lunedì 26 febbraio 2007

Smodato elogio di un quasi conterraneo


(lunedì 3 aprile 2006, copyright Ore Piccole)


Capita di rado che una voce narrante incontri il proprio autore: succede ad esempio (stando ai ricordi del liceo, quando prima di decidere se andare con una coetanea non si doveva ancora domandarle se avesse figli a carico) nei Quaderni di Serafino Gubbio Operatore: qui l’io narrante ed eponimo incontra, intento a ficcare il naso puntuto e la barbetta zafferano fra le sue macchine da presa, un signore che benché non nominato è pari pari a un (auto)ritratto di Pirandello. Succede di rado, ma succede: capita anche nell’ultimo romanzo di Gaetano Cappelli, uscito un annetto fa per i tipi di Marsilio, che per sottile autoironia deliziosa (non starò a rovinarla svelandola) s’intitola Il Primo.
Guido Cieli è un affermato editor noto per scovare dal nulla talenti letterari, o meglio per far passare per talentuosi autori buoni a nulla, gabbando e loro e il pubblico, ché entrambi non aspettano altro; un giorno in cui mastica amaro perché sta perdendo smalto e credibilità incontra a Milano l’autore vero, Gaetano Cappelli, quello che nell’incipit scrive: “Stamattina sono passato sotto casa di Guido Cieli (…) e mi sono messo a scrivere la sua storia”. Agli occhi dell’io narrante Cappelli appare smagrito, triste, pallido, sciupato e a un passo dalla tomba; dichiara di non star scrivendo nulla e s’informa della vita privata del protagonista; cinque pagine dopo, sparisce così come se n’era venuto.
Invece Cappelli stava scrivendo e come: se non che nulla più ci vien detto della sua attività da Guido Cieli, troppo intento a scrutarsi l’ombelico e a cercare di non farsi travolgere dagli eventi, anche perché a un dato punto Cappelli perde il cellulare, cambia numero e per questo non risponde più ai messaggini dell’io narrante. Pazienza, dirà il lettore: Cappelli è sparito, è morto forse, sicuramente il suo telefonino ce l’ha qualcun altro e quindi dopo pagina 116 tutto torna come prima. Il lettore, parte attiva del pubblico che Guido Cieli mensilmente buggera facendo uscire nuovi casi editoriali, può felicemente dimenticare l’autore e godersi la storia dell’io narrante e del protagonista - tanto più, converrà il lettore saputo che magari legge anche le recensioni, questi spesso coincidono perché ogni romanzo è autobiografico.
La trama, dunque, se no i filosofi dicono che utilizzo libri altrui per recensire me stesso. Dall’adolescenza potentina Guido Cieli è abituato a primeggiare (insegna infatti Heidegger che il nulla nulleggia, pertanto giocoforza il primo primeggia) e con questa convinzione si fa strada nella scuola, nell’amore e nel lavoro finché, inevitabilmente, si scontra col proprio demone. Questi si chiama Fabio Nobile, fa l’attorucolo e racchiude in sé la doppia beffa: da un lato lo sorpassa nell’ammirazione universale giungendo a sottrargli l’amata; dall’altro appare manifestamente un gradino sotto Guido Cieli, in quanto caciarone, facilista e pure vestito male. A titolo di esempio, quando gli ruba la donna, Fabio Nobile invece di amarla e onorarla la sposa.
Allora Guido Cieli se ne va: così inizia la sua vera ascesa. Al fianco dell’editore Cento, si ritaglia uno spazio di quasi religiosa intoccabilità; basta un suo cenno d’assenso ed immediatamente un dattiloscritto incerto vende copie a badilate. Invece di diventare scrittore (come Cappelli, ad esempio) Guido Cieli preferisce godere della propria superiorità leggendo e giudicando il sottobosco narrativo: Lanù orsetto perfetto; Dromi cammello a tre gobbe; Bevi, o infelice Rosmunda; Pensando a Benso, conte di Cavour; Ingiustizia è fatta! Lu veru cuntu de li briganti; La lussuria delle lacrime; Preziosi gioielli a colazione; O infelici pescatori di Trinacria!; Storia del perdigiorno Dagobert, magico suonatore di hamburger; e così via secondo un anticanone dei manoscritti inediti e dei peggiori fra i romanzi pubblicati coi quali Cappelli ha avuto a che fare nella sua sorridente vita.
(Saltate questa parentesi, perché vi provo infinita pena. La provo nel leggere ogni giorno un dattiloscritto per un premio letterario di cui sono indegno giurato; la provo nello scoprire che per gli autori del futuro è normale scrivere “quel uomo” come fosse “quel cane”, ovvero ornare tanto le domande quanto le risposte di punti interrogativi per malintesa par condicio; la provo nel terrore di estrarre all’improvviso, come un diamante in tanta merda, il manoscritto di qualcuno che scrive meglio di me e magari è pure più giovane ed anche fidanzato con una ricca maggiorata; la provo nelle mie colleghe coi baffi che mi danno dello snob perché tento di difendere la grammatica italiana; la provo nello sguardo vacuo di chi legge i brandelli della mia tesi dottorale e mi chiede: “Sì, ma cosa vuoi dimostrare?”; la provo mentre qui giungono i primi caldi, le modenesi si svestono ed io starnutisco con veemenza sulla pila di fotocopie dell’Essai sur les Moeurs; la provo perché fuori è primavera e in camera mia no.)
Ascende Guido Cieli all’empireo degli editor, coloro che stando a Umberto Eco (Pendolo di Foucault) se ne vanno felici in incognito per il successo di libri che, se fossero stati scritti dai loro autori, mai ne avrebbero avuto. Poi, di spalle nel suo ufficio come nei migliori coup de thêatre, ad attenderlo c’è nuovamente il suo demone, che da attore vuol farsi autore con la stessa disinvoltura di chi compra una vocale alla ruota della fortuna. Guido Cieli sente di star per crollare. Allora finalmente il cellulare trilla e gli arriva in soccorso, benché impossibilitato a muoversi, Gaetano Cappelli.
Il fatto è che Cappelli, nelle lunghe pagine in cui è stato assente dal proprio romanzo, ha di fatto continuato a scrivere; ha seguitato con la storia di Guido Cieli, l’ha ingarbugliata, e ora che s’è divertito l’io narrante gli chiede ben a ragione di sbrogliare la matassa. Ma Cappelli è uomo delle mie latitudini, dichiara la propria indolenza e per giunta ha i guai suoi, pertanto ricusa: “È stato il romanzo a prendere quella direzione. Non posso farci niente”. “E no, mio caro, adesso ti metti a scrivere e gliene dai subito un’altra, di direzione: tu mi hai messo in questo guaio e tu devi tirarmene fuori. (…) Non puoi lasciarmi appeso così. Io ci muoio, non reggo”. “Guarda, al massimo potrei prendere degli appunti, ma poi lo stile?”.
Poco cavallerescamente, l’egoista Guido Cieli risponde che se ne fotte dello stile; come il pubblico fregnone altro non vuole che la trama e, visto che ne va di mezzo personalmente, possibilmente un lieto fine. Sapesse soltanto che Gaetano Cappelli gode di una cifra stilistica tutta peculiare, che gli consente di essere ai giorni nostri pari ai grandi narratori del Settecento britannico: innanzitutto, una varietà semantica capace di far convivere nel giro di poche pagine un’ampia gamma di termini aulici ed infimi (si pensi a Henry Fielding). Memorabile, al proposito, l’effetto comico del momento in cui il povero Guido, nel tentativo di conquistare una signorina che gli ha appena rivelato le proprie ascendenze teutoniche, si vede piombare in cucina l’irrefrenabile coinquilino lucano esultante per un’Italia-Germania: “Gnamm fa’ nu cul tant a ’sti tedesc bastard, ’sti nazzist d’ merd”.
Soprattutto, le opere di Cappelli (anche Parenti Lontani, tanto per dirne una) ripescano il primigenio intento del romanziere settecentesco, quello di comporre un poema eroicomico in prosa, secondo i dettami di Tobias Smollett.. I protagonisti dei testi si raccontano a tutto tondo (vita e opinioni, come Sterne), la loro vita sentimentale non diventa preponderante su quella professionale (dice niente il nome di Defoe?). Perfino i nomi parlanti (Guido Cieli; Cleda Dardo; Mauro Dente; Saro Pesce, etc.) paiono richiamarsi a questa tradizione, e avrebbero reso più che contento il decano Swift.E pure io che di solito, quando leggo un romanzo, a detta di molti (me compreso) mi fermo al vacuo rumore delle parole e ritengo la trama una volgarità da giornalisti, be’, leggendo Il Primo così come quando avevo letto Parenti Lontani sono stato preso da un insopprimibile desiderio di sapere come andasse a finire, lasciando perdere allora la mattutina passeggiata napoletana con tanto di caffè al sole di piazza San Domenico, desiderando addirittura la settimana scorsa di non dover frequentare il corso su La filosofia, la fede, il sacro nel tempo della tecnica che, come ognuno riconosce, è quanto di più alto sia dato all’uomo di ottenere. Come a dire che va bene, Cappelli ha uno stile da applausi, ma non se ne fa soggiogare né si scrive addosso. Tiene alto il ritmo della trama senza lasciarsi trasportare nella stucchevolezza - “No, anche il viaggio nel Sud no (…): non c’è scrittore del Sud che non l’abbia già scritto, il suo viaggio nel Sud” - e conserva pagina dopo pagina un’ironia sorridente, ariostesca quasi, che non risparmia sé stesso (come autore e come personaggio) né il romanzo che sta scrivendo, come un veleno - direi se fossi uno di quegli scrittori che hanno sempre una frasetta pronta su tutto, e vivono nell’attesa che un quotidiano li chiami per un parere estemporaneo - come un veleno che contiene il proprio antidoto. Svettando nella pletora di libretti da due soldi su cui Guido Cieli basa le proprie fortune, Il Primo ha segnato il gran ritorno di Cappelli dimostrando inconfutabilmente una cosa: non è che non si scrivono più bei romanzi. È che se ne pubblicano troppi, bruttini.

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