e si fa prima seguace poi capo dell’eresia con l’intento - che Schneider non lascia neanche tanto larvato - di assordare il silenzio con prediche tonanti e col clangore degli scontri armati. Si tratta, in buona sostanza, di un gruppo paraterroristico che si impossessa di una città in nome dell’integralismo più fanatico e, per spianare la strada al trionfo della verità, non si trattiene dal passare da parte a parte chiunque ardisca sollevare dubbi, o vestire colori sgargianti, o ascoltare musica.
Ancora, agli occhi di Schneider questa follia collettiva sarebbe insensata se non si inscrivesse in un più grande circolo di follia: il sanguinosissimo XVI secolo di cui le novantacinque tesi di Lutero sono state al tempo stesso causa e conseguenza; l’epoca impazzita, e qui descritta con notevole virulenza, in cui serpeggia una comune e disordinata inquietudine che porta alla distruzione delle cattedrali, alla conversione dei campanili in piazze d’armi, alla profanazione più becera di tutto quanto si sospetta essere sacro e trascendente. Ad ascoltarne l’eco nelle cinquecento pagine di Schneider (o, per chi ha fretta, anche solo a lasciar scorrere lo sguardo su un atlante storico), non sorprende che Dio possa essersi rinchiuso in un disgustato silenzio nei decenni in cui Roma veniva saccheggiata, si viveva di indulgenze, si bruciavano gli innocenti e si processavano i cadaveri, si trascinavano nella polvere le statue della Madonna, i cavalieri si ribellavano all’imperatore, i contadini venivano brutalmente massacrati, si disputava sull’antica dispersione delle dieci tribù ebraiche nell’America appena scoperta e addirittura si traduceva la Bibbia in Tedesco e la si stampava in infinite copie tutte uguali: non stupisce che Dio possa aver dato segno di essere assente in anni popolati di morte e diavoli come la più nera incisione di Albrecht Dürer.
Schneider ha una prosa che potrebbe apparire piatta al lettore raffinato, ma che indubbiamente è funzionale al duplice scopo che (presumo) si era prefisso: lasciare che il lettore giri una pagina dietro l’altra e consentirgli di ricreare nella propria mente una città mai vista e un tempo mai vissuto. Tanto più che viene portata avanti a chiare lettere (nel vero senso della parola: Neri Pozza stampa pagine pulite, dal carattere comodo, possibili a leggersi per ore e magari anche di sera senza stancarsi né disperarsi né addormentarsi con gli occhiali a tre centimetri dalla carta) la corrispondenza fra il dissidio interiore dell’irresoluto Jan, che non pare perdonarsi nemmeno da vincitore, e l’illusorio e agitato torpore del secolo, dal quale Münster non sembra riaversi nemmeno quand’è votata alla sconfitta.
Perché inevitabilmente il tentativo teocratico di instaurare in terra il regno divino fallisce miseramente e grottescamente, quasi; fallisce ogni volta che è costretto a ritorcersi contro sé stesso, spandendo disperazione dov’era la speranza, e quando si ostina a voler applicare letteralmente i principi biblici giungendo all’abominio che almeno fino ad allora era stato risparmiato: la poligamia, l’antropofagia, il fratello che alza la mano contro il fratello. Assume così una diversa coloritura il finale, anche in questo caso doppio: per la collettività il destino è lo sterminio, la ridda di combattimenti e assedi e arresti ed esecuzioni; ma per il singolo, per lo Jan da Leida di cui il romanzo intende essere la biografia, il destino privato è tutto racchiuso in due dialoghi.
Incapace di ascoltare la voce di Dio e di capire che è essa stessa che lo chiama al suo silenzio, da bambino Jan si rifugia nell’amicizia di un monaco certosino, Gerrit tom Kloister. Questi vede morire intorno a sé ad uno ad uno tutti i suoi confratelli, coi quali aveva fatto voto di silenzio assoluto: con l’importante eccezione che, quando in un certosino sorge un dubbio, va ad esprimerlo a un confratello anziano il quale, per tutta risposta, lo ascolta in silenzio e lo lascia andar via senza il conforto di una parola, allenamento indubbiamente utile e significativo per abituarsi a interpretare il silenzio divino. Jan, in anni di incontri con Gerrit, tuttavia non si rassegna e cerca di trascinare il certosino nel proprio mondo di versetti urlati con la schiuma alla bocca, dando nuovo senso al sottotitolo scelto da Robert Schneider nell’originale tedesco: Das unerhörte Leben des Jan Beukels è quindi non solo la vita inascoltata (unerhörte), che non trova riscontro, ma altresì la vita non esaudita (sempre unerhörte, miracoli della polisemia), non compiuta, aperta come il corpo di Jan dopo essere stato giustiziato a colpi di tenaglie arroventate. Come un dialogo con Gerrit tom Kloister aveva aperto la ricerca di Jan, così un altro dialogo la conclude fallita: l’interlocutore stavolta, a pochi giorni dall’esecuzione sulla pubblica piazza, è il vescovo conte Franz Waldeck, capo temporale e spirituale di Münster esautorato dagli anabattisti. È, anzi parrebbe a prima vista, il ritratto del pessimo cattolico del XVI secolo, dedito a gozzoviglie e amori e cacce che finiscono per renderlo simile nel volto a un cinghiale, di cui è oltremodo ghiotto; e il suo improvviso apparire nel bel mezzo dei buoni propositi anabattisti, quando l’ipotesi teocratica era ancora utopica, lo renderebbe ancor più abietto se col passare dei mesi e delle pagine Schneider non mostrasse come la sua stessa imperfezione gli consenta di salvarsi dal destino tragico e di poter, in tutta coscienza, sentirsi partecipe della voce del Signore, perenne monito che la giustizia non è di questo mondo.

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