mercoledì 11 aprile 2007

Dormire, morire?

(copyright Ore Piccole)

Da tempo vado sostenendo che il peggior difetto possibile per un autore sia di essere ancora vivo; e non perché, dati i miei fallimentari conseguimenti editoriali, intenda sopravvivere io solo sbarazzandomi di ogni possibile concorrenza da Dan Brown in giù, un po’ come in James Bond 007 Casino Royale Woody Allen progettava di sterminare ogni uomo alto più di un metro e sessanta per poter così godere indisturbato delle grazie di Ursula Andress. Ritengo piuttosto che ci sia una contraddizione tormentosa fra avere la parola scritta, pubblicata, fissata sul libro come – appunto – lettera morta e la contemporanea consapevolezza che l’uomo dalla cui mano sono state fissate tali parole abbia ancora una vita fluida, mangi passeggi e vada al bagno, e soprattutto possa decidere impunemente se – dico a caso – andare al cinema o allo stadio, sposare la sua migliore amica o darsi alla bestialità, convertirsi alla vera fede o diventare corsivista di Repubblica, e così via precipitando il lettore nevrotico nell’impossibilità di cristallizzarlo, dargli una buona volta una forma definitiva, sottrarlo alla vita per farlo entrare, più o meno trionfante, nella letteratura.




Nonostante il mio auspicio, tuttavia, gran parte degli autori viventi continua a sopravvivere senza vergogna né rimorso alcuno, ponendomi di fronte a serie ambasce nel momento in cui si tratta di decidere se acquistare o meno un loro nuovo libro. Oltre che nevrotico, infatti, io sono un lettore universale e tendo, negli anni o nei mesi, a leggere tutta la produzione di un autore in gran successione; cosa consolante se accade, che so io, per Dickens o per Flaubert, i quali riposano in pace da un bel po’; cosa invece assolutamente sconfortante se si tratta di Ian McEwan o di Michele Mari e così via; di modo tale che passo buona parte della mia vita nel terrore che prima o poi uno qualsiasi dei miei autori preferiti pubblichi un altro romanzo, come poi regolarmente accade.




Basicamente, ci sono tre motivi per comprare tutti i romanzi di uno stesso autore. Il primo motivo è che l’autore rientra nel ristretto empireo di persone delle quali si riconosce sia l’indiscusso talento letterario generale sia la capacità di raccontare storie che risultano sempre vicine a chi, nel particolare, le legge. Il secondo motivo è che, indipendentemente dal talento e dalla vicinanza, si è sentito parlare talmente tanto del tale autore da finire per accumulare tutta la sua produzione in serie nell’attesa di leggerla un dì, con il duplice vantaggio estemporaneo di potere: a) fingere di averla già letta dopo uno sguardo alla quarta di copertina, b) di farne bella mostra in salotto quando vengono gli amici intellettuali e darsi un tono di superiorità dicendo: “Se vuoi te li presto”.




Il terzo motivo è quello per cui sto scrivendo in quest’istante. Esistono degli autori per i quali ci si rende conto subito che non hanno alcuna pretesa letteraria (non perché non abbiano talento; ma perchè proprio non pensano all’alta letteratura quando scrivono, e grazie a Dio visti i risultati di alcuni pretenziosi magniloquenti) e che la storia che narrano – lungi dall’essere tanto profonda da sentirla universale e tangibile – è amabilmente superficiale e come tale si può attagliare a qualsiasi genere di lettore, tranne ovviamente i rabdomanti che cercano, peggio per loro, l’alta letteratura comunque e dovunque. Per mia (e vostra) fortuna non sono fra questi, e ho alcuni autori di cui non posso fare a meno di leggere qualsiasi cosa, senza che da parte né mia né loro ci sia la pretesa (né l’attesa) di avere per le mani il finalmente-grande-romanzo-che-muterà-le-sorti-della-letteratura-italiana-europea-e-interplanetaria. Un esempio è Luciano De Crescenzo. Un altro esempio è Hellen Fielding, che un paio d’anni fa mi costrinse addirittura a cercare la sua rubrica ogni giovedì su The Independent, che è la Bibbia dell’infedele britannico. Un terzo esempio è David Nicholls.




David Nicholls nasce come autore televisivo e cinematografico, ma nel 2003 ha voluto provare la strada del romanzo con Starter for 10, un divertimento che l’anno dopo è stato tradotto da Sonzogno come Le Domande di Brian. Leggero, innocuo, tenero, ricordo di averlo preso in mano un pomeriggio estivo con un certo scetticismo e di essermi ripetuto: “Un altro capitolo e poi smetto”, finché non l’ho finito tutto. E alla fine mi sono posto la domanda: perché mi è piaciuto più di altri romanzi – tecnicamente parlando – scritti meglio? Forse perché era estate? Forse, più probabilmente, perché era abbondantemente divertente? Forse perché appariva lampante che l’obiettivo di Nicholls non fosse di dimostrare quant’è bravo a scrivere (o, reazione uguale e contraria, dimostrare quant’è bravo il lettore a star leggendo) ma soltanto intrattenere, far passare il tempo?




Ci sono dei romanzi che, richiusili, fanno venir voglia di chiedere indietro i soldi; ma, paradossalmente, se pure l’editore (o, come io preferirei, l’autore) ripagasse di tasca propria il disturbo, resterebbe sempre l’insoddisfazione per aver perduto delle ore, dei giorni magari, a tentare di venire a capo di qualcosa che non meritava più che uno sguardo alla copertina. Ci sono invece dei romanzi che, quando li chiudiamo, fanno venire voglia di permuta; tradotto, di andare dall’editore (o, come io preferirei, dall’autore) per dargli indietro la copia e chiedergli in cambio un romanzo nuovo, e poi un altro, e poi un altro, e così via fino alla fine dei tempi. È il segreto dell’intrattenimento. Fosse stato per me, avrei costretto David Nicholls a continuare a scrivere un romanzo dietro l’altro, fino alla (sua) morte per consunzione. Tuttavia sono segretamente altruista, e mi sono limitato a cercare altri titoli su ogni possibile catalogo; non ce n’erano, e così ho dovuto soltanto attendere fino a che...




Fino a che, diranno i miei istruiti lettori, qualche giorno fa la Sonzogno ha messo in vendita Una Botta di Fortuna, ossia il secondo romanzo di Nicholls. No: ho dovuto attendere fino a che non sono arrivato a Oxford, un paio di settimane fa, e la prima cosa che ho fatto (a parte la doccia) è stata andare da Blackwell’s e comprare The Understudy, ovvero la versione originale dello stesso romanzo, tentazione troppo forte per riuscire a resistere quei pochi giorni che mi separavano ancora dall’edizione italiana. Basti sapere che è la storia di Steve McQueen – “bum!”, diranno i miei istruiti lettori. Macché, è proprio la storia di Stephen C. McQueen, uomo dal nome sfortunato, che per giunta vuol fare l’attore e, poiché non ci riesce, si limita a fare l’understudy, ossia quello che in Italiano si chiamerebbe il generico, colui che viene buono per qualsiasi ruolo muto (il cadavere o il fantasma mascherato, nella fattispecie) e che dev’essere pronto a sostituire il protagonista sapendo a memoria tutte le sue battute. Ovviamente il protagonista non si assenta mai.




Nel romanzo di Nicholls, il protagonista non si assenta mai perché è una specie di superuomo metrosexual; è il celebratissimo Josh Harper, giovane, bello, ricco, felice e sposato con una donna meravigliosa, della quale lo pseudo Steve McQueen s’innamora già dalla quarta di copertina dell’edizione inglese (e immagino anche di quella italiana). Stare a specificare che questa situazione dà vita a tutta una serie di episodi surreali e ridicolissimi mi sembra ridondante. Invece mi sembra più utile, per me e per voi, rimarcare che David Nicholls ha una capacità davvero notevole nella scrittura dei dialoghi, un po’ perché nasce come sceneggiatore (e sceneggiatore seriale, per la tv, così da non avere tempo abbastanza da farsi venire le crisi da pagina bianca) un po’ perché i fin dei conti l’Inghilterra è la patria del conversation novel.
Ciò che mi ha più piacevolmente sorpreso è che Nicholls abbia riproposto in Una Botta di Fortuna lo stesso schema sotteso alla trama de Le Domande di Brian. Carenza di idee? Non credo – proprio per quel che riguarda il suo nascere come autore televisivo. Sono sicuro invece che abbia voluto prodursi in una specie di variazione sul tema; come alcuni di voi ricorderanno (e chi non l’ha letto vada a comprarselo adesso, invece di perdere tempo su internet) il protagonista de Le Domande di Brian era un ragazzino che perdeva via via le proprie certezze posto di fronte alla realtà (tristanzuola) della vita universitaria; soprattutto, la comicità del romanzo stava nel tentativo di commisurare il mondo alle proprie (ingenue) aspettative e parallelamente di attendere il momento in cui egli stesso avrebbe soddisfatto le (molteplici) aspettative del mondo, superando gli esami, rendendo felice la mamma, fidanzandosi, etc.




Steve (C.) McQueen vive la stessa tragedia; le proporzioni sono anzi maggiori, poiché l’attesa del suo grande momento è diventata non solo sfibrante e frustrante, ma per certi versi ormai inutile e superata. È come un calciatore che ha trascorso la sua carriera in panchina ad aspettare che il titolare si infortunasse; è un Amleto che tenta di ricordare il monologo a memoria. Il talento di David Nicholls sta secondo me nel riuscire a voltare la tragedia (per quanto piccola e domestica) in commedia; lasciare che il lettore giri le pagine per sapere, ad esempio, perché nell’armadio di Steve McQueen II sono nascosti un dvd per bambini, un premio per il miglior attore dell’anno e la figurina più rara di una collezione che non ha mai fatto - e che al contempo, sottotraccia, faccia un po’ sua la storia umana del protagonista, si immedesimi e la contempli dal di dentro. La continua alternanza fra l’umorismo (che necessita di uno sguardo esterno, critico, eventualmente iper-razionale) e il sentimentalismo fa in modo che né Una Botta di Fortuna né, a suo tempo, Le Domande di Brian né, con ogni probabilità, i prossimi romanzi di David Nicholls risultino monocordi come molti romanzi umoristici, come molti romanzi sentimentali. Per questo continuerò a comprarli, in svariate lingue.

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