lunedì 26 febbraio 2007

Molto arguto, incredibilmente noioso


(lunedì 6 marzo 2006, copyright Ore Piccole)

Giuraddio, tutto quel che scriverò in queste paginette su Jonathan Safran Foer è esclusivamente dettato dall’invidia per il fatto che lui è nato solo tre anni prima di me e ha già pubblicato due bestseller internazionali mentre i miei lettori si contano su una mano monca ed io medesimo ho difficoltà a ricordare i nomi dei miei editori; che JSF sembra molto più giovane di me e che porta con maggior disinvoltura la mia stessa montatura di occhiali, mentre io, a sei anni dall’inforcamento, pervicacemente tentando di infilarmi le dita negli occhi allo scopo di cercare di procurarmi la massima sofferenza possibile non ottengo altro che sporcarmi di unte ditate le lenti; che è sposato con Nicole Krauss e che è nato a Washington e vive a New York mentre io sono nato a Santeramo in Colle e tutt’al più potrò aspirare a stabilirmi ad Altamura, nel brullo sud-ovest barese.
Molto forte, incredibilmente vicino è la storia di un bambino di nove anni che ne dichiara a volte sette a volte dodici; di un padre che lascia cinque messaggi in segreteria telefonica prima di morire; di un vecchio afono (“Io non parlo, mi dispiace”) che dà risposte approssimative preventivamente scritte; delle lettere prestampate di Stephen Hawking e di un corpo che cade giù dalle Torri Gemelle in fiamme. Il piccolo è figlio del padre (e fin qui è banale); non conoscendo con certezza le modalità della morte del genitore e soffrendo di immaginazione iperattiva, è portato a immaginarsi un’infinità di morti possibili pari alla pletora di invenzioni (camicie di becchime, laghetti di lacrime, etc.) che postula ogni sera per addormentarsi.
Il piccolo vuole sapere. Conserva, fruga, indaga e scopre una chiave riposta in una busta con la misteriosa dicitura: BLACK. Si mette alla ricerca di tutti i Black di New York, che sono centinaia, e in ordine alfabetico (di nome di battesimo, ovvio) li va a stanare quasi tutti: è una ricerca che mi ha ricordato il censimento al contrario de Le Anime Morte di Gogol’. Uno è un vecchietto centotreenne che abita al piano di sopra e, per ragioni che mi appaiono inoppugnabili, da decenni aveva deciso di non uscire di casa. Una è una signora bellissima che vuol farsi baciare solo quando il bimbo non vuole baciarla più. Uno è un cinese con la maglietta I♥NY che odia New York ma è convinto che ny sia il cinese per tu. Nessuno caccia il bambino a calci nel culetto.
C’è qualcosa di stucchevole, innanzitutto nel rapporto eccezionalmente eccezionale che lega il bimbo al padre. Ma anche, a voler pescare a caso, nell’ostilità del bimbo nei confronti dell’amante della madre, nella sua forsennata ricerca di un padre sostitutivo (Stephen Hawking?), nell’insopportabile intelligenza con la quale si pavoneggia davanti ai suoi compagnucci i quali, a buon diritto, lo minacciano di torture indicibili. La cosa che mi ha lasciato assolutamente senza parole è che le Torri Gemelle paiono bruciare per autocombustione, o forse perché un magnetismo naturale attira gli aerei nei ripostigli degli ultimi piani; il bambino tanto intelligente non pare riporre alcun interesse nell’idea che possano esserci stati dei responsabili e che gli aerei non fossero radiocomandati, non pare avere nessun moto d’odio o di rivalsa e, nell’elenco delle innumerevoli fobie che la morte del padre gli ha lasciato, quella degli arabi seduti in metrò gli pare la più irragionevole. JSF ha inventato l’inconscio politically correct.
Io ricordo un romanzo stupendo di Philip Roth, Il Teatro di Sabbath, tutto costruito sulla morte di un fratello in guerra e sul conseguente e ragionevolissimo odio del protagonista per i giapponesi, oltre che su una varieganza di perversioni sessuali che un bambino novenne effettivamente non dovrebbe nutrire. Si dirà che un bambino non può essere cattivo, e che caso mai la morte del papà lo rende ulteriormente buono; di solito sono i Papi a dire che per costruire la pace bisogna guardare il mondo con gli occhi dei bambini, ma va specificato che i Papi abitualmente non hanno mocciosi fra i piedi. I bambini sono le più crudeli fra le creature; e ciò è noto non soltanto a qualsiasi maestrina elementare ma anche a Jonathan Safran Foer himself, che nei compagni di classe del protagonista offre memorabili benché fugaci ritratti di scugnizzi postmoderni dal sapore dickensiano.
Il novenne Oskar Schell, al contrario, volteggia fra le rovine altrui con irritante innocenza, e vuol solo sapere che c’entra la chiave con suo padre. Per accompagnarlo nella ricerca, JSF non si limita alle parole, e qui sta l’altro corno della mia critica: se non erro il Novecento è finito circa sei anni fa (parentesi: ho goduto quando del vecchio in sedia a rotelle si dice che ha vissuto ogni singolo giorno del XX secolo perché è nato a capodanno del 1900: evidentemente a JSF non è venuto in mente che sarebbe bastato farlo nascere a capodanno del 1901) - dicevo: il Novecento è finito sei anni fa e con esso credevo sepolti i suoi arditi sperimentalismi. Foer (Safran? Jonathan?) in trecentocinquantun pagine di romanzo non solo infila una quantità ridondante di pagine pressoché bianche, tanto da far rimpiangere i sedici euro e rotti lasciati scivolare nelle mani della imperturbabile commessa libraria, ma aggiunge illustrazioni, biglietti da visita, disegnini, pagine numeriche da decrittare, pagine scritte tanto fitto che non si legge una mazza, pagine che fanno annoiare il lettore, pagine che fanno girare le pagine, pagine che invece di far andare avanti nella lettura fanno sperare che nel bel mezzo della biblioteca s’innalzi una fanciulla scosciata a por fine alla mia traballante quaresima.
Mi ha perplesso il sentore che quello che leggevo era, non fosse per l’invenzione di internet (che è il demonio etcetera etcetera), la stessa cosa che aveva fatto (meglio) Laurence Sterne nel XVIII secolo, fra pagine bianche, pagine nere, cartoncini colorati, inserti in latino, nonsense, spartiti, linee rette e linee curve; tanto da farmi pensare esattamente ciò che stamattina ho scritto a una mia ex innaturalmente preoccupata dall’evenienza che quando ci si vede parimenti ci si tocchi con notevole sinestesia, ovvero Nil sub sole novum, nec valet quisquam dicere hoc recens est, jam enim praecessit in saeculis quae fuerunt ante nos (sì, io penso in latino biblico). Sorge il dubbio che JSF l’abbia fatto non per far sentire scemo il lettore, cosa che era in suo diritto (poiché è accertato che la gente è stupida, è brutta, è cattiva e vota alle primarie), ma per farlo sentire intelligente, anzi compartecipe della sua stessa intelligenza e genialità (se non altro arguzia) autoriale: perché sant’Iddio, Jonathan Safran Foer è bravo e quasi bravissimo, ma deve imparare che il lettore dev’essere la sua vittima, non il suo sbadigliante complice che guarda la strada mentre l’autore si diverte.Però è un bel libro, si legge d’un fiato e, se non si soffre di invidia compulsiva né di ipertrofia dell’ego come nel mio caso, può piacer tanto da farlo regalare in giro ad amici e parenti, così, senza motivo.

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