giovedì 16 agosto 2007

L'orologio fermo

La Polonia non esiste, è un'invenzione di Lafayette.
(Gustave Flaubert)

Ma si può? Uno a ferragosto non può trovare di meglio che uscire a fare quattro passi in un paese pressoché deserto e una delle poche persone che gli capita di incrociare per strada è tutta infervorata, perché sta dicendo al suo ospite: “Questa piazza è dedicata a Benedetto XIII, il Papa gravinese. Benedetto XIII era Papa ed era di qui, era di Gravina!”. Ora, a parte la ridondanza estrema della forma, ché bastava ripeterlo una volta senza alternare le perifrastiche, pure il contenuto lascia a desiderare: Benedetto XIII è morto nel 1730 ma da allora i gravinesi non trovano alcun merito più recente da ascrivere al proprio paese. Fosse stato il ferragosto del 1907, del 1807, del 1757, poniamo, il mio superfantabisnonno avrebbe sentito con ogni probabilità la medesima frase pronunziata dall’ipermegabisnonno del passante: “Benedetto XIII era Papa ed era di Gravina!”. Dopo di lui, la siccità.

Questa frase è stata significativamente scandita proprio di fianco alla Biblioteca Finya, all’ingresso della piazza principale di Gravina, sorprendentemente intitolata a papa Benedetto XIII (e che una sua statua bronzea custodisce, degna testimone di tanta nobiltà nonché della curiosa cognizione che della proporzione fra le varie parti del corpo umano doveva averne lo scultore, stante che un braccio proteso in benedizione è lungo quasi più del corpo, che tutto insieme non ammonta a quattro teste). Sotto la Biblioteca Finya c’è un ottimo ristorante dal quale avantieri sono andato a prendermi una pizza da asporto per meglio godermi il Trofeo Tim; di fronte al ristorante c’è una fontana storica, per dar maggior importanza alla quale il ristorante stesso si è dato nome “Alle Quattro Fontane”. Niente da eccepire, davvero: la pizza era succulenta, la birra era in omaggio, il padrone gentilissimo e la collocazione del locale è affascinante e strategica. Ma le altre tre fontane dove stavano?

Nell’attesa della pizza ho dato una lettura al pannello storico-artistico, accuratamente nascosto dalla portata degli eventuali turisti, che spiegava in Italiano e in Inglese cosa fosse questa Biblioteca Finya. Poiché io stesso, che non nascondo mai la mia ignoranza anzi la cavalco con barrente entusiasmo, non ne avevo la più pallida idea, sono andato a leggere di cosa si trattasse. Fossi ministro dell’istruzione, o provveditore, o preside, o professore di ruolo, o supplente, o bidello, renderei obbligatoria la lettura del pannello a tutti gli studenti di Gravina, tanto è sottilmente indicativo del genius loci. In pochi capoversi viene raccontata nel dettaglio la storia plurisecolare di quest’ammirevole istituzione, e poi si decantano gli undicimila volumi che essa conserva, fra i quali non pochi di notevole valore. Poi va a capo e conclude: “La Biblioteca Finya attualmente è chiusa”.

Lentamente s’è fatta strada in me, a furia di starci saltuariamente, l’idea che se Gravina vive è grazie soltanto alla fantasia dei suoi abitanti; e che cioè, se il tizio di ieri sera e tutti gli altri quarantacinquemila abitanti cessassero di far continuo riferimento al tempo andato, se si smettesse di gonfiare pateticamente i fatti e moltiplicare arditamente le fontane – pòf!, di punto in bianco Gravina non esisterebbe più.

Però, cazzo, abbiamo avuto Benedetto XIII! E mica chissà quando, solo poco più di due secoli e mezzo fa! Possiamo vantarcene a buon diritto, come faceva quell’innocente signore, passando di fianco alla Biblioteca Finya; non perché è chiusa, né perché custodisce probabilmente un tesoro (culturale, giù le manacce) ignoto, ma perché l’orologio della Biblioteca Finya, sul quale sono ritratti Vittorio Emanuele e Garibaldi, segna le tre meno cinque a qualsiasi ora del giorno. Fermo, immobile, ciò gli comporta il non trascurabile vantaggio di dar l’ora esatta ben due volte al dì: alle tre meno cinque di notte e alle tre meno cinque del pomeriggio. Non mi par poco; è come se i gravinesi tutti ripetessero senza sosta che papa Benedetto XIII era di Gravina, e che Gravina ha avuto un Papa, e che un Papa è stato gravinese – così che se putacaso un forestiero si trovasse a passare e ci chiedesse se ci capita di conoscere qualche paese dei dintorni che abbia dato i natali a un Papa, quanto meno avremmo la risposta pronta. Occhio a Spinazzola, però, che dista pochi chilometri e ha avuto Innocenzo XII; ma è morto nel 1700, è roba vecchia e non desta preoccupazione.

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Quando avevo otto anni mio padre mi rimproverò perché in un tema di quarta elementare avevo messo la virgola prima della congiunzione e, dicendo che si trattava di un errore. Con ogni probabilità mio padre se l’è scordato il giorno dopo, mentre io – che sin da allora miravo alla prosa d’arte – ne ho ricavato una specie di magone ventennale. Che sollievo oggi quando m’è capitato di leggere cosa scrive al riguardo Proust in À propos du style de Flaubert: “In Flaubert la congiunzione e non ha affatto la funzione assegnatale dalla grammatica. Segna una pausa in una misura ritmica e divide un quadro. Dovunque noi metteremmo una e, Flaubert invece la sopprime. Viceversa, là dove a nessuno verrebbe in mente di usarla, Flaubert la adopera. È come l’indicazione che sta per cominciare un’altra parte del quadro, che sta per riprendere l’onda rifluente. In breve, in Flaubert la congiunzione e comincia sempre una frase secondaria, e non conclude mai un’enumerazione.” Non solo mi dà ragione, ma pure con tanto di virgola prima della e finale! Per chi durante l’infanzia avesse subito le mie stesse sevizie psicogrammaticali, la citazione è tratta dal secondo volume dei Meridiani di Flaubert, tradotta da Giovanni Bugliolo, nota quattro pagina milleseicentonovanta. Evviva.

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