lunedì 26 febbraio 2007

La voce del padre assente


(martedì 18 luglio 2006, copyright Ore Piccole)


Fa caldo nel romanzo siciliano di Nicolò La Rocca, fa molto caldo: in alcuni punti la temperatura, lo testimonia la stessa voce narrante, tocca i quarantasei gradi. È dunque un romanzo adatto ad essere letto in questi giorni, quando si porta il nonno al supermercato per tornare a prenderlo in occasione dei primi acquazzoni settembrini. Come sempre accade col caldo, ci si spoglia e ci si mostra come si è davvero sotto i vestiti, che coprono e nascondono; pure, capita che in lontananza si vedano pozze d’acqua che non esistono, e sono solo l’effetto del sole negli avvallamenti dell’asfalto. Entrambe queste cose capitano in Tu che hai fatto per me, che la Fazi ha saggiamente pubblicato proprio all’inizio dell’estate, in concomitanza con l’ascesa apparentemente irrefrenabile delle colonnine di mercurio.
In primo luogo, La Rocca spoglia i suoi personaggi, volendo mostrarli come sono veramente, e non rifuggendo in ciò da un certo, giustificabilissimo, entusiasmo del primo romanzo; anche Pirandello, che era Pirandello, iniziò a scrivere L’Esclusa con l’intento di demistificare l’idea cristallizzata della società siciliana: col tempo, inevitabilmente, cambiò idea e gliene siamo ancora grati. Presumibilmente, anche La Rocca cambierà idea, e recederà dall’intenzione di scrivere, secondo le parole della seconda di copertina, “un noir esistenziale”, in cui a mio giudizio la densità della trama rende ogni singolo e breve capitolo troppo pieno, quasi vischioso (ho controllato sul Novissimo Palazzi del 1939, fonte infallibile di ogni verità linguistica, il quale mi corregge: “meglio viscoso”).
Perché la trama, beninteso, c’è ed è solida, eventualità che lo rende ancor più adatto a una lettura estiva, quando si ha voglia e bisogno di abbandonare ogni velleità intellettualistica, impegnata, sperimentale. È una storia sul doppio, incentrata sulla rivalità di due fratelli inscindibili, secondo un tema di assicurato successo letterario (da Caino e Abele o Esaù e Giacobbe, giù fino a Shem the Penman e Shaun the Postman o José Arcadio e Aureliano Buendia); è una storia di opposti, con un Giovanni Tortrici pieno di successo in politica, nell’amore e perfino nei concorsi di bellezza infantile a cui aveva partecipato ai suoi tempi contrapposto a un Giuseppe Tortrici deforme, pieno di pustole, psichicamente instabile e innamorato ma non ricambiato. Un po’ troppo ovviamente, il fratello bello e abile è cattivo e quello pustoloso è buono benché maldestro; punta questa di un intero iceberg di personaggi troppo nettamente divisi nel parteggiare gli uni col male, gli altri col bene.
Il male, soprattutto, talvolta appare banale: è la mafia collusa con la politica che arricchisce ignoranti la cui massima aspirazione è la celebrità televisiva. Il tutto sembra uscito da un incubo di Marco Travaglio, ma tant’è: si tratta di un romanzo di terra, pieno di umori umanissimi (le lacrime, il vomito, il seme e così via) e di atti selvaggi, a volte sul bestiale andante. L’uomo-bestia par excellence, nonché il personaggio potenzialmente più esplosivo, è Giacomo (potremmo dire che il nome stesso lo qualifica quale terzo asimmetrico della coppia Giovanni/Giuseppe), che ammira allo specchio il suo corpo scolpito (è culturista) ma non ama il suo volto, troppo comune, troppo qualunque (le bestie della stessa specie hanno tutte la stessa faccia). Lo stesso Giacomo favorito dalla narrazione in prima persona, unico fra tutti i personaggi, che poi viene repentinamente ed inspiegabilmente abbandonata; lo stesso Giacomo che, confuso dall’amore violento per Laura (s’ingarbuglia la faccenda: si tratta della medesima donna amata da Giuseppe, la quale ama invece un maresciallo, ed è pure bruttarella, a giudicare dal neo proprio al centro della fronte che, per quanto può contare un mio giudizio su una donna immaginata, non mi fa che inorridire; tuttavia la sua verve erotica è tale che alle volte pare, dal romanzo di La Rocca, che in tutta la Sicilia ci sia una donna sola, lei) - dicevo, lo stesso Giacomo che, preso d’amore violento per Laura, alterna il desiderio di toccarsi sentendo la sua voce al telefono a quello, uguale e contrario (di nuovo il doppio), di darla in pasto ai cani, come forse meriterebbe.
Ogni tanto ho avuto l’impressione che La Rocca fosse quasi timoroso di dedicarsi del tutto alla trama, che avesse qualche remora ad abbandonarsi ad essa per non lasciarsi sfuggire il significato recondito della storia, la morale della favola, l’insegnamento tramandabile ai posteri. Sbagliato, perché la stessa trama, sceverata da ogni possibile timore, può diventare un buon film o una buona fiction: non c’è nulla di male. L’indecisione viene rispecchiata anche in qualche dettaglio errato (è dai dettagli che si giudica la qualità: di fare le cose in grande siamo capaci tutti); ad esempio, a pag.175 la tv trasmette Chi vuol essere milionario, quindi si presume che siano almeno le sette di sera ma, due pagine dopo, appare Uomini e Donne che se non sbaglio viene trasmesso sullo stesso canale nel primo pomeriggio. Può darsi che la vedova teledipendente abbia il digitale terrestre (sebbene non sia specificato) e guardi la tv on demand; in compenso, a pag. 229 c’è la finezza di citare l’onomastico di tale Graziella, sculettante protovelina adolescente che manco a dirlo è il mio personaggio preferito, per fissare il periodo in cui si svolge l’azione - tutto il Regno di Napoli sa che santa Grazia cade il 2 di luglio, sebbene mia madre si ostini a ripetere che sia all’8 di settembre.
La trama di Tu che hai fatto per me è un ingranaggio complesso, ma in cui tutto si tiene; forse anzi La Rocca erra nel rendere troppo evidenti alcuni meccanismi che dovrebbero restare espliciti all’autore soltanto, se no si dà l’idea di credere che il lettore sia un po’ scemo e gli si debba spiegare tutto. Dove ci sono due fratelli, rivali o meno, c’è per forza un padre, e infatti tutto muove dalla misteriosa sparizione del padre stesso, Ignazio Tortrici. L’assenza improvvisa del padre è il colpo di pistola che dà il via allo scontro finale fra i due, psicologico dapprima e quindi fisico; ma Ignazio Tortrici non è un Dio che, come quello biblico, riappare per punire Caino e preservare la memoria di Abele, anzi è un Dio di Sicilia che resta nascosto per tutto il tempo, vivo solo per menzione, vittima del progressivo disinteresse, sostituito dalla presenza, in casa Tortrici, del vecchio Ribera bisognoso di cure terminali.
Il personaggio di Ignazio Tortrici, figura di un padre che c’è perché non c’è, mi ha fatto venire in mente ciò che Freud scrisse in uno degli innumerevoli suoi libri che mi hanno costretto a studiare: “la scrittura è, in origine, la sostituzione della voce dell’assente”. Il padre di Giovanni e Giuseppe Tortrici non parla perché non può parlare; ma la storia che La Rocca racconta, dando voce ai due fratelli/figli, risale alle origini stesse dell’atto narrativo, è la necessaria sostituzione di un’assenza primigenia (se mi azzardo a scrivere così la tesi di dottorato, mi fucilano).
Penso che dunque si debba prestare particolare attenzione alle parole che escono di bocca ai due fratelli, quando parlano fra loro e quando si rivolgono agli altri personaggi; e qui, ahimè, ho avuto una brutta sorpresa. Come deve parlare il personaggio di un romanzo? È noto che, se proviamo a registrare una conversazione e quindi a trascriverla, la speranza di ottenere una sorta di effetto-vero si squaglia non appena, leggendo, ci rendiamo conto di aver prodotto soltanto insulse mezze frasi (pensate, tanto per fare un esempio, a Moggi, o a Vittorio Emanuele IV). Se, d’altra parte, rendiamo troppo letterario il contenuto delle virgolette, c’è il rischio più che concreto di far perdere ogni spontaneità al parlante e, per contagio, di sterilizzare la verosimiglianza della trama (chi crederebbe a un monatto che parla come un libro stampato?).
Aristotele ha sempre ragione: il meglio sta nel giusto mezzo. Nicolò La Rocca promette bene coi primi dialoghi (“Testa ’i ficudini!”, sono le prime parole che vengono pronunziate), mischiando italiano e dialetto con una capacità che strizza l’occhio meno ai barocchismi di Camilleri che al ritmo sincopato di Annalucia Lomunno (è brava, ne riparleremo, spero). Se non che, all’improvviso, i personaggi smettono di parlare dialetto, se non per porzioni di testo decisamente minoritarie, e all’avveduto lettore non resta che sfogliare nervosamente all’indietro le pagine lette per scoprire dov’è scritto mai che tutti hanno preso d’amblé a frequentare una scuola serale.La lingua dialogata poteva essere il principale pregio su cui puntellare la solida (non solita: non mi permetterei mai) trama. Va a finire invece che proprio i dialoghi traballano per la stessa incertezza che carica la trama di troppa carne al fuoco. Pare che Nicolò La Rocca, per meglio riscaldare il suo esordio nel romanzo, abbia voluto fissare il sole per ritrarlo, e a un certo punto gli si sono confusi gli occhi. Si tratta, beninteso, di fallacie tutte più che rimediabili, se sceglierà di andare nella direzione linguistica che saggia all’inizio del romanzo. Fa più fresco oggi, a Gravina, se ci si mette all’ombra.

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