venerdì 31 agosto 2007

Il solito ignoto

Da grande voglio fare il re
perché si guadagna bene
ma mia madre mi fa fare i concorsi
e allora vuol dire
che non ha fiducia in me.
(Lello Arena, Enzo Decaro, Massimo Troisi)

Tanti auguri a me, visto che compio oggi la bellezza di un mese che sono tecnicamente disoccupato (l’ultima busta paga è stata quella di luglio, la metterò in cornice); se non che ad agosto la disoccupazione, fresca quantunque, facilmente si mimetizza in vacanza, mentre da domani col mese di settembre inizieranno i grattacapi a meno che stasera io non venga scoperto erede del Principe di Galles.

Ora, non voglio fare le solite manfrine sulla cultura umanistica che non immette nel mondo del lavoro (non è vero, altrimenti ci sarebbero delle associazioni che raccolgono i cadaveri dei laureati in filosofia morti di fame per la strada), sul talento che in Italia non paga (non è vero, tutta invidia degli inetti) e soprattutto sul lacrimoso precariato: se uno non ha voglia di lavorare, può nobilmente non lavorare e basta, invece di utilizzare alti ideali altrui per giustificare la propria assenza di spirito di sacrificio; se uno invece vuole lavorare, deve farlo assecondando le leggi vigenti del mercato corrente; amen. Voglio soltanto far notare che ho scoperto una maniera infallibile per orientarsi, indirizzando curriculum a destra e a manca tanto che il mio, sospetto, dopo un mese di plurimi invii quotidiani è probabilmente il testo più diffuso in Italia dopo la Bibbia.

Il metodo consiste nel presentarsi alla trasmissione di Fabrizio Frizzi non come concorrente (ruolo che di solito viene riservato a una fessacchiotta) ma come personaggio misterioso del quale bisogna indovinare la professione. Salire sulla pedana, avanzare nella luce dei riflettori farmi guardare ben bene e chiedere: “Scusi, ma io che mestiere faccio?”. Le alternative potrebbero essere, allo stato attuale delle cose: lettore qualificato di manoscritti inqualificabili; latore di cattive notizie; senatore a vita; recensore egotico; supplente nella più callida bassa modenese; scrittore (ah be’ sì be’, ah be’ sì be’ - ad libitum); storico e statistico del calcio; controllore fasullo che provvede a seminare il panico sugli intercity operando una scrematura iniziale prima al passaggio del controllore vero; padre domenicano ed eventuale principe della Chiesa; sosia di Antonio Gurrado.

Se la concorrente dovesse inavvertitamente propendere per l’ipotesi “studioso dell’Illuminismo”, le salto al collo così facciamo la morte in diretta. E ora torno a non far niente, però con classe.

giovedì 30 agosto 2007

Il dono della sintesi

(Gurrado per Ore Piccole)


Per il buon vino ci vuole tempo. Stesso discorso per un romanzo: tempo per scriverlo, tempo per leggerlo e, una volta che lo si è letto, tempo per capire cosa c’è di effettivamente buono, cos’è destinato a restare e cosa no. Se andate a comprare un qualsiasi libro in una libreria Waterstone’s, in Inghilterra, vi verrà consegnata una busta di plastica che reca un ammonimento di W.H. Auden: Molti libri sono immeritatamente dimenticati; nessun libro è immeritatamente ricordato.

Trattandosi di un romanzo su un vino, ho deciso di far trascorrere del tempo prima di recensire la Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo di Gaetano Cappelli (Marsilio, 2007). Prima di leggerlo ho lasciato che si sfogassero i recensori, ho atteso di dimenticarmi cosa ne aveva scritto Antonio D’Orrico (favorevole) sul Corriere Magazine e Daria Bignardi (contraria) sul suo blog; dopo averlo letto ho fatto trascorrere tutto il soffocante mese di agosto e solo adesso, al termine di questo processo di decantazione, verifico cos’è rimasto, cosa c’è di lento in un libro rapido sia nella foliazione (189 pagine) sia negli spostamenti da un capo all’altro della geografia e della storia. Sul fondo di una bottiglia di vino rimane la posa che insaporisce il resto del liquido. Del romanzo di Cappelli, a tre mesi dall’uscita e a uno dalla lettura, rimane impressa innanzitutto la smodata lunghezza del titolo, che lì per lì parrebbe fatto apposta per disorientare il lettore occasionale costringendolo a incartarsi ogni volta che ne chiede ragione alla commessa della sua libreria preferita (“l’inarrestabile ascesa, no, la controversa fortuna, no, la sensazionale scoperta, no, la fortunosa storia”, etc.), e che invece col passare del tempo prende vita propria nella memoria e vien fuori sinuoso come una filastrocca che si era desistito dall’imparare se non inconsciamente. Poi svetta la simmetria fra inizio e fine, due brevi scene familiari che ritraggono il ricercatore assenteista Riccardo Fusco e che fanno da cornice a una trama il cui protagonista è, con la sua duplice storia personale e familiare, il tycoon lucano Graziantonio Dell’Arco (Fusco è piuttosto un rovinoso e inconsapevole deus ex machina). Ancora, il taglio a tinte forti dei personaggi, dal quale non uno si salva con una parola sola che riesca a porlo su un livello di maggiore accettabilità morale rispetto al resto della ciurma: anzi, la scelta del narratore onnisciente permette a Cappelli di assumere una sorridente distanza dalla bruttura di ogni singolo personaggio e, per estensione, della società tutta che descrive.


Nel dettaglio, infatti, Fusco è un fallito tanto sul piano privato quanto su quello accademico; Dell’Arco è consapevole che, senza la sua sterminata ricchezza, sarebbe rimasto l’emarginato degli anni del liceo; il pittore Giàcenere più che l’ideale artistico insegue la propria giovinezza perduta e quella delle modelle che lo circondano starnazzanti; la critica Cathryn Wally Triny, con tutte le sue ipsilon fasulle (la famiglia fa Gallatrini), patisce la propria autorità nel campo enologico con una solitudine estrema che di fatto la rende fin quasi disumana – e questo è solo fior da fiore. Un’altra spia che la struttura del romanzo non è per nulla facile si può rinvenire in come l’atteggiamento sornione di Cappelli voce narrante con un gioco di specchi venga prestato al (e contemporaneamente parodiato nel) monumentale saggio da cui Fusco attende gloria inverosimile, ossia Le oche in piazza: imprinting antropologico in un contesto paesano. (Va rimarcato che dopo aver ricevuto il manoscritto del saggio l’editore di Fusco si suicida: è un richiamo ironico alla plausibile reazione di un editore che si trovi a leggere il titolo del romanzo di Cappelli stesso?)


Fusco conduce una ricerca sulla provincia potentina secondo criteri antropologici solitamente destinati a popolazioni estranee alla cultura occidentale; è esattamente quello che fa Cappelli – non da ora, dai suoi esordi – rifacendosi alla grande tradizione del romanzo settecentesco, al punto di vista di Dio e compagnia narrando. Se non che il valore aggiunto alla sua opera (da Parenti Lontani a Il Primo a questo Aglianico) risiede proprio nella comicità dell’attrito sociologico fra la piccola vita potentina e la vita in grande dell’America (in Parenti Lontani), dell’editoria selvaggia (ne Il Primo) e finalmente del jet-set più vacuo (nell’Aglianico).

Ci vorrebbe un saggio e non una recensione per dimostrarlo, ma la caratteristica principale di Cappelli m’è sempre parsa la piena avvertenza che un romanzo si compone di parole e non di altro; e che quindi la letteratura non debba lavorare sui sentimenti, sull’ispirazione, sulle furberie e sulle porcherie varie ma esclusivamente sulle parole che una dietro l’altra compongono un libro: esattamente come l’antropologia riduce necessariamente l’uomo da individuo complesso a oggetto semplificato d’indagine scientifica. A questo scopo Cappelli agisce in due direzioni. Da un lato, la scelta dei nomi dei personaggi non è mai casuale, ma è sempre parlante. Un solo esempio: il fiero rivale di Dell’Arco si chiama Yarno Cantini dei Conti del Canto degli Angeli. Di là dall’allitterazione solfeggiata, un nome del genere si espande in cerchi semantici che anticipano i temi della nobiltà (il conte), della ricchezza (il conto), della piacevolezza della sua proprietà terriera (il cantuccio), della produzione del vino (la cantina), del suo essere toscano (il Chianti) e così via – il tutto con sole tre consonanti reiterate.

L’altra direzione nella quale Cappelli modella il linguaggio è l’internazionalità del dialetto. Sa l’italiano talmente bene (è raro, fra gli scrittori) da calcolare scientificamente quando intercalarvi l’inflessione dialettale, spezzando il ritmo della frase e creando l’effetto sorpresa. Né è un’operazione che vien fuori a casaccio; è passato un mese ma potranno passare anni e io ancora ricorderò nel dettaglio il momento in cui (a seguito di peripezie che lascio narrare al romanzo di Cappelli, invece di sterilizzarle qui) il lettore si ritrova nello studio di Mikail Nikolaevic Trepulov, pittore russo di chiara fama, e dopo un lungo meditabondo silenzio lo sente apostrofare gli interlocutori in fiorito napoletano: “Ma allora vui sit rui strunz”. Anche a saperlo in anticipo, anche a rileggerla due minuti dopo, l’effetto comico della scena è incrollabile, perché si regge su fondamenta salde: cinquanta (quarantanove) anni fa, Leonardo Sciascia aveva fatto parlare “con un marcato accento napoletano” Stalin che appariva in sogno a Calogero Schirò ne Gli zii di Sicilia, dando icastica prova della limitatezza del provinciale ai cui occhi la lingua più straniera immaginabile è quella che si parla dall’altro lato del meridione.

Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo va letto dunque andando oltre il titolo, oltre la levità del contenuto, oltre la caratterizzazione dialettale e la scoperta satira contro vip presunti tali; va letto e poi fatto riposare, lasciato decantare. Solo grazie a questo procedimento di lentezza ho modo di rendermi conto che un libro spensierato e facile a prima vista non debba essere stato per niente facile all’atto della composizione, e che alla sintetica spensieratezza Cappelli dev’essere giunto (non so, me lo dirà lui) al prezzo di una sacrosanta fatica.

domenica 26 agosto 2007

Operazione Santa Chiara

Colui che sposa la sua vergine fa bene
e chi non la sposa fa meglio.
(1Corinzi 7, 38)

Mannaggia ai preti, mannaggia ai fedeli. Ieri ero al matrimonio di una splendida ragazza con due splendide sorelle di splendida famiglia (a beneficio delle lettrici va detto che non ero lo sposo) e il celebrante non ha trovato di meglio per concludere la sua (lunga) predica che citare – come oserò dirlo? Non so la vostra, ma la mia edizione della Bibbia consta di milletrecentoquaranta pagine stampate su doppia colonna a carattere corpo otto; di conseguenza anche chi non l’avesse mai letta, ma soltanto aperta per sbirciarne il layout, ha tutto l’agio di dedurre che (se non altro per la legge dei grandi numeri) il librone brulica di possibili esempi e citazioni riguardo al matrimonio. Senza pretendere di essere un esegeta, mi permetto di far notare che la mia stessa edizione della Bibbia, al modico costo di sei euri e novanta (considerate che comprare Repubblica per tutta una settimana costa sette euri e cinquanta), fornisce un congruo indice analitico grazie al quale, cercando sotto matrimonio, chiunque si trovi nella necessità di una predica d’occasione può agevolmente orientarsi: “trova gioia nella donna della tua giovinezza” (Proverbi 5, 18); “l’ho amata e ricercata fin dalla giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza” (Sapienza 8, 2); “più numerosi dei figli dell’abbandonata sono i figli della maritata” (Isaia 54, 1); “io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te e divenisti mia” (Ezechiele 16, 8). Senza contare le nozze di Cana; la storia di Booz e Ruth; quella di Tobia e Sara figlia di Raguele; tutto il Cantico dei Cantici; la legislazione maritale di Levitico 18; la nuova legislazione della prima lettera ai Corinzi. In caso estremo di matrimonio fra persone insopportabili si può eventualmente citare Osea 1, 2: “Va’, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione”. Posta questa premessa, riprendo il discorso.

Ieri sono andato a un matrimonio e il celebrante non ha trovato di meglio per concludere la sua (lunga) predica che citare – testualmente – “una massima del sufismo, la corrente mistica dell’Islam”. Cosa dicesse questa massima non l’ho sentito, perché dopo una simile ouverture il mio unico istinto era di trattenermi dal fare al prete in questione quello che buona parte dei suoi amici mussulmani (e poligami) non si sarebbe trattenuta dal fargli se si fosse azzardato a celebrare messa, invece che a Gravina, a Trebisonda o nel sud delle Filippine o della città santa di Qom. Né sono stato l’unico a sorprendermi: lo stupore per l’affermazione è stato tale che alcuni dei presenti si sono addirittura svegliati di soprassalto.

Bisogna salvare il cattolicesimo dai preti (non tutti), dunque, che per sembrare à la page diventano i peggiori difensori delle radici giudaicocristiane dell’Occidente; così come bisogna salvarlo dai francescani (non tutti) che sull’altare di Assisi mischiano le loro funzioni con quelle degli scintoisti e dei Dio solo sa cosa, dai gesuiti (non tutti) che fanno lunghe prediche senza citare Gesù Cristo una sola volta che fosse una, dai comboniani (non tutti) che vogliono negare la comunione ai soldati italiani che in Iraq non potevano sparare nemmeno per difendersi e non morire. Bisogna salvare il cattolicesimo anche dai fedeli, già che stiamo, visto che se si va a un matrimonio si applaude agli sposi, se si va a un battesimo si applaude al bambino che frigna, se si va a un funerale si applaude alla bara in mogano con interni viola; quale sarà il prossimo confine? Le pernacchie alle cresime, i putipù alle estreme unzioni? Soffiare nelle lingue di menelicche all’imposizione dell’ordine sacro? I cd delle migliori confessioni in allegato con l’Espresso?

Se soltanto l’infinita misericordia divina, ieri mattina, ha fatto sì che alla citazione sufista del prete filoislamico non venisse giù l’intera chiesa (una di quelle chiese moderne peraltro, che si distinguono dalle moschee perché la gente porta le scarpe e dai garage perché ci sono delle panche allineate; in cui a prima vista non si riesce a trovare uno straccio di Crocifisso, né lo si trova a seconda e a terza vista, ma solo verso il quindicesimo controllo ci si rende conto che il Crocifisso c’è ma è piccolissimo, ha l’aria di chi sta là solo perché non se ne può far a meno, è la carta d’identità di una chiesa che si vergogna di non essere un supermercato), lo Spirito che soffia dove vuole ha saputo darmi, ieri sera, un motivo di sollievo. Come molte sorelle hanno preso soltanto i pregi dei fratelli, così le monache clarisse sono dei francescani senza difetti. Non sgozzano galline in onore di Manitù e non marciano per la pace con i nipotini di Stalin ma passano la giornata in preghiera e gli anni in clausura; gli addobbi degli altari li fanno loro, la disposizione floreale la decidono loro, poi danno soldi ai bisognosi e fanno dolci e liquori particolarmente consolanti. Il sufismo nemmeno sanno cosa sia perché sono troppo impegnate a pregare: pregano per le persone che non hanno tempo di farlo, per quelle che se ne dimenticano, per quelle che non hanno voglia e per quelle che non ne hanno la minima intenzione; pregano per il seme che cade sulla roccia e per quello che si secca al sole e per quello che viene divorato dai rapaci e per quello che viene soffocato dalle spine. Voi magari state facendo del vostro meglio per finire all’inferno; poi un bel giorno morite (fra cent’anni, per carità) e vi trovate risucchiati in Paradiso grazie alle sovrabbondanti preghiere di una clarissa che manco vi conosceva.

Mannaggia ai preti, mannaggia ai fedeli, evviva le suore: a più di tre secoli dalla fondazione del loro monastero e dopo anni e anni di incontri periodici e attivi coi giovani e coi bambini e con tutti gli strati della società civile, ieri sera le clarisse di Altamura hanno festeggiato la partenza per Roma di una nuova novizia; nel resto d’Italia quest’anno ce ne sono altre due. (Va notato che nella circostanza un’intuitiva bambina di otto anni ha dichiarato di essere giunta all’irrefragabile conclusione che gli uomini sono tutti stronzi).

venerdì 24 agosto 2007

Dichiarazioni estemporanee

Sarebbe certo più patriottico leggere autori russi
ma, lo confesso, non nutro per questi scrittori
una tenerezza particolare.
(Anton Čechov)

Magari state in Inghilterra dove la temperatura è tracollata a nove gradi centigradi e piove come se fosse novembre, benché l’unica volta che sono stato in Inghilterra a novembre c’era continuamente il sole e non pioveva affatto; magari siete dei rugbisti e state in Irlanda a vagare per internet in attesa dell’amichevole internazionale di stasera (forza e coraggio) e vi consolate del ventaccio che spazza le verdi colline di Erin pensando che forse stasera il rugby in prima serata su La7 potrà avere degno seguito, visto che l’alternativa è un film orrendo con l’orrenda Julia Robers; magari state a Mantova, to’, a preparare l’esame di ammissione a medicina e siccome fa freddo e piove pure lì avete finito per raffreddarvi e siete stati costretti a mettervi una felpa, vergognandovene non poco a fine agosto. Fatto sta che io sto a Gravina, ci sono all’incirca quattrocento gradi (all’ombra e col frigorifero aperto) e la terra lancia vampate; così che, per quanto io mi sforzi di vestir leggero e grossomodo al momento indossi soltanto le mutande (questo non dico per sedurre le gentili lettrici, vi assicuro non c'è bisogno di tanto) non c’è verso di ragionare né tampoco di fare un discorso coerente, accurato, serio.

Se non facesse tanto caldo, ad esempio, potrei lanciarmi in una solerte intemerata contro Veltroni e il suo desiderio di accludere al suo nome una lista che comprenda tutto il meglio della società civile italiana. Quest’uomo ricoperto di buone intenzioni come un panino onusto di Nutella non s’è reso conto che così dicendo diceva altresì che le altre liste evidentemente non sono composte dal meglio della società civile italiana, e che quindi magari se uno sostiene Veltroni allora è una brava persona e un genio, mentre se sostiene Enrico Letta invece è un po’ sfigato, se sostiene la Bindi è addirittura Arturo Parisi e se sostiene Adinolfi evidentemente è qualcuno che sa chi è Adinolfi, pertanto è vivamente pregato di spiegarmelo. Che poi io li ho letti i cinquecento e rotti nomi che dovrebbero sostenere Veltroni, e m’è parso che al loro interno il meglio della società civile italiana sia Angela Finocchiaro (l’attrice, non la senatrice). Ovviamente se ne deduce che se a uno poi viene in mente di non votare alle primarie, peggio, di non sostenere il Partito Democratico, peggio, di non tatuarsene il simbolo sulla chiappa destra, peggio, di votare per un altro partito o, peggio, per un’altra coalizione è evidente che – altro che meglio della società civile italiana! – chi si comporta in maniera così puerile appartiene alla feccia della feccia. Insomma, è un coglione: ma detto dal bonario Veltroni fa tutto un altro effetto, suona carezzevole, sembra quasi un complimento e solo a stento ci si trattiene dal desiderio di ricambiare per non apparire troppo gretti.

Ma sono dichiarazioni estemporanee, le mie, ci mancherebbe. Se non stessi sudando tanto da iniziare a sospettare lo scioglimento del mio corpo, avrei fatto un discorso coerente, accurato, serio sulla superiorità morale della sinistra e sul perché Marina Sereni ha sempre quella faccia un po’ dispiaciuta dell’evenienza che il resto del mondo non riconosca il suo genio indiscusso. Che poi questa faccenda della netta distinzione fra dichiarazioni estemporanee e discorsi seri non è farina del mio sacco – non mi permetterei mai – ma viene dritta dritta da un’illuminazione del premier. Non c’è manco bisogno di specificarlo, credo: uno magari sta mangiando un gelato, o si sta facendo la barba, o sta corteggiando la fidanzata di un altro quando il mezzobusto del Tg1 immancabilmente assume la severa espressione di circostanza tipica dei funerali di Stato e riferisce: “Quelle sulla tassazione delle rendite sono dichiarazioni estemporanee, ma c’è bisogno di discorsi seri”, oppure: “Quelle sulla legge elettorale sono dichiarazioni estemporanee, ma c’è bisogno di discorsi seri”; e uno – che stia mangiando un gelato facendosi la barba mentre corteggia la fidanzata di un altro – prima ancora che il mezzobusto lo spieghi sa già che l’accorato appello viene da Prodi, l’uomo dei discorsi seri, il vendicatore delle dichiarazioni estemporanee, colui che facendosi forte dello slogan “la serietà al governo” ha girato tutta l’Italia su un tir giallo allo scopo precipuo di far diventare ministro Pecoraro Scanio.

Veltroni è troppo buono e Prodi troppo serio per comprendere che d’estate, con questo caldo, le dichiarazioni estemporanee vengono spontanee e che le buone intenzioni inacidiscono all’istante. Montezemolo, per dirne una, è come mia madre che non può prendere lo zucchero nel caffé, ma che ciò nondimeno si prepara il cucchiaino nella tazzina e poi si mette pure a girarlo con convinzione. Montezemolo uguale, ogni tanto si sveglia e decide di fare il Presidente del Consiglio: però come mia madre, solo col cucchiaino e senza zucchero. Quindi fa un discorso piuttosto sensato (che Prodi bollerebbe quale dichiarazione estemporanea e nel quale Veltroni faticherebbe a riconoscere il meglio della società civile italiana, visto che non si parla bene di lui) e spiega al governo come si governa e all’opposizione come ci si oppone; dopo di che, amen: rivendica che non sta mica al governo né all’opposizione, lui, e che quindi non può fare niente di niente.

Insomma, se in questo momento non stessi lasciando preoccupanti tracce di cellule morte per l’arsura sulla tastiera del portatile ci sarebbe da azzardare una spiegazione freudiana sul perché Montezemolo spieghi così bene agli altri il loro mestiere e poi si rifiuti di farlo; però abito su una villetta comunale assolata che è ricettacolo di originali guitti impegnati a urlarsi l’un l’altro incomprensibili fonemi di richiamo e lamento, pertanto mi limito a parlare del caffè. Mia madre ha l’abitudine di berlo dopo le quattro del pomeriggio, ma io preferirei prenderlo dopo pranzo; mica per vizio, ci mancherebbe, è che in questi giorni ne ho un disperato bisogno, avendo avuto l’avventato desiderio di iniziare a leggere i racconti di Čechov, milletrecento e rotte pagine, e io finisco sempre i libri che inizio, sempre che non muoia prima di vecchiaia. Così ogni pomeriggio, subito dopo pranzo, mi metto mesto mesto col mio enorme e azzurro volume čhecoviano, e leggo per una, due, tre ore, insomma finché non mi addormento col naso sul muro o fino a quando nel mio cervello non prende il sopravvento l’arguta considerazione di Achille Campanile sulla narrativa russa, più arguta di un’intera biblioteca di critica letteraria specifica: e cioè che i romanzi russi si caratterizzano tutti per il triplice esplicito intento di non far capire al lettore cosa stia accadendo, a chi, e perché – il tutto per un numero di pagine prossimo all’infinito. E dire che per quanto sostenuto da Achille Campanile nella mia idiosincrasia, di tanto in tanto ci riprovo a farmi piacere i russi, ormai da anni: lessi Delitto e Castigo al liceo, fra atroci sofferenze che cessarono miracolosamente una volta che finì il romanzo; Guerra e Pace è perfetto da regalare a chi vi ha fatto del gran male; Padri e Figli di Turgenev ha l’unico pregio di durare esattamente quanto un viaggio da Pavia a Desenzano ma non per questo è meno noioso di uno scompartimento vuoto d’inverno – che altro? ah, l’orrore, l’orrore: La Madre di Gorkij è più che sufficiente a ringraziare la divina Provvidenza che l’ha fatto morire di tubercolosi; e la sola idea che ancora mi manchino Mandel’štam, Lermontov, Pasternak, la Achmatova e un’altra sporca dozzina già mi fa rimpiangere di essere nato.

Non so, sarà che la grafia cirillica è particolarmente scomoda e quindi fa venire voglia agli autori di vendicarsi su lettori innocenti, sarà la cattiva alimentazione, sarà che la Russia è una nazione atipica che quando vuol farsi due risate manda i cacciabombardieri contro gli aeromobili britannici – fatto sta che queste poco avvincenti letture trascorse a sperare ogni volta che la fine del mondo facesse finire il libro prima del tempo mi hanno aiutato ad apprezzare quel poco di buono che da lì è arrivato: Gogol’ innanzitutto, qualcosa di Puškin (soprattutto La Donna di Picche), Il Maestro e Margherita di Bulgakov (ma non tutto il resto), le cose più brevi di Dostoevskij (Le Notti Bianche) e di Tolstoj (Padre Sergij); e soprattutto il vero e presumibilmente insormontabile capolavoro della letteratura russa, Oblomov di Gončarov: un romanzo talmente bello che sembra essere stato scritto da qualche altra parte, tant’è vero che qualche tempo fa lo consigliai a Vicky che è lettone e che mi aveva chiesto libri che non avesse già letto in russo (lei i russi li ha letti tutti, un giorno le chiederò di raccontarmeli sinteticamente); solo dopo un paio di minuti ho capito di aver detto qualcosa di piuttosto offensivo per lei e per tutta una nazione.

Certo, si fa per scherzare, sono dichiarazioni estemporanee e mica discorsi seri; anche perché io non appartengo al meglio della società civile italiana e sono piuttosto un delinquente. Stabilito questo, però, valga l’esortazione generale a diffidare di quelli che si vantano di amare gli autori russi (tranne Vicky, ci mancherebbe): perché o desiderano ingannarvi o non li hanno letti affatto, e per fare la figura degli intellettuali aperti al mondo (di solito sono gli stessi che dicono di trovare adorabile il cinema iraniano, o il cibo africano, o Veltroni) pronunziano Tolstoj con la prima o aperta, spalancata quasi fosse una a - Tàlstoj. L’unica risposta che meritano è quella di Oreste del Buono: “Ma quale Tàlstoj del cozzo!”.

giovedì 23 agosto 2007

Mal di testa

(Gurrado per Il Resto del Pallone)

Domanda a bruciapelo: qual è la squadra più forte di Manchester? Risposta meditata: se consideriamo la storia, il blasone, il potere commerciale e le forze in campo, senz’altro il Manchester United; se leggiamo il risultato del derby appena giocato e la classifica del campionato inglese al giorno d’oggi, il responso parrebbe sorridere ai cugini poveri e celestini. Il Manchester City infatti ha superato lo United per 1-0 e guida bellamente (e solitariamente) la fila delle iscritte alla Premier League, con due punti di vantaggio sul Chelsea e tre sul Wigan; le sei squadre con una partita in meno sono in ritardo e, se anche vincessero il recupero, non lo raggiungerebbero in testa. Così il City, se i numeri vogliono dire qualcosa, alla fine di quest’agosto atipico che in Inghilterra non ha mai superato i venticinque gradi è indubbiamente la squadra più forte di Manchester, alla faccia di Sir Alex Ferguson.

Alla faccia non solo sua, peraltro. Il pensiero che già sabato prossimo il City sarà ospite dell’Arsenal e che ciò con ogni probabilità porrà rapida fine alla sua egemonia (non è detto, però: con le squadre allenate da Eriksson non si sa mai) non dovrebbe consolare sir Alex più di tanto, visto che perdendo il derby di Manchester lo United ha dimostrato di essere afflitto da una sorta di mal di testa che sta intaccando tutte le detentrici dei principali titoli europei, Italia compresa. I rossi campioni d’Inghilterra, ulteriormente rafforzati dal mercato, nelle prime tre giornate hanno accumulato la sconfitta nel derby e due pareggi: ora, più gravi dello 0-1 patito contro il City mi sembrano per certi versi lo 0-0 d’apertura col Reading e l’1-1 col Portsmouth tre giorni dopo, segno apparente di una squadra svagata che non ha nessuna intenzione di ripetere l’exploit dello scorso anno, e la cui abdicazione prematura suona ancora più beffarda leggendo la classifica e vedendola guidata dalla squadra della metà sbagliata di Manchester.

Mal comune mezzo gaudio, d’altra parte. Rovesci anche in Francia, precisamente su Lione, dove il carro armato che ha vinto gli ultimi sei campionati sta pagando l’atto di hybris (la tracotanza venata di stupidità, per chi è stato fortunato abbastanza da non attendere agli studi umanistici) di credersi capace di vincere tutti i campionati francesi fino alla fine dei tempi. La convinzione, corroborata da una campagna acquisti faraonica e un po’ stronza (volta a rafforzarsi indebolendo le dirette concorrenti), si è fatta certezza dopo la vittoria (2-0 sull’Auxerre) all’esordio. Doveva essere la prima di una lunga serie e invece basta là: dopo sono arrivate una sconfitta evitabile (0-1 dal Tolosa), una gara rinviata e una sconfitta preoccupante, 1-2 contro il Lorient che in questo curioso gioco delle parti s’è trovato primo in classifica. Il Lione segue a sette punti (già) di distanza.

In Germania butta male per lo Stoccarda, che lo scorso anno aveva vinto il titolo grazie alla regolarità di rendimento e a una volata entusiasmante nel finale. Se il buongiorno si vede dal mattino, buonanotte: allo spettacolare pareggio per 2-2 contro lo Schalke nella gara inaugurale della Bundesliga ha fatto seguito il tracollo contro l’Hertha Berlino (che, insomma, non è propriamente la squadra di Pelè e Sylvester Stallone in Fuga per la Vittoria). Chiuso il primo tempo in vantaggio grazie a un goal nel primo quarto d’ora, lo Stoccarda deve aver pensato di essersi messo al riparo dalla (mala)sorte comune alle consorelle detentrici: si è spenta la luce e l’Hertha ha segnato tre volte nel secondo tempo, 3-1 e tante grazie.

Corre voce che la Supercoppa, di qualsiasi nazione o continente, sia un trofeo che conta solo se si vince. Domenica scorsa però il caso ha riunito sotto un unico patema le bandiere del Real Madrid e dell’Inter. I campioni di Spagna, che dall’alto della loro sempiterna tradizione vincente hanno aggiunto il titolo dello scorso anno con notevoli affanni, hanno perso dal Siviglia 0-1 l’andata in trasferta e 3-5, nientemeno, il ritorno al Bernabeu. Questa doppia sconfitta di fatto ha vidimato il filotto di sconfitte in amichevoli (per la serie: tanto il calcio d’estate non conta) patito dalla squadra più nobile di Spagna (e d’Europa) con grande scorno di Sua Maestà Re Juan Carlos. Probabilmente Schuster pensa ancora di star allenando il Getafe, la squadra dei sobborghi: così impara quel genio del male che ha avuto l’idea di cacciare ignominiosamente Capello il vittorioso. Non così Roberto Mancini, pienamente consapevole di star allenando l’Inter, dalla quale non lo caccia nessuno (per il momento). I campioni d’Italia, dall’alto della loro non altrettanto vincente tradizione, l’anno scorso hanno dimostrato di poter carpire lo scudetto anche giocando bendati, tanta la superiorità manifesta. Allora pronti, via: e il primo trofeo della stagione, come l’ultimo dell’anno scorso, se l’è pappato la Roma con Totti a mezzo servizio.

Oddio, sono il primo a dire che queste considerazioni lasciano il tempo che trovano e che il prossimo weekend magari il Manchester United e il Lione risorgono contro Tottenham e Saint-Etienne, il Real vince (ho i miei dubbi) il derby con l’Atlético e l’Inter fa un sol boccone dell’Udinese. Sarà. Però questi temporali estivi mi hanno fatto capire il trasporto e la passione (casta) con cui Matarrese s’è baciato Totti consegnandogli la Supercoppa: perché non vince sempre il più forte, e per questo il calcio è ancora bello.

mercoledì 22 agosto 2007

La statua della libertà

E c’è sempre lì quello che parte
Ma dove arriva se parte
Sempre ammesso che parte
(Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto)

Scusate, “la” o “le”? Dall’indegno polverone, dalla ridda di voci discordi che s’è sollevata alla notizia, ieri, che Maria Vittoria Brambilla (potremmo chiamarla Emmevubbì) ha registrato il nome e il marchio del Partito della Libertà (una), altro non s’è sentito che gente dire e scrivere sui giornali questo o quell’altro riguardo al Partito delle Libertà (tante), che è cosa leggermente diversa, o declinare indifferentemente la/le Libertà in questione al singolare o al plurale (tanto per dire: su Il Giornale di oggi il titolo parla della Libertà e l’editoriale delle Libertà), o – nel caso dei giornalisti televisivi – limitarsi a smozzicare le parole e informarci sul nuovo Partito dell[segue vocale inintelligibile, quel dittongo muto che invano le nostre professoresse di Inglese alle medie inferiori hanno tentato di insegnarci per tre anni] Libertà.

Non per niente, ma se iniziamo a fare confusione sugli articoli non va mica bene. Già non s’è capito per una buona mezza giornata se questo partito fosse un ulteriore affiliato alla Casa delle Libertà (al plurale – forse, hanno fatto tanto casino da mandarmi in confusione), se è un contenitore vuoto nel quale eventualmente confluiranno gli aderenti al partito unico (ma allora che ci fa alle elezioni di Courmayeur?), se è il partito di Brambilla Michela Vittoria (potremmo chiamarla Biemmevvù; ma allora perché ha ceduto il simbolo a Berlusconi?), se è il nuovo partito di Berlusconi (e Forza Italia la vendiamo a metà prezzo come partito usato?), insomma non si capisce un accidente. Si capisce soltanto che se si vuole avere qualche notizia chiara non bisogna guardare – nemmeno in caso di necessità estrema - il Tg3, che ieri notte ha riferito la notizia in maniera talmente confusionaria da farmi credere che lo speaker stesse avendo una crisi epilettica, e talmente imparziale da concludere testualmente: “Berlusconi smentisce a modo suo”. Si capisce anche un’altra cosa, però, e mi ha fatto specie di non averla trovata scritta da nessuna parte; quindi la scrivo io.

Michela (Vittoria) Brambilla può piacere o non piacere. Di sicuro è alta, è bella, ha una meravigliosa capigliatura fulva (mi piacciono le rosse) (ognuno ha le sue debolezze) (che ci volete fare) e ci tiene oltremodo a presentarsi bene, a colpire con l’aspetto. Alta e bella quantunque, non sta ferma (altrimenti sarebbe una statua – la statua della libertà, appunto, o delle libertà, a seconda) anzi si muove con rapidità napoleonica del tutto estranea alla politica nostrana (che di rapido ha solo la corsa alle poltrone) e se dice che fa una cosa, la fa. Questo perché non è una politica di professione e quindi è abituata, dalla sua storia personale d’imprenditrice, a fare piuttosto che a dire; ciò non toglie che dice e dice, quindi ha una notevole presa comunicativa soprattutto su chi non è appassionato di politica e la segue distrattamente, si annoia, cambia canale – a meno di vedere all’improvviso una rossa alta e bella che dice cose sensate e per giunta le fa.

Ora, la reazione snobistica di Prodi – che in Inglese sarebbe stata definita stiff upper lip, espressione raffinata e intraducibile che in questo caso, riferendosi a Prodi, potrebbe essere tradotta soltanto in termini irripetibili – mi ha fatto pensare lì per lì alla parabola del cardo. La sapete? Male se non la sapete, vuol dire che leggete troppa Repubblica e poca Bibbia, guardate troppi Tg3 e andate poco a messa. La parabola del cardo (Giudici 9, 8-15) racconta degli alberi che decidono di darsi un re; viene scelto per primo l’ulivo (che prima di venire usato da Prodi era un albero nobile e utile), ma questi declina la nomination: “Rinunzierò forse al mio olio, grazie al quale si onorano dei e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi?”. Viene scelto allora il fico (evitate le battutacce), il quale pure rifiuta: “Rinunzierò alla mia dolcezza, al mio frutto squisito, e andrò ad agitarmi sugli alberi?”. La terza scelta è la vite (i cui benefici effetti abbiamo saggiato tutti almeno una volta, spero), ma si fa da parte anch’essa: “Rinunzierò al mio mosto che allieta dèi e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi?”. Alla fine viene scelto il cardo che, essendo buono soltanto a pungere, non ha niente da sacrificare e quindi è perfetto per il governo. Prodi è il cardo, per questo si irrita quando vogliono far re la vite (o il fico, o un ulivo che non è il suo).

Ieri – non l’ha detto nessuno, ma s’è visto chiaramente – s’è verificata una prima, istintiva divisione fra le viti e i cardi: le viti ritengono che in politica si debba dimostrare di essere stati e di essere ancora buoni a qualcosa d’altro, e inoltre sanno benissimo che chi ha combinato qualcosa d’altro nella vita, entrando nell’agone politico, ha da perdere più di quanto possa guadagnare; tuttavia corrono questo rischio. Michela Vittoria Brambilla (Emmevubbì Biemmevvù) poteva dire parafrasando: “Rinunzierò forse alla vita agiata, al lavoro redditizio, ai vestiti eleganti e ai miei bei capelli rossi?”; non l’ha detto, e ha deciso di sporcarsi le mani. I cardi, dal canto loro, ritengono che la politica debba essere il rifugio di chi non sa fare molto altro (bandisco immantinente un concorso a premi: cosa ha fatto Prodi di buono prima di diventare ministro nel quarto governo Andreotti, circa trent’anni fa? e dopo?) e che per farla non si debba (saper) fare altro. Ne consegue che per i cardi (e per gli ulivi di nuova generazione) ogni caratteristica che il mondo giudica positivamente divenga, una volta immersa nell’acido muriatico della politica, un difetto insormontabile: la ricchezza è un crimine, la bellezza una colpa, la capacità di fare ciò che si dice una pericolosa tendenza autoritaristica.

Come insegna il buon senso, e come diceva Aristotele che aveva sempre ragione, la soluzione sta nel giusto mezzo: ci vogliono i politici di professione (poiché la politica è un mestiere e bisogna saperlo fare) e ci vogliono i professionisti prestati alla politica (poiché si può far politica anche sapendo fare un altro mestiere). Ben venga la Brambilla, dunque, e ben venga chiunque sa darsi una mossa. Dal punto di vista strettamente politico, di là dalla distinzione fra cardi e viti, ieri non è successo niente di importante. Si è semplicemente detto pubblicamente che un’idea e un nome che ronzano in testa a più persone da tempo ora esistono veramente perché sono regolarmente depositati presso un notaio. Stanno lì, nessuno se li può rubare, ora tutto sta a utilizzarli a tempo e modo opportuni. L’importante è non fare la fine del Partito Democratico. A proposito del Piddì: ma hanno depositato nome e simbolo, o sono troppo impegnati a decidere chi mette per primo i piedi in testa agli altri?

domenica 19 agosto 2007

Premio Valerio Gentile


Ribadisco: oggi, 19 agosto, appuntamento alle 19,30 presso il ristorante "Il Fagiano" della Selva di Fasano (Br) per la cerimonia di premiazione della
X edizione del Premio Nazionale di Narrativa "Valerio Gentile".
Interverrà Antonio Caprarica,
direttore di Radio1 e dei Giornali Radio Rai.
Nel corso della serata verrà presentato
il romanzo vincitore del Premio:
Le Prostitute di Caravaggio di
Andrea Nao (Schena editore).
Condurranno
Antonio Gurrado (io)
e
Cristina Mosca.

sabato 18 agosto 2007

I benvestiti

Il calcio, il calcio! Finalmente da una decina di giorni la droga nazionale è venuta incontro a chi come me e come tutti era in crisi d’astinenza prolungata – mica è facile affrontare tre mesi di domeniche in cui l’unico diversivo è la messa in latino, e di intere settimane in cui non si fa altro che discutere se il governo cadrà a ottobre o a fine settembre. Dalla piccola abbuffata di calcio televisivo che ci è stata somministrata a partire dal Trofeo Birra Moretti fino al Trofeo Berlusconi di ieri sera, è possibile avanzare alcune considerazioni preliminari che come fiaccole di conoscenza ci guideranno attraverso la lunga stagione ufficiale che inizia domani con la Supercoppa.

Tanto per cominciare, l’Inter è fortissima, l’Inter è straordinaria, l’Inter è telegenica e ha già dominato il grosso della stagione, non lasciando alle agguerrite avversarie né il già citato Birra Moretti né il Trofeo Tim. Di più, l’Inter ha giocatori sufficienti a mettere in campo quattro squadre e giocarsi il campionato da sola (come l’anno scorso, d’altronde). Ricordiamo agli ingenui che è tradizione che l’Inter vinca lo scudetto ad agosto: tanto per dire, nell’estate 1993 mise in piedi la squadra più spaventosa d’Italia (scomodando addirittura Bergkamp, che arrivò apposta dall’Olanda nonostante il suo conclamato terrore dei voli aerei) e tutti l’accreditarono favorita, salvo che poi alla resa dei conti si salvò dalla serie B per un misero punticino. Nell’agosto del 1997 l’Inter vinse lo scudetto dei pronostici comperando Ronaldo e facendolo esordire circondato da ragazzini smaniosi d’autografi in un’apposita amichevole, e in primavera i risultati andarono oltre le più rosee aspettative: arrivò seconda. Nell’agosto del 2001 la premiata ditta Cúper e Moratti mise su una macchina perfetta, che dominò il campionato dalla prima alla penultima giornata; se non che all’ultima perse una partita da vincere e invece che prima arrivò terza – sono cose che capitano (sempre all’Inter, però). Lo scudetto del 2006 è stato vinto dall’Inter con un colpo di coda, nell’agosto successivo dopo che in primavera era arrivata terza (a quindici punti di distanza dalla prima); e nell’agosto dello stesso anno venne anticipatamente vinto dall’Inter lo scudetto 2006/2007, con la retrocessione della Juve e la penalizzazione delle due avversarie più attendibili agli occhi di chi capisse un poco di calcio, il Milan e (udite udite) la Fiorentina. Come d’abitudine, anche quest’anno l’Inter parte favoritissima: lo scudetto d’agosto non glielo leva nessuno, e in Champions League farà quello che fa di solito (cioè niente); poi, dopo un paio di pareggi di fila in campionato, Crespo litigherà con Suazo che litigherà con Cruz che litigherà con Ibrahimovic e tutti insieme litigheranno con Recoba che litigherà con Mancini, e il campionato lo vincerà la Roma (come la Supercoppa di domani, credo). Non per niente, prevedendo come andrà a finire la stagione, l’Inter s’è fatta stampare sulle maglie la croce rossa.

Per il resto, non c’è niente di nuovo sotto il solleone. La Roma continua a non ricordarsi che le partite durano novanta minuti e non mezz’oretta. La Fiorentina è come alcune delle mie amiche preferite: giovane, bella e farà parlar di sé. Sarò di parte, ma questa notizia che il Milan ha fatto un calciomercato deludente mi pare una fregnaccia: se voi in dispensa avete tutto quello che vi serve per mangiare una settimana, andate a fare la spesa tanto per spender soldi? Così come fregnaccia mi sembra quella del Milan in età pensionabile: Bonera ha ventisei anni, Gilardino venticinque, Kakà pure, Gourcuff ventuno. Ciò detto, per svecchiare l’immagine della squadra non c’era bisogno di darsi alla tratta dei minorenni comprando Pato.
L’ultima parola e l’ultimo pensiero spettano alla Juventus, il can che dorme. Ma non è di natura tecnica, è cromatica: come mai quest’improvvisa passione per le zebre a tinta unita, o tutte bianche o tutte nere? che fine hanno fatto le strisce? forse che le magliette hanno stinto?

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A proposito di vestiti, non capisco il grande abbaiare che s’è sollevato in difesa di Rigoberta Menchú. Potrà aver vinto tutti i premi Nobel che vuole, ma la maniera in cui si veste è improponibile, la fa effettivamente sembrare sciatta e dà fastidio agli occhi. Non ha avuto una virgola di torto il solerte funzionario che l’ha allontanata dal tale hotel di gran lusso: se uno si presenta vestito da mendicante, come mendicante va trattato. Si dirà che era il costume tipico delle parti sue; ma se io dessi una festa elegante a casa mia e si presentasse gente col costume tipico gravinese (non l’avete visto ma è ridicolo, vi assicuro), o col costume tipico sardo, o in kilt, o in sarong, o in kimono, non c’è dubbio che tutti questi begli abiti finirebbero per gualcirsi a furia dei gran calci coi quali caccerei i loro indossatori. Il dressing code è stato inventato apposta, e seguirlo è un segno di rispetto per la persona che l’ha richiesto, per il luogo che vi ospita e per tutti gli altri astanti che l’hanno rispettato, invece di uscirsene in bikini o con la maglietta dell’Inter (soprattutto quella con la croce rossa, è davvero imbarazzante, spero che i magazzinieri ne smarriscano quanto prima tutti gli esemplari). Si dirà che il variopinto costume tipico serve a distinguersi nel grigio panorama d’alto bordo occidentale; a ciò non vedo miglior risposta di un celebre motto dall’autore incerto: “Se fra noi qualcuno vuole distinguersi, che vada a distinguersi da un’altra parte”.

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D’altronde l’abito fa il monaco. Il monitoraggio quotidiano dei professionisti italiani – che Rai1 manda in onda ogni sera col titolo finto ingenuo de I Soliti Ignoti – va sempre peggio, non come trasmissione (la guardano in molti, e pure io) ma come monitoraggio, appunto. Ieri un timoniere, per farsi riconoscere, ha dovuto presentarsi con la divisa da timoniere. Nelle prossime puntate, probabilmente, il Papa sarà costretto a vestirsi di bianco e a indossare un cartello che specifichi: “Io sono il Papa”. Quanto alle vecchie glorie sportive, la situazione è diventata tragica a dir poco. Maurizio Damilano, commovente oro a Mosca nel 1980 (20km di marcia, più o meno quelli che io dovevo fare a Oxford per trovare un supermercato decente) non s’è presentato con la canottiera biancazzurra (e annesso scudettino tricolore) ed è stato scambiato per chissà che. Per ovviare alla situazione gli autori hanno concesso ai campioni di dire non solo il nome di battesimo ma anche il cognome; ciò nondimeno a Salvatore Sanzo (che si è presentato come Salvatore Sanzo, ma ha dimenticato di portarsi fioretto e casco) è stata diagnosticata un’esistenza da cameraman. Un terzo concorrente, invece, doveva identificare nientemeno che un oro olimpico nei 200 metri (e Frizzi ha specificato, sperando che risultasse utile: “duecento metri piani”). Gli è passato davanti un signore che ha detto di chiamarsi Livio ma il concorrente, invece di avere la reazione che qualsiasi persona normale avrebbe avuto in una circostanza del genere (ossia alzare le braccia al cielo, cadere in ginocchio, urlare in deliquio “Livio Berruti! Livio Berruti!” e baciare il suolo dove cammina), se l’è lasciato sfuggire e gli ha dato dell’agente assicurativo.

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Domani devo presentare il libro di Antonio Caprarica, il meraviglioso uomo dalle mille cravatte. Io ne possiedo quattro, di cui due uguali fra loro. Le indosserò tutte.

giovedì 16 agosto 2007

L'orologio fermo

La Polonia non esiste, è un'invenzione di Lafayette.
(Gustave Flaubert)

Ma si può? Uno a ferragosto non può trovare di meglio che uscire a fare quattro passi in un paese pressoché deserto e una delle poche persone che gli capita di incrociare per strada è tutta infervorata, perché sta dicendo al suo ospite: “Questa piazza è dedicata a Benedetto XIII, il Papa gravinese. Benedetto XIII era Papa ed era di qui, era di Gravina!”. Ora, a parte la ridondanza estrema della forma, ché bastava ripeterlo una volta senza alternare le perifrastiche, pure il contenuto lascia a desiderare: Benedetto XIII è morto nel 1730 ma da allora i gravinesi non trovano alcun merito più recente da ascrivere al proprio paese. Fosse stato il ferragosto del 1907, del 1807, del 1757, poniamo, il mio superfantabisnonno avrebbe sentito con ogni probabilità la medesima frase pronunziata dall’ipermegabisnonno del passante: “Benedetto XIII era Papa ed era di Gravina!”. Dopo di lui, la siccità.

Questa frase è stata significativamente scandita proprio di fianco alla Biblioteca Finya, all’ingresso della piazza principale di Gravina, sorprendentemente intitolata a papa Benedetto XIII (e che una sua statua bronzea custodisce, degna testimone di tanta nobiltà nonché della curiosa cognizione che della proporzione fra le varie parti del corpo umano doveva averne lo scultore, stante che un braccio proteso in benedizione è lungo quasi più del corpo, che tutto insieme non ammonta a quattro teste). Sotto la Biblioteca Finya c’è un ottimo ristorante dal quale avantieri sono andato a prendermi una pizza da asporto per meglio godermi il Trofeo Tim; di fronte al ristorante c’è una fontana storica, per dar maggior importanza alla quale il ristorante stesso si è dato nome “Alle Quattro Fontane”. Niente da eccepire, davvero: la pizza era succulenta, la birra era in omaggio, il padrone gentilissimo e la collocazione del locale è affascinante e strategica. Ma le altre tre fontane dove stavano?

Nell’attesa della pizza ho dato una lettura al pannello storico-artistico, accuratamente nascosto dalla portata degli eventuali turisti, che spiegava in Italiano e in Inglese cosa fosse questa Biblioteca Finya. Poiché io stesso, che non nascondo mai la mia ignoranza anzi la cavalco con barrente entusiasmo, non ne avevo la più pallida idea, sono andato a leggere di cosa si trattasse. Fossi ministro dell’istruzione, o provveditore, o preside, o professore di ruolo, o supplente, o bidello, renderei obbligatoria la lettura del pannello a tutti gli studenti di Gravina, tanto è sottilmente indicativo del genius loci. In pochi capoversi viene raccontata nel dettaglio la storia plurisecolare di quest’ammirevole istituzione, e poi si decantano gli undicimila volumi che essa conserva, fra i quali non pochi di notevole valore. Poi va a capo e conclude: “La Biblioteca Finya attualmente è chiusa”.

Lentamente s’è fatta strada in me, a furia di starci saltuariamente, l’idea che se Gravina vive è grazie soltanto alla fantasia dei suoi abitanti; e che cioè, se il tizio di ieri sera e tutti gli altri quarantacinquemila abitanti cessassero di far continuo riferimento al tempo andato, se si smettesse di gonfiare pateticamente i fatti e moltiplicare arditamente le fontane – pòf!, di punto in bianco Gravina non esisterebbe più.

Però, cazzo, abbiamo avuto Benedetto XIII! E mica chissà quando, solo poco più di due secoli e mezzo fa! Possiamo vantarcene a buon diritto, come faceva quell’innocente signore, passando di fianco alla Biblioteca Finya; non perché è chiusa, né perché custodisce probabilmente un tesoro (culturale, giù le manacce) ignoto, ma perché l’orologio della Biblioteca Finya, sul quale sono ritratti Vittorio Emanuele e Garibaldi, segna le tre meno cinque a qualsiasi ora del giorno. Fermo, immobile, ciò gli comporta il non trascurabile vantaggio di dar l’ora esatta ben due volte al dì: alle tre meno cinque di notte e alle tre meno cinque del pomeriggio. Non mi par poco; è come se i gravinesi tutti ripetessero senza sosta che papa Benedetto XIII era di Gravina, e che Gravina ha avuto un Papa, e che un Papa è stato gravinese – così che se putacaso un forestiero si trovasse a passare e ci chiedesse se ci capita di conoscere qualche paese dei dintorni che abbia dato i natali a un Papa, quanto meno avremmo la risposta pronta. Occhio a Spinazzola, però, che dista pochi chilometri e ha avuto Innocenzo XII; ma è morto nel 1700, è roba vecchia e non desta preoccupazione.

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Quando avevo otto anni mio padre mi rimproverò perché in un tema di quarta elementare avevo messo la virgola prima della congiunzione e, dicendo che si trattava di un errore. Con ogni probabilità mio padre se l’è scordato il giorno dopo, mentre io – che sin da allora miravo alla prosa d’arte – ne ho ricavato una specie di magone ventennale. Che sollievo oggi quando m’è capitato di leggere cosa scrive al riguardo Proust in À propos du style de Flaubert: “In Flaubert la congiunzione e non ha affatto la funzione assegnatale dalla grammatica. Segna una pausa in una misura ritmica e divide un quadro. Dovunque noi metteremmo una e, Flaubert invece la sopprime. Viceversa, là dove a nessuno verrebbe in mente di usarla, Flaubert la adopera. È come l’indicazione che sta per cominciare un’altra parte del quadro, che sta per riprendere l’onda rifluente. In breve, in Flaubert la congiunzione e comincia sempre una frase secondaria, e non conclude mai un’enumerazione.” Non solo mi dà ragione, ma pure con tanto di virgola prima della e finale! Per chi durante l’infanzia avesse subito le mie stesse sevizie psicogrammaticali, la citazione è tratta dal secondo volume dei Meridiani di Flaubert, tradotta da Giovanni Bugliolo, nota quattro pagina milleseicentonovanta. Evviva.

lunedì 13 agosto 2007

Dieci racconti fragili

(Gurrado per Ore Piccole)

Costano quindici centesimi l’uno, tanto per dire, i messaggini che di giorno in giorno inviate a signorine che non vi rispondono, o che se vi rispondono sarebbe meglio se non vi rispondessero, o che peggio ancora mandate alla signorina sbagliata, causando sconquassi che non si possono riparare nemmeno con centocinquanta euro (con quindicimila, forse sì). Costa altrettanto, quindici centesimi esatti esatti, ciascuno dei 10 Racconti per voi (così recita la copertina, arricchita da una terracotta di Marco Cornini) riuniti in occasione del ferragosto sull’ultimo numero de Il Domenicale da Davide Brullo e Beatrice Buscaroli.

In totale, dunque, un euro e cinquanta. Tutto questo diffondermi sul vile denaro perché mi sembra particolarmente rimarcabile (brutto e inutile francesismo, questo) che sia possibile acquistare tanta qualità in un sol colpo a poco prezzo; e quindi non parlo di soldi per fare l’ennesima figura da uomo gretto e reazionario, ma tutt’al più per evitarvi la fatica di spedire messaggini fatui a signorine inutili: sono umanitario, io. Il valore aggiunto del numero del Domenicale uscito sabato scorso è costituito, di là dai rintocchi di ammirazione che inevitabilmente causano i nomi dei dieci autori (ci sono Bowles, Döblin, Dossi, Faulkner, Quiroga, etc.), dall’evenienza che si tratti in ogni caso di testi difficilmente reperibili, circostanziati storicamente da un breve profilo dell’autore e iconograficamente da opere varie di artisti postmoderni.

Horacio Quiroga (1878-1937), ad esempio, è uno dei più editorialmente fortunati. Il suo “Mio figlio caccia nella giungla” è stato riproposto l’ultima volta dagli Editori Riuniti nell’antologia Anaconda; questa storia di un padre visionario e di un figlio troppo coraggioso fa venir voglia di andare a cercare altri racconti di quest’autore dalla prosa limpida e dall’aggettivazione scarna, ma il catalogo dei libri in commercio mi informa che l’ultima ristampa di Anaconda risale a dieci anni fa e che forse – forse – è meglio andare a cercarlo da qualche remainder. Insomma, la bancarella.

La sorte di Jean Richepin (1849-1926) è decisamente peggiore. Smodatamente elogiato dai suoi colleghi del tempo (Rimbaud, Verlaine…), venne al contempo oscurato dalla loro stella, quasi inevitabilmente. La breve biografia che accompagna “La tragicomica fine di Guignard” informa che Richepin fu scaricatore di porto e accademico di Francia; così come la distrazione di un incisore muta l’iscrizione sulla lapide di Guignard e di conseguenza il giudizio sulla sua intera vita, una progressiva dimenticanza postuma contrappesa il favore dei contemporanei con la completa sparizione di Richepin dagli orizzonti editoriali nostrani. L’ultima traduzione italiana delle Morti Bizzarre risale al 1989, sempre per gli Editori Riuniti, ed è beatamente fuori commercio.

Carlo Dossi (1849-1910), per fortuna, vive ancora degli studi filologici di Dante Isella e di qualche pagina sui manuali dei licei, benché inadeguata alla grandezza della sua prosa. Se la (bellissima) edizione Adelphi del volumetto Amori ha compiuto ormai trent’anni, il classico “Ho amato la regina di cuori” può tuttavia venire trovato nelle edizioni collettive del 1995 (ancora Adelphi) e del 2004 (Utet); per non parlare delle numerose altre opere che ancora si possono trovare correntemente sugli scaffali, nonostante gli ardimentosi tentativi di librai e bibliotecari per celarle allo sguardo dei clienti. Pur in tanta ridente fortuna editoriale, la paginetta del Domenicale dedicata al racconto di Dossi serve a non farlo rinchiudere nella soffitta dei fenomeni bizzarri ma a lasciarsi trascinare dalle sue sorprendenti immagini e dagli accenti scanditi (“E allora pigliài l’abitùdine di mèttermi…”), a innamorarsi con lui della donna di cuori e della Madonna e di un quadro negletto. Nonché a rendersi conto di quanto meglio scriverebbero i nuovi autori italiani, se prima lo leggessero.

Anche Paul Bowles (1910-1999), purtroppo, lo conoscono tutti. È l’autore del romanzo da cui Bernardo Bertolucci ha ricavato Il tè nel deserto, e fin troppo celebre sotto questo aspetto. Come capita non di rado agli autori diventati famosi per il cinema, la troppa gloria di una sola opera sommerge tutte le altre, così che – nel caso specifico – passi sotto silenzio una perla grezza come “La disfida dei quattro teologi”, disputa islamica fra un francescano, tre rabbini e forse il diavolo (anche se non si capisce bene da che parte stia). La raccolta che lo contiene, Punti nel tempo, è relativamente recente (Anabasi, 1994) ma è immancabilmente fuori commercio; se riuscite a dissotterrarla da qualche parte farete un doppio affare, anche perché il traduttore è un maestro: Massimo Bocchiola.

Al centro, sul paginone che dà lustro a qualsiasi rivista (pensate alle signorine immortali nel bel mezzo di Playboy) c’è non solo, languidamente sdraiata, una donna nuda (appunto) di terracotta, ma il racconto più lungo (e quindi più articolato, e impegnativo, e prestigioso) di tutta la raccolta: “Settembre arido” di William Faulkner (1897-1962). Su una trama magra – una zitella viene violentata; un nero viene incolpato; un barbiere tenta di difenderlo – la capacità affabulatoria di Faulkner ricama un ripido madrigale dal quale il lettore ricava, come da tutti i suoi scritti, la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di molto più grande del contenuto stesso del racconto, come se da quel minuscolo, e in fin dei conti insignificante, pertugio, Faulkner volesse mostragli un panorama onnicomprensivo dell’animo umano. Ma questo lo sa chiunque abbia letto una qualsiasi delle opere più diffuse di Faulkner: anche perché, se questo chiunque volesse cercare questo racconto nelle Otto storie della contea di Yoknapatawpha (Garzanti, 1993), dovrebbe affidarsi ancora una volta ai rigattieri. Oppure cercarlo nei Meridiani, sempre ammesso che lo trovi (il titolo Opere scelte non promette bene, sinceramente).

Per quel che riguarda Runoshue Akutagawa (1892-1927), invece, non c’è speranza alcuna. Rashomon e altri racconti, tradotto nel 1988 dalla Tea, è manco a dirlo fuori commercio; il catalogo inoltre informa che la smilza edizione dei Racconti fantastici (Marsilio, 1995) è – testualmente – di difficile reperibilità. Tradotto, significa che “Il rapporto di Rosai Ogata” scelto dal Domenicale per la sua antologia resterà (nelle mie letture e nelle vostre) molto verosimilmente senza compagnia; ed è un peccato, per la leggera e al contempo quasi corrucciata ironia con la quale rovescia le convinzioni d’Occidente, riducendo il Cristianesimo a eresia che va estirpata, e i miracoli a testimonianze diaboliche.

Alan Wolfe, Barry Wolfe, ovviamente il grande e candido Tom Wolfe, Michael M. Wolfe, Donald H. Wolfe… per avere notizia di Thomas (non Tom) Wolfe (1900-1938) sul catalogo dei libri in commercio bisogna risalire fino all’edizione 1997 (Fazi) di Storia di un romanzo. Poi Stephen L. Wolfe, John H. Wolfe, Gene Wolfe, Charles Wolfe… per avere notizia di Dalla morte al mattino (SE, 1988), la raccolta che comprende l’antologizzato “Impressioni sul circo, all’alba”, bisogna affidarsi presumibilmente a una seduta spiritica.

Così come pare sparito dalla circolazione Nicola Lisi, di cui vengono proposte tre storielle di monaci, tentazioni, meli indemoniati e farfalle provocanti; che (sonerà banale ma è così) come le ciliegie fanno venir voglia di leggerne ancora e ancora, rinchiudersi in cento altri conventi ed essere testimoni di altri mille combattimenti spiccioli fra l’ingenuo bene dei fraticelli e il male multiforme negli infiniti e microscopici sotterfugi del diavolo. Fra i quali sotterfugi si può annoverare, senz’ombra di dubbio, la disastrata bibliografia dei libri di Lisi in commercio: due titoli appena, uno del 1993 e uno del 2002, per i tipi di case editrici particolarmente diafane, così che i redattori del Domenicale hanno dovuto ripescarne i tre racconti dall’opera omnia edita da Vallecchi nel 1976. Fortuna che s’è tentato di fronteggiare con un saggio su Lisi che l’editrice San Paolo ha risuscitato nel 2004, ma si trova nella disgraziata e paradossale posizione di essere un invito alla lettura di un autore che non si può leggere; urge rimediare (eventualmente, ad esempio, rassegnandosi a pubblicare meno libri di Luciana Littizzetto, contro la quale non provo alcun astio ma che ora come ora ha in commercio sette titoli, un po’ troppi per non vederci l’orma dello zoccolo diabolico).

E poi ancora dicono che i cinesi stanno invadendo il mercato italiano. Lu Xun (1881-1936) sarà pure – spiega la nota biografica – il padre della letteratura cinese moderna ma i racconti che il Domenicale ha tratto da Erbe Selvatiche (Scheiwiller, 1994) sono spariti nel nulla. Niente altre metafore fulminee, dunque, niente più anime che vogliono divorziare dai corpi d’ordinanza, niente più fidanzate isteriche che mettono inspiegabilmente il muso al proprio amato dopo averne ricevuto in dono un candito appiccicoso, un gufo impagliato, un serpente velenoso e una confezione d’aspirine.

Ultimo arriva Alfred Döblin (1878-1957). Conclude l’antologia con lo struggente “La ballerina dal corpo di pezza”, cronaca solfeggiata di una malattia che è al contempo guerra continua con la fisicità stessa che ognuno di noi si porta appresso. Chiusura in grande stile, indubbiamente, come in grande stile è stata condotta tutta la raccolta; e poiché aveva ragione Quello, beati gli ultimi, ecco che Döblin può vantare un’edizione 2004 de L’assassinio di un ranuncolo e altri racconti: il merito è dell’editore Passigli, gli siano rese grazie.

Roba che non si trova facilmente, dunque; e se una fidanzata più capricciosa di quella di Lu Xun vi costringesse a mettere insieme tutto il florilegio di volumi che abbiamo citato, correreste il rischio di spendere assai in antiquariato, o più verosimilmente di tornare con le mani mezze vuote. Per questo vi conviene precipitarvi in edicola, evitando di lasciarvi prima travolgere da tutto il caravanserraglio di riti ferragostani: la coda in autostrada, la ginnastica sul bagnasciuga, il concorso di Miss Bikini e soprattutto la decina di messaggini che l’ozio fa partire verso le destinazioni più tragicamente indifferenti. Risparmiateli e accaparratevi una copia del Domenicale, prima che i dieci racconti tornino a essere una rarità: dal 24 agosto il numero che li riunisce non sarà più in edicola.

domenica 12 agosto 2007

Premio Valerio Gentile


Domenica prossima, 19 agosto, appuntamento alle 19,30 presso il ristorante "Il Fagiano" della Selva di Fasano (Br) per la cerimonia di premiazione della
Interverrà Antonio Caprarica,
direttore di Radio1 e dei Giornali Radio Rai.
Nel corso della serata verrà presentato
il romanzo vincitore del Premio:
Le Prostitute di Caravaggio di Andrea Nao (Schena editore).
Condurranno Antonio Gurrado (io)

venerdì 10 agosto 2007

Pagine

Dice che c’è chi ha il blocco dello scrittore. Vorrei averlo io: stamattina ho scritto sette pagine di narrativa, poi ho letto un centinaio di pagine dell’ultimo romanzo di Gaetano Cappelli, poi ho corretto un articolo accademico di una settantina di pagine e ora ecco la defatigante paginetta di blog con la quale vi onoro di quando in quando. Ma chi te lo fa fare?, direte voi (sentendovi ben poco onorati, mascalzoni); perché non fai qualcosa di più costruttivo che scrivere su un blog, ad esempio citofonare ai vicini di casa e indirizzar loro degli anonimi rutti quando rispondono?

Tanto più, dico io, che questa faccenda dei blog è diventata ammorbante, fondamentalmente per tre motivi. Il primo è che aprire un blog è talmente facile e immediato (ci sono riuscito perfino io) che finisce per aprirlo anche chi non ha nulla da dire. Il secondo è che, non sapendo cosa dire, si finisce per ripetere cose già dette (il più delle volte scrivendole tragicamente peggio dell’originale). Il terzo è che internet non esiste; siti e siti interi non hanno il peso specifico di una sola pagina stampata. Poi uno magari non considera questi tre ragionevolissimi motivi e finisce per aprire il proprio blogghe pneumatico, non solo, continua ad aggiornarlo anche quando non ha nulla da dire – e su questa bolla di nulla può capitare che galleggino i blogger un po’ più talentuosi, che si montano la testa e si candidano alla Presidenza del Consiglio. Uno scrittore non lo farebbe mai. Un giornalista, forse, nemmeno. Tranne Furio Colombo, ci mancherebbe.

Quindi, so benissimo che farei meglio a tacere, così almeno mi riposo. Se oggi scrivo, invece, è perché sono spinto dalla necessità di affrontare un tema di dirimente importanza per la Patria: I Soliti Ignoti.

No, sul serio: la graziosa trasmissione con Fabrizio Frizzi (infilata dopo il Tg1, così da spingere la prima serata verso la mezzanotte) non lo dice ma si propone, secondo me, di indagare sulla società civile e di presentare l’Italia allo specchio, contemplando un concorrente che magari fatica a riconoscere l’identità di un tizio che fa il suo stesso mestiere. O anche peggio: l’altra sera un boato aveva accolto il sembiante di Klaus Dibiasi, il quale presentandosi aveva scandito il proprio glorioso (e poco confondibile) nome; ma il concorrente aveva scartato recisamente l’ipotesi che Dibiasi avesse qualcosa a che fare coi tuffi o con le Olimpiadi, preferendo attribuirgli una gelateria, o un’edicola, o cose simili. Personalmente, dopo una figura del genere mi sarei suicidato sia se fossi stato il concorrente (per la vergogna) sia se fossi stato Dibiasi (per lo sconforto; in tal caso però avrei anche provveduto personalmente al suicidio del concorrente).

Insomma, più che I Soliti Ignoti: identità nascoste, la graziosa trasmissione con Fabrizio Frizzi doveva chiamarsi Crisi d’Identità, e avere come sottotitolo L’Italia che non si riconosce. Ma coi titoli, si sa, non sempre ci si azzecca (valga come esempio che Domenico Modugno intitolò Nel blu dipinto di blu la canzone che tutto il mondo avrebbe ribattezzato Volare), pertanto non faccio storie. Piuttosto mi sorprende che, forse per accondiscendere alla conclamata bonarietà di Frizzi, i mestieri da associare alle facce e ai nomi anonimi (povero Dibiasi) siano tutti caratterizzati positivamente. C’è il bravo cantante, l’ottimo grattacheccaro, il solerte custode del maniero e così via; il peggio che possa capitare è essere, che ne so, sorella di Pupo, anzi no, parrucchiere di Totti (li avete stentiti gli ululati coi quali il pubblico, riconosciutolo, ha accolto il coiffeur?). Sotto l’ottimistica egida di Frizzi viene presentata un’Italia in cui ogni misterioso personaggio fa bene il proprio dovere ed è felice di farlo: forse per questo i concorrenti non riescono a riconoscerli. Tanto più che, ironicamente, il tutto va in onda dopo il Tg1 dove, di disfunzione in disfunzione, fra le righe si fa il resoconto dell’esatto contrario.

Per l’auditel ho un interesse quasi inferiore a quello per internet (in generale, mi lasciano perplesso le parole che non terminano in vocale), quindi non so minimamente se gli ascolti de I Soliti Ignoti siano soddisfacenti o meno. In ogni modo, per rendere il gioco più interessante (e anche per facilitare i concorrenti, poveracci) propongo una variante: fare una, almeno una, puntata in cui di ogni personaggio misterioso venga presentato il peggior difetto, o se non altro qualcosa per cui ci si debba vergognare.

Vedremmo allora il concorrente portato a scegliere fra identità del genere: è figlia di un Vescovo; si fa chiamare Samantha; ha venduto esami di laurea; smarrisce bagagli altrui; spara ai canadair; non paga i dipendenti; fa la comunione senza confessarsi; la dà solo a chi la tratta male; risulta morto; plagia romanzi; vota per i Verdi; attacca ovunque gomme da masticare usate; tradisce sua moglie con l’amante di lei; ha rovinato Alitalia; non stira le camicie ma ci si siede sopra; legge Repubblica; ha la gonorrea; scrive; non tira lo sciacquone per principio; sogna un mondo migliore; è stato sottosegretario; etc.

Con un giochino del genere si potrebbe riempire un’intera prima serata, sottoponendo il concorrente non a dieci ma a cento identità nascoste. Secondo me le indovinerebbe tutte.

martedì 7 agosto 2007

Dove si utilizza una raccapricciante quantità di parentesi (alcune delle quali quadre)

Stamattina sono andato a Bari perché il mio sogno, nell’immediato, è di liberarmi dal debito di schiavitù contratto con la Feltrinelli (anzi, visto che a loro piacciono le maiuscole, con La Feltrinelli) sotto forma di carta per la fidelizzazione, che consente di ottenere un cospicuo sconto (trenta euri) previo accumulo di cento punti, ossia previa ben più cospicua spesa (trecento euri circa). Avendo deciso di liberarmi da questo cappio che mi costringe, ogni volta che mi serve un libro (càpita molto meno spesso di quanto crediate) a dover fingere di non vedere tutte le altre librerie nelle quali mi capita d’imbattermi in giro per l’Italia l’Europa e il Mondo (alcune delle quali invero adorabili e decisamente indegne della mia cecità indotta), dopo quindici giorni a Rimini (dove di Feltrinelli nemmeno l’ombra) (e, visto il caldo, niente ombra in assoluto) mi sono trovato costretto nella situazione di spendere il più possibile (complessivamente sessantanove euri, a conti fatti) per risparmiare il minimo indispensabile (i trenta euri di cui sopra) e finalmente volare libero verso librerie dove i libri siano meno spiegazzati o dove (ehm) la loro stessa disposizione non sembri frutto di una studiata ideologia perversa.


Così, benché viva a più di un’ora di macchina, ero davanti alla Feltrinelli di Via Melo già mezz’ora prima dell’apertura (sono mattiniero, io, mica come lorsignori) e appena sono iniziate le danze mi sono fiondato dentro come un falchetto, dritto su due libri di ampia divulgazione che mi servono per [omissis]. La commessa (sicuramente laureata in lettere, come tutti i commessi delLa Feltrinelli), deve avermi preso per un pericoloso maniaco che non dorme tranquillo se non acquista l’opera omnia divulgativa di [omissis]; dopo di che deve aver concluso che il caldo era invero eccessivo, nonostante l’aria condizionata, vedendo l’occhio iniettato di sangue col quale mi dirigevo verso la pila, molto più alta di me (sono 1,79; ma mia madre sostiene che mi decidessi a raddrizzare la spalla arriverei a 2,15 e potrei sputare noccioli di ciliegia in testa ai campioni dell’NBA) – dicevo, l’occhio iniettato di sangue col quale mi dirigevo verso la pila di romanzi di Khaled Hosseini. Khaled Hosseini! Non sapeva, la dottorcommessa, che pur di spendere soldi e liberarmi dal giogo feltrinellesco avevo deciso sull’unghia di mettermi a fare regali con generosità spropositata (due). Peggio ancora, coi tre libri (quello di Hosseini e quelli su [segreto di Stato]) sotto braccio (ma che dico sotto braccio: coi tre libri stretti al petto come fossero il mio cor, anzi, come fossero un pallone da rugby su un campo particolarmente malfrequentato) mi sono precipitato, anzi, mi sono abbattuto sul settore dei romanzi rosa. I romanzi rosa! Regalo per regalo, mi ero detto, tanto vale comprare roba che possa far piacere a chi riceve più che a chi lo fa; e quindi il quarto libro è stato Il Diavolo veste Prada, gesummaria.

Complessivamente, il conto ammontava a cinquantasei euri, che come voi mi insegnate (poiché ogni tre euri di spesa si ha diritto a un punto feltrinello) fanno niente di più niente di meno che diciotto punti, per conseguire i quali sarebbe bastata una ben più contenuta spesa da cinquantaquattro euri. Ma io non sono tipo da farmi fregare due euri da gente che potrebbe votare per Veltroni (ahò, so’ quattromila lire!): così che la commessa ormai terrorizzata mi ha visto tornare sui miei passi e, dalla cassa quasi raggiunta, rimettermi a rovistare fra gli scaffali alla ricerca di qualcosa egoisticamente piacevole (o almeno decente) da leggere per la mia privata e difficile soddisfazione. Risultato, la cassiera (severissima giudice dei miei acquisti) m’avrà preso per schizofrenico, poiché mi sono presentato bellamente con due libri di divulgazione, un immondo pappozzo islamico, un romanzo rosa glamour diventato famoso per colpa di un film e poi (tanto per gradire) Radical Chic di Tom Wolfe e poi ancora (cazzo!) Lunario dell’Orfano Sannita di Manganelli. Dopo di che ho scoperto che per arrivare a cento punti avrei dovuto spendere altri ventuno euri (ma non c’erano più libri accettabili).

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Già che sto vi annunzio che da lunedì 20 agosto riaprirà il blog degli Sleepers, impreziosito (spero) dalla mia compartecipazione. In maniera tale che mi aggiungo a fior di collaboratori del calibro di Gabriele Dadati, Gianluca Morozzi e Alcide Pierantozzi (oltre a tanti altri). Il blog, che ha come unico tema e calamita il sonno nelle sue infinite forme (e, a giudicare da mio padre, probabilmente anche nei suoi infiniti rumori), è stato ideato da Ilaria L. Silvuni (che il correttore automatico di Microsoft Word insiste nel voler ribattezzare Silvani, come la sessuosa signorina di Fantozzi) e Misia Donati (che non ho il piacere di conoscere di persona e che pertanto ho scoperto trattarsi di un maschietto solo quando ho capito che tutte le desinenze in –o degli aggettivi che gli si riferivano non erano dei pervicaci errori di battitura). Poiché siamo gente importante, oggi Ilaria e Misia sono stati intervistati dal sito web libero.it, producendo un interessante colloquio (impreziosito da una foto della medesima Silvuni) che potete leggere cliccando qua sopra (tanta querula dovizia di particolari tecnici è sempre dovuta al fatto che di solito mi legge soltanto mia madre, che è un’internauta neofita). In conclusione, ci tengo a specificare che lo scopo del blog degli Sleepers (altresì autodefiniti Tribù dei Narcolettici) non è quello di far addormentare il lettore.

lunedì 6 agosto 2007

L'autorevole parere del vicino d'ombrellone

“Pronto, Snupi? Dove stai?” “Sono tornata a casa mia, e tu dove stai?” “Io sono a Rimini.” Seguono risate. “No, veramente. Sono a Rimini.” Seguono risate.

Se non che ero veramente a Rimini, ad abbronzarmi e a fare bagni dopo non so più quanti anni e con il menù dell’albergo quale unica lettura impegnativa; senza computer, col telefonino usato poco e niente, quotidiani gettati pressoché intonsi e soprattutto con la vivace compagnia di mio padre e mia madre, che si distinguono l’uno dall’altra in questa maniera: lei sta zitta perché fa le parole incrociate, lui sta zitto perché fa il sudoku. Fortuna che c’era il vicino d’ombrellone, i cui monologhi durante la spalmatura della crema solare sono stati il mio unico contatto col mondo. Mi ha raccontato le cose nuove.

Ad esempio, a lui il ciclismo piace ma non lo segue perché sono tutti drogati. Quel Vinokourov, ad esempio, che ogni anno gliene va storta una e riconquista immancabilmente l’amore del pubblico trionfando moralmente dove non può vincere tecnicamente. O Rasmussen, ad esempio, che esile come un giunco si era guadagnato tutta la mia ammirazione cavalcando montagne enormi nei giorni immediatamente precedenti la mia partenza. Be’, dico io dal mio cantone d’ignoranza, com’è andata a finire? Vinokourov è riuscito nell’impresa di rimontare sei minuti buoni di ritardo per cadute più reiterate che in una Via Crucis? Ma impietoso il vicino d’ombrellone mi spiega che è stato squalificato perché si era iniettato il sangue di un passante. Ha quindi vinto Rasmussen?, indago. Macché, Rasmussen è stato licenziato dalla sua squadra perché non erano riusciti a trovarlo positivo a un antidoping. A me sembra che questo vicino d’ombrellone si inventi un po’ troppe cose, ma per mera cortesia gli chiedo chi è che l’ha vinto alla fine questo Tour, mica Cadel Evans che è australiano e quindi invece di andare in bici farebbe meglio a zompettare? Mi risponde che ha vinto Contador. Chi? Contador, dice, è il pupillo di Lance Armstrong. Ha ventiquattro anni e non ha avuto un cedimento per tutte le tre settimane. Il suo nome compare nel celebre dossier Puerto, la lista dei cattivi che ha rovinato la carriera a Basso e Ullrich tanto per dirne due, ma ciò è evidentemente stato ritenuto frutto di un’omonimia. Per lui ha garantito la riconosciuta onestà di Armstrong, uno che ha dominato sette Tour di fila vincendoli con un quarto d’ora di vantaggio, senza fare mai uno starnuto ed evitando di partecipare ad altre corse (tipo il Giro d’Italia, mi dice il vicino, non so se ne hai mai sentito parlare) in cui sarebbe stato sottoposto a ben altri controlli antidoping. Che fa, signor vicino, sta forse insinuando che il gigante buono del Tour, il vincitore della morte, l’innocente adamantino che regola una banda di centottanta delinquenti, fosse in realtà dopato fino allo sfintere? Mi sembra che questo vicino abbia dei pareri un po’ troppo audaci. Cambiamo argomento, va’.

Per fortuna che c’è la politica, si consola il vicino. Lì non ci sono rischi: i deputati dell’UDC per hanno fatto il test polmonare per dimostrare che non si drogavano da tre giorni; quelli di AN hanno fatto quello tricologico per dimostrare che non si drogavano da sei mesi. Io non colgo il nesso: non mi risulta che gli onorevoli vadano in bicicletta, quindi non vedo il punto dell’antidoping. Ahò, azzarda il vicino, l’antidoping andrebbe fatto a quelli che hanno votato per Prodi, eh! Non mi sento di dargli torto, quindi annuisco silenziosamente. Al che lui si arrampica su specchi sdrucciolevolissimi, anzi, si inabissa in fondali limacciosi (neanche tanto metaforicamente, vista l’acqua di Rimini) per spiegarmi che lui di politica non capisce tanto, anzi, che più se ne tiene lontano meglio si sente, comunque, lui sta dalla parte di Berlusconi, ci mancherebbe, però l’anno scorso aveva votato per Prodi, ma era stato un momento di debolezza, mi spiega, causato dalla congiuntura, azzarda, causato dall’euro, tanto per dire.

Nel momento in cui mi aspetto sonnecchiante la tirata sull’euro che come potere d’acquisto vale mille lire (così che quest’estate per comprarmi una crêpe devo pagare una cifra che, in lire, sarebbe stata sufficiente a comprarmi la cameriera), a sorpresa il vicino se n’esce con una notizia-bomba: ma lo sai che un deputato dell’UDC è stato beccato con la cocaina? Al controllo antidoping generalizzato?, chiedo. Macché, il giorno prima! Io non mi addentro in questioni di cronaca spiccia e scandaletti, quindi non ricordo se è stato trovato con una pista di coca e due puttane o con due piste di coca e una puttana e se una puttana s’è sentita male dopo aver sniffato la coca, o dopo aver visto il deputato nudo, o se la coca è andata a male perché le puttane l’hanno fatto aspettare, etcetera etcetera etcetera… Fatto sta che il vicino si infervora, va in tilt, squaderna infinite versioni del medesimo fatto, mi mostra la foto del deputato (quando avrei preferito vedere la foto della puttana, almeno), dà ragione a Diliberto che dice che è uno schifo che chi va a puttane si erga a difensore della famiglia, dà ragione a Cesa che lamenta la solitudine dei parlamentari lontani dalla famiglia, dà ragione al deputato stesso che sosteneva di non sapere che la puttana fosse una puttana, dà ragione perfino a me prima ancora che io possa (o voglia) rispondere qualcosa e poi conclude a bassa voce, facendomi segno di avvicinarmi: “Sai qual è il problema? È che mo se vedi una donna non riesci più a capire se è una puttana o no, e qualsiasi cosa credi che sia c’è pericolo che la offendi.” Sua moglie va a fare il bagno.

Lui, di sicuro, voterà per il Partito Democratico. Gli piace Veltroni, ha questo non so che, ha steso un programma che rivolterà l’Italia come un calzino. Vuoi sentirlo?, mi fa. Sentiamolo, gli faccio. Innanzitutto Veltroni vuole ridurre il numero dei parlamentari. Reagisco che l’aveva già deciso la riforma costituzionale di Berlusconi, che non è passata perché il partito di Veltroni ha fatto votare contro al referendum confermativo. Veltroni vuole porre fine al bicameralismo perfetto, fa lui. Pure Berlusconi voleva, faccio io. Eh, ma mica solo quello: Veltroni vuole fare un sacco di cose, che il vicino mi snocciola con cupidigia: tutte già tentate da Berlusconi, tutte già cassate dal partito di Veltroni non più tardi di un anno fa, mentre l’Italia vinceva con l’Australia ai Mondiali. Però una cosa veramente nuova c’è: Veltroni vuol estendere il diritto di voto ai sedicenni. Sempre meglio che tirare sassi dal cavalcavia, commenta il vicino.

Per far esercizio, questi pischelli li si potrebbe far votare alle primarie del Partito Democratico. Ne convengo: meglio iniziare dalle cose facili, e cosa c’è di più facile di un’elezione con un solo candidato? Macché candidato unico, protesta il vicino, non so nulla di tutto il macello che è successo? No, che è successo? Di tutto: insieme a Veltroni, anzi, contro Veltroni s’è candidata la Bindi, dicendo che è ora che un grande partito sia guidato da una donna, anche se non si capisce cosa c’entri lei. Poi s’è candidato Enrico Letta mettendo un video su YouTube, perché è noto che su internet la gente passa il tempo a cercare quarantenni calvi in camicia, e non già fichette desnude. Poi si sono candidati anche, se il vicino ricorda bene, Pannella, Di Pietro, Mario Adinolfi (ma chi cazz’è?), Furio Colombo, due coccodrilli e un orangutango. E Prodi? No, Prodi ha altro a cui pensare: è andato in vacanza a leggere Harry Potter. E sai perché?, mi chiede. No, non so perché. Perché tutti dicevano che alla fine Harry Potter moriva, invece a sorpresa finisce che si sposa e scopa come un riccio. Così Prodi, tutti dicono che sta per cadere, ma alla fine ci fotterà tutti quanti.

Che vicino volgare e qualunquista che m’è capitato! Meno male che il calcio mette tutti d’accordo, tranne gli interisti. Lei sarà mica interista?, indago di soppiatto. Il vicino risponde cantandomi strofe di Grazie Roma ignote forse allo stesso Venditti. Dopo di che mi legge il calendario del campionato e io mi addormento all’undicesima giornata, su Livorno-Udinese; poi mi risveglio ai suoi scossoni mentre urla scandalizzato che è uno schifo, che è una truffa, che il cittadino deve far sentire la propria voce, anzi, che bisogna fare la rivoluzione! Non voglio far vedere che ero distratto pertanto coi piedi di piombo cerco di capire se si riferisca al caro-benzina. O forse alle coop rosse. O forse a Don Gelmini. O forse ai bagagli persi negli aeroporti (comunicazione di servizio: la Zia, che non è una mia parente ma un’amica un po’ più grande di me, è andata in Spagna e le hanno perso tutto, mi ha scritto che non ha nemmeno le mutande. Ritrovategliele, per carità. Altrimenti sarò costretto ad andare in Spagna per cogliere l’attimo). Insomma, a che si riferiva? Guarda, guarda, mi fa il vicino col sangue agli occhi: la Roma gioca contro tutte le squadre più forti fra la terza e la decima giornata! Manco una neopromossa! Manco una neopromossa! Lo vedo allontanarsi all’orizzonte, mentre straccia il Corriere dello Sport disperdendolo fra le alghe sul bagnasciuga, e penso che se continuano a fare così ogni volta non rivinceranno mai lo scudetto, per il quale sono necessarie tre cose: calma, sangue freddo e Guido Rossi.

Poi il vicino d’ombrellone ha finito le vacanze, e al suo posto è arrivata una famiglia che sembrava scappata da un romanzo di Jane Austen: una madre con quattro figlie. Al che mio padre pretendeva che le corteggiassi tutte e ne sposassi almeno un paio, ma io ho mantenuto un contegnoso silenzio rimpiangendo che la signora non avesse privilegiato la qualità rispetto alla quantità, e che non avesse fatto una sola figlia bona invece di quattro così così.

“Pronto, Marvi? Sai che il mio vicino d’ombrellone aveva una figlia stupenda, che si è subito innamorata di me?” “Non saprei darle torto.” “Solo che ha tre anni e mezzo quindi per sposarla devo aspettare come minimo il 2022.”

sabato 4 agosto 2007

La Bibbia nel cassetto

(Gurrado per Books Brothers)

Nell’ultimo pomeriggio che ho trascorso a Modena, mi è capitato di trovare nel cassetto di un mercatino di libri usati una copia del Vangelo: comunissima edizione delle Paoline, col sole che sorge (o tramonta?) in copertina, di quelle che chiunque ha ricevuto per la prima comunione. Un rapido sondaggio fra chi mi accompagnava ha rivelato che tutti possedevano ancora, da qualche parte che non ricordavano, una copia della stessa edizione, o eventualmente della versione con la copertina monocolore azzurra. Sono sicuro che a ben cercare anche chi mi legge ora ne possiede una copia, acquistata o ricevuta in regalo e mai data via indipendentemente dall’indirizzo più o meno bislacco che si decide di dare alla propria fede. Perché disfarsi a metà prezzo una cosa che all’epoca sarà costato sì e no cinquecento lire? A maggior ragione, perché tentare di rivendere un libro che a occhio e croce chiunque possiede, e che quindi nessuno comprerà? Ne ho dedotto che la copia in questione del Vangelo resterà sepolta nel cassetto del mercatino, a Modena, fino alla fine dei tempi, o più verosimilmente fino alla più completa scristianizzazione dell’Italia, alla quale manca sempre meno tempo di quanto sospettiamo.

Andato via da Modena, e pensando ancora a questo Vangelo abbandonato, ho letto Apocalissi: ventidue modi di leggere i libri della Bibbia, volume appena edito da ISBN e che contiene scritti di, appunto, ventidue personalità di diversi campi della cultura postmoderna. Si tratta della riproposizione (non della traduzione: a quel che ho visto, mancano alcuni pezzi e altri ne sono stati aggiunti) di Revelations: personal responses to the books of the Bible, che fu pubblicato da Canongate nel 2005 e che a sua volta raccoglie le caleidoscopiche introduzioni ai vari libri della Bibbia, ragion per cui gli autori afferiscono in gran parte al mondo anglosassone.

La struttura del volume (mi riferisco all’edizione ISBN, quindi alla versione italiana) è stimolante: partendo dalla Genesi e arrivando all’Apocalisse, ogni autore ha a disposizione dalle cinque alle dieci pagine per commentare il libro della Bibbia che più l’ha colpito per una ragione o per l’altra; e qui possiamo sbizzarrirci analizzando le scelte editoriali. Con tre brani ciascuno, i libri di maggior successo sono il Vangelo secondo Matteo (commentato da Francesco Goldman, A.N. Wilson e Pier Paolo Pasolini) e il libro di Giobbe (commentato da Charles Frazier, Benjamin Prado e Mordecai Richler). Potrebbe sembrare un accostamento sorprendente, ma una riflessione più accurata potrebbe suggerire che, nell’Antico Testamento, Giobbe è il momento in cui viene posto con maggiore durezza il problema del male, presentando un Dio incomprensibile che quasi se ne compiace per assecondare un Satana da operetta mentre, all’inizio del Nuovo Testamento, il Vangelo di Matteo capovolge la questione, presentando un Dio infinitamente misericordioso che per liberare gli uomini dal male sacrifica ad esso il suo Figlio fatto uomo. Il tema del male, che tanta parte ha avuto nella letteratura universale, non poteva che essere il più vivido in un testo che sottopone la Bibbia alla lettura di scrittori di professione.

Apocalissi infatti si muove sul sottile crinale del commentario, senza cadere né dal versante dell’esegesi né da quello della letteratura. La notevole disparità fra le personalità coinvolte e l’assoluta libertà lasciata a ciascuna sia nella scelta del tema da trattare sia nella maniera in cui trattarlo consente al libro di vivere su una piacevole alternanza di toni e di stili, che è tuttavia anche alternanza di risultati. Per dire, se Thor Heyredahl spiega la Genesi con la stessa dovizia di particolari dovuta al casuale incontro con un venusiano, David Grossman butta l’Esodo in politica (politica plurisecolare, sia chiaro, non la politichetta dei nostri orti contemporanei); se Meir Shalev spiega perché dei grandi re d’Israele il più amato è David, che capita essere il più delinquente, Bono degli U2 si distingue per commentare i Salmi nella stessa maniera in cui io canto le sue canzoni sotto la doccia; se Ray Loriga chiosa il Vangelo secondo Luca con una delle migliori definizioni mai date del Cristianesimo (“Ci sono giochi più facili, ma non ci sono premi migliori”, p.184, vedere per credere), il Dalai Lama impiega tre pagine a dimostrare come San Giacomo, pur senza saperlo, fosse buddista. Non per niente il titolo del volume è declinato al plurale.

Però questa disparità, che può far arrabbiare in certi passi il credente e in certi altri il rinnegato, trova la propria giustificazione nell’essere, Apocalissi, un libro di letteratura. Non solo perché gli interventi di Nick Cave (Marco), Darcey Steinke (Corinzi), Will Self (Apocalisse) e altri sono altrettanti veri e propri racconti; ma anche estremamente istruttivi dei processi intrinseci alla produzione e all’interpretazione letteraria, benché non strettamente narrativi in sé, sono la lettura fra le righe del Cantico dei Cantici di A.S. Byatt e l’epistolario di Pasolini riguardo al making of il Vangelo secondo Matteo. Con la lente della letteratura, dunque, Apocalissi universalizza la Bibbia, per così dire la spreme e presenta quello che questo sacro libro enorme (e sovente stampato troppo in piccolo) ha ancora da dire agli uomini di ogni latitudine, di ogni tempo e di ogni convinzione.

Certo, si tratta di un punto di vista parziale. Parte degli autori parla come se Dio non ci fosse, o come se ci fosse ma bisognerebbe disinventarlo. Ulteriore parzialità è data dalle assenze: su 73 libri che costituiscono la Bibbia, Apocalissi ne cita solo 16, equamente divisi fra Antico e Nuovo Testamento (il rapporto originario è di 46 a 27); restano fuori, tanto per dire, i Giudici, il Quoelet, tutti i profeti in massa (tutti!) e gli Atti degli Apostoli. Inoltre, l’originaria pubblicazione anglofona ha fatto sì che venissero privilegiati testi (come i Proverbi o le lettere di San Paolo) a cui i protestanti sono molto più affezionati di quanto lo si sia in Italia fra i cattolici, quantunque zoppicanti.

La ragione per cui questo ardimentoso tentativo (far commentare la Bibbia a scrittori che non sono esegeti di professione) viene dal mare e non è sorto spontaneamente a casa nostra risiede, secondo me, proprio nel protestantesimo. La principale innovazione apportata da Lutero, cinque secoli fa, consisteva nel consentire a chiunque la lettura privata del testo sacro; per questo motivo provvide personalmente alla traduzione in tedesco. I cattolici, al contrario, preferiscono l’interpretazione tradizionale alla meditazione personale (in soldoni, i protestanti credono alla Bibbia, i cattolici credono alla Chiesa); se non che questa fiducia nell’autorità stabilita s’è trasformata sovente in pigrizia, così che la copia della Bibbia che non manca in (spero) ogni casa d’Italia funge per lo più da decorazione in salotto, se in edizione lussuosa, o è stata dimenticata in scaffali nascosti, se in edizione economica. Il caso estremo è quello di cui parlavo all’inizio: il Vangelo venduto a un rigattiere di Modena e lanciato a sorpresa nel mercato dell’usato sicuro. Caso curioso, poi, da questa pigrizia è nata una buona fetta di anticattolicesimo patrio, che si basa sull’istintivo rigetto della lettura dei fondamentali e dunque, in senso lato, sull’ignoranza. Chiunque voglia contestarmi, è pregato innanzitutto di riassumermi la terza lettera di San Giovanni, e poi ne riparliamo.

I protestanti invece, anche nel caso in cui rigettino del tutto la fede in cui sono cresciuti conservano all’interno della propria anima un cassetto nel quale ripongono la Bibbia, letta ad alta voce o meditata o raccontata migliaia di volte, fino a costituire un inconscio letterario che riemerge ora più ora meno ogni volta che prendono la penna in mano; fino, mi auguro per loro, a costituire l’inevitabile punto di ritorno dopo un allontanamento più o meno lungo. A differenza dei cattolici e delle persone che mi accompagnavano a Modena, anche quando non usano la Bibbia i protestanti si ricordano dove l’hanno messa: per questo la Bibbia parla a ognuno di loro, e ognuno di loro può parlare della Bibbia. Non a caso dei nostri nella raccolta c’è solo Pasolini, il più luterano degli italiani. Il grande merito di Apocalissi e di tutta l’operazione è di rivalutare il commentario, la forma parallela di lettura e scrittura sulla quale si è fondata nei secoli la nostra civiltà, in cima alla quale sediamo indegnamente; e, più in generale, quello di aver ribadito che la Bibbia è un libro (anzi tanti libri) e che i libri vanno letti, prima di parlarne. Se fra qualche tempo ISBN potrà pubblicare una nuova edizione dell’antologia firmata soltanto da autori italiani, il tentativo sarà riuscito; altrimenti, tutti all’inferno.