sabato 29 settembre 2007

Il barocco necessario

Ormai si pubblicano libri talmente brutti che ci sarebbe da mettersi a recensire i quotidiani, non fosse che anche i giornali ormai sono talmente brutti che ci sarebbe da rimettersi a recensire i libri. Per dire, avete visto la nuova Repubblica (the new Republic)? Basta essere stati cinque minuti in Inghilterra per accorgersi che lo schema del giornale d’approfondimento dentro il giornale di notizie è miseramente scopiazzato dalla stampa inglese; se invece si è rimasti in Inghilterra addirittura per un quarto d’ora si realizza senza fatica che il nome dell’inserto e la fascia sopra il titolo con il sommario dei contenuti sono presi pari pari dal Guardian, con la sola differenza che quello del Guardian si chiama G2, e quello di Repubblica si chiama R2. Il lancio pubblicitario di questa nuova Repubblica raddoppiata non ha purtroppo tenuto presente l’unico slogan ragionevole: Le disgrazie non vengono mai sole.

Il giornale più bello d’Italia è Il Foglio (segue a debita distanza il Guerin Sportivo, poi l’abisso vacuo). Se stamattina, invece di perdere tempo su internet, vi faceste una doccia e scendeste a comprarlo, notereste alcune cose assolutamente notevoli. Innanzitutto, in prima pagina, Andrea Marcenaro che risponde alle lunghe inchieste del Corriere sulla casta con un breve corsivo sulla prostituta. Poi Lanfranco Pace che difende il diritto di Sarkozy a ricevere millons de besitos per iscritto o dal vivo che sia. Una conferma che Il Foglio è l’unico quotidiano dadaista d’Italia arriva dall’articolo di Maurizio Crippa su Teo Teocoli, intitolato “Affanculo il palinsesto” (questo fa il paio con il “pompino risorgimentale” narrato qualche giorno fa da Mariarosa Mancuso recensendo il nuovo romanzo di Antonio Scurati). Poi tre pagine intere dedicate al nuovo libro del teologo eterodosso Vito Mancuso, lunghissima perifrasi per incastonare un breve sarcasmo su Cielle (sesta riga della seconda colonna di pagina VII); d’altra parte il fatto stesso che questo suo nuovo libro sia stato prefato dal cardinal Martini è piuttosto indicativo di quanto valga la pena leggerlo.

Particolarmente apprezzabile è la preghiera di Camillo Langone in seconda pagina: perché mi risparmia la lettura dell’ultimo romanzo di Edoardo Nesi (la vita è breve e bisogna ottimizzarla) trascrivendo la protesta che la protagonista rivolge al Papa dandogli del tu e del cazzone per invitarlo a vendere l’infinita ricchezza di palazzi e d’opere d’arte accumulata nei secoli dalla Chiesa e a darne il ricavato ai poveri. In risposta alla portavoce di Nesi, la necessità del Barocco viene perfettamente e sinteticamente spiegata da Langone e quindi scendete a comprare Il Foglio, quotidiano barocco, se non l’avete ancora fatto. Di mio aggiungo questo raccontino sul sacro spreco (Giovanni 12, 1-8): Gesù si trovava in Betania quando Maria sorella di Lazzaro gli rovesciò una libbra di olio profumato di nardo, assai prezioso, sui piedi e glieli asciugò coi capelli. Uno degli apostoli di Gesù allora protestò con parole ragionevolissime che Edoardo Nesi non avrebbe saputo esprimere meglio: “Perché quest’olio profumato non è stato venduto a trecento denari per poi darli ai poveri?”. L’apostolo era Giuda.

venerdì 28 settembre 2007

Lo scozzese giapponese: intervista ad Alan Spence

(Gurrado per Stilos: il quindicinale dei libri, anno IX n.18)

Il quinto romanzo dello scrittore e poeta scozzese Alan Spence, Terra Pura, è il primo a essere tradotto in Italia. Non sorprende, poiché si può facilmente rinvenire un afflato universale nella storia transoceanica di Thomas Blake Glover, giovane dipendente di una ditta di esportazioni, che nel 1859 si vede trasferito da Aberdeen a Nagasaki. Dalla storia (vera, sia detto incidentalmente) di Glover, Spence ricava un lungo romanzo che ha tre chiavi di lettura.

La prima è storica. A metà del XIX secolo il Giappone era letteralmente un altro mondo rispetto all’Europa e in particolare rispetto al piccolo sistema chiuso di Aberdeen, al quale l’autore fa significativamente riferimento come “il mondo conosciuto”. Il Giappone, per contrasto, assume la valenza di un territorio da esplorare e dalle potenzialità ipoteticamente infinite: in questa miniera di affari (alcuni loschi) e di politica Thomas Glover saprà infilarsi arditamente e ne riceverà gloria, fama, denaro, così da diventare nel giro di una decina d’anni uno degli uomini più potenti dell’intero Giappone – niente male per uno Scozzese.

Va rimarcato come lo sfondo storico del romanzo di Spence presenti implicitamente il Giappone come terreno aperto tout court. L’avventura giapponese di Glover inizia infatti solo cinque anni dopo la riapertura dei porti a seguito dell’isolamento commerciale decretato più di due secoli prima, nel 1639. Nel corso di questi duecentoquindici anni di chiusura il Giappone – per così dire – si cristallizza, diventa una realtà a sé stante del tutto aliena al progredire del resto del mondo. Questa distanza culturale viene percepita appieno già dai familiari di Glover, ad Aberdeen, e si riverbera nei loro timori che il giovane, una volta sbarcato a Nagasaki, finisca con la testa mozzata per via delle leggi complesse e incomprensibili alla sensibilità occidentale che regolano i rapporti fra il mikado (l’imperatore, che aveva per lo più compiti cerimoniali), lo shogun (il detentore del potere esecutivo e giudiziario) e i semplici sudditi, per non parlare dei nuovi venuti dall’estero.

Il talento di Glover sta proprio nell’evitare accuratamente la decapitazione, o qualsiasi altra pena corporale, compenetrandosi come nessuno mai nelle maglie apparentemente insuperabili della società e della cultura nipponiche: e qui sta, a un livello più generale, la seconda chiave per leggere Terra Pura. Di là dalla storia personale di Glover, si tratta di un romanzo sulla difficile interrelazione fra due culture del tutto difformi, quali quella ben radicata nel mondo anglosassone, culminante nell’istituzione giuridica dell’habeas corpus, e quella non altrettanto garantista del lontano oriente. Lì dove i colleghi occidentali di Glover incontrano notevolissime difficoltà (tanto che uno di essi, sir Laurence Oliphant, lamenta i propri reiterati e frustranti “sforzi di venire a patti con questo paese glorioso ed esasperante”), l’intraprendente scozzese vede delinearsi un sentiero che conduce direttamente all’espansione commerciale prima e alla diretta ingerenza politica poi, tradendo così uno dei due principi basilari del timoroso commercio britannico (l’altro è “attento a con chi fotti”: anche in questa circostanza, tuttavia, Glover si rivelerà piuttosto disinvolto).

Ciò che caratterizza Glover, e che manca a sir Oliphant e a tutti i suoi altri colleghi di varia risma, è la capacità di mimetizzarsi appieno, di trasferirsi in Giappone anima e corpo. Al suo breve ritorno ad Aberdeen, sette anni dopo aver lasciato la Scozia, Glover avverte che non si sentirà a casa finché non rivedrà il porto di Nagasaki. Il suo desiderio di adattarsi completamente alla cultura giapponese traspare dall’entusiasmo col quale, sin dal primo giorno, tenta di apprenderne la lingua – lingua che alle orecchie occidentali suona disperante, secondo le parole di un altro personaggio inglese, sir Rutherford Alcock: “Non ha generi per i sostantivi, non ha articoli determinativi, usa innumerevoli forme diverse per rivolgersi alle persone, a seconda del rango, e ha una pletora imbarazzante di verbi”.

Nella lingua sta appunto la terza chiave di lettura del romanzo. Gli sforzi di Glover sono ben sintetizzati dal tentativo di adattare i sintagmi giapponesi ai fonemi britannici, ottenendone soluzioni piuttosto comiche ma efficaci, tali che watakashi (“io”) diventi waterkoosh, omai (“tu”) diventi o my, e così via. Il massimo punto di contatto fra Glover e la cultura giapponese è ben simboleggiato da Spence nella trascrizione dello stesso nome del protagonista, dovuto alle difficoltà fonetiche dei giapponesi: così che Thomas Blake Glover divenga Tomasu Bureku Guraba. È Glover stesso, non frapponendo alcuno iato fra il suo essere Glover e il suo essere Guraba-san, ad accogliere in sé la cultura giapponese, venendone ricambiato con la rapida gloria e il tanto denaro cui facevamo riferimento in precedenza. La completa fusione si verifica con la nascita dell’unico figlio destinato a sopravvivere, al quale si decide di dare lo stesso nome del padre: non Thomas Glover, tuttavia, ma Tomisaburo Guraba. Solo a questo punto le due culture si toccano e Glover diventa a pieno titolo, secondo la definizione del Times Literary Supplement, un vero samurai scozzese. Stilos ha intervistato Alan Spence.

Quella di Thomas Blake Glover è una storia vera, presumo piuttosto nota in Scozia. Cosa l’ha spinta a riscriverla sotto forma di romanzo?
A dire il vero la figura di Glover è più nota in Giappone che in Scozia. Spero che il mio libro, insieme ad altre iniziative, possa contribuire a cambiare le cose. Qualcosa anzi è già accaduto: lo scorso anno il parlamento scozzese ha dedicato una cerimonia speciale al centenario della sua nascita! D’altra parte la storia di Glover è un tale concentrato di avventura, amore e intrigo politico che – una volta conosciutala nel dettaglio – non ho potuto resistere dal raccontarla a mio modo. Tanto più che sono sempre stato affascinato dalla cultura giapponese, sin da ragazzo.

Nonostante questo precoce fascino per l’esotico, lei ha esordito trent’anni fa con una raccolta di racconti tutti ambientati a Glasgow, Its Colours They Are Fine. Qual è stato il percorso letterario e intellettivo che l’ha portato fino in Giappone?
Come dicevo in precedenza, il mio amore per il Giappone, per il suo infinito fascino paesaggistico e culturale, risale alla mia infanzia. Più di trent’anni fa, e quindi prima ancora di esordire nella narrativa, ho iniziato a comporre degli haiku, e non ho mai smesso. Sono sicuro di essermi reincarnato almeno una volta in Giappone.

Lo crede davvero?
Fermamente.

Il suo romanzo non si apre con Thomas Glover ma con suo figlio Tomisaburo, sgomento di fronte a una scena di devastazione universale quale lo sganciamento della bomba atomica su Nagasaki nel 1945. Il capitolo successivo, ambientato nel 1858, si apre con un pastore che declama in una chiesa di Aberdeen il versetto biblico dell’istante immediatamente successivo alla creazione (Genesi 1,2): “E la terra era priva di forma, ed era vuota”. Immagino che sia una simmetria voluta.
Il parallelo è in sé una specie di meditazione sulla vacuità. Il vuoto, anzi, è il tema che pervade il libro, culminando alla fine con la realizzazione del personaggio femminile, Maki. A dire il vero, proprio in relazione a questo tema sotterraneo, man mano che scrivevo, la storia di Maki è diventata quasi più importante di quella di Glover stesso.

Tanto più che Glover è un personaggio positivo, di vitalità straordinaria. Infatti per lui il Giappone è (con un’altra metafora biblica) una terra fantastica in cui scorre latte e miele (Esodo 3, 17), o meglio “seta e tè”. Cosa resta del suo coraggio di partire alla scoperta di questa terra promessa ora che le distanze fra i due capi del mondo intero si sono decisamente accorciate, e di fronte alla globalizzazione della cultura?
Be’, Glover era un uomo del suo tempo – anzi, una vera e propria incarnazione del suo tempo: avventuriero, per certi versi eroico, entusiasta e ciò nondimeno spietato. Una persona molto complessa (così come complesso è il personaggio Glover che ho creato nel mio romanzo). Lui stesso ha collaborato decisivamente alla globalizzazione, ma Terra Pura intende mostrarne anche il lato negativo: non a caso inizia con la distruzione della sua amata Nagasaki da parte dei bombardieri americani che cercavano di colpire i cantieri navali Mitsubishi che Glover stesso, ai suoi tempi, aveva aiutato a scoprire.

Dove ci condurrà col prossimo romanzo? Tornerà in Scozia?
A dire il vero sono ancora preso dalla ricerca delle fonti e del materiale vario. Però posso anticipare che sarà ambientato a Bali, parzialmente ai giorni nostri e parzialmente negli anni sessanta. Insomma, alla fine ripropongo il tema del confronto e del conflitto fra Est e Ovest.

Bene, grazie – anzi, arigato gosaimasu.
Prego, do itashimashite!

mercoledì 26 settembre 2007

Vero falso

(Gurrado per Ore Piccole)

Come considerazione generale, si potrebbe notare che paradossalmente un romanziere raggiunge il massimo successo quando la propria fama viene superata da quella del personaggio che egli stesso ha creato. Se ciò accade, è perché è riuscito in tre imprese difficili: a raggiungere con la sua opera un numero enorme di lettori, a convincerli dell’esistenza del personaggio mediante una solida plausibilità narrativa, a renderli affezionati al personaggio grazie al delineamento di pochi tratti precipui e particolarmente amabili (o particolarmente deprecabili) che lo facciano percepire come vivo e presente, del tutto umano.

Tanto è accaduto, indubbiamente, ad Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes, la fama del quale ha trasceso quella dell’autore stesso fino a renderlo maschera a sé stante e per certi versi marchio di fabbrica, col tipico copricapo e la pipa sempre fumante. L’imprevedibile penetrazione di Sherlock Holmes nell’immaginario collettivo (così che lo conosca anche chi non ha mai letto un romanzo in vita sua) lo ha di fatto svincolato dal proprio autore, e lo ha reso per certi versi “di pubblico dominio” – grazie soprattutto, non va dimenticato, alla straordinaria vivacità descrittiva di Conan Doyle. Egli stesso anzi dovette rendersi conto della dispettosa indipendenza del personaggio quando, avendolo fatto morire ne L’Ultima Avventura, dovette risuscitarlo con uno stratagemma narrativo ne L’Avventura della Casa Vuota, a furor di pubblico.
“Rivelando” che nei tre anni trascorsi fra la sua presunta morte e la sua ricomparsa in realtà Holmes aveva prestato servizio (segreto) per il governo britannico, di fatto Conan Doyle dava il proprio placet all’idea che la sua creatura si muovesse indipendentemente dalla volontà dell’autore, e che quindi esistesse una cesura fra il “personaggio” e la “persona” di Sherlock Holmes. Questo ha dato il via a un filone narrativo iniziato nel 1928 (due anni prima della morte di Conan Doyle) con l’articolo pseudo-accademico di Ronald Knox, Studies in the Literature of Sherlock Holmes: lo studioso partiva dal presupposto della reale esistenza dell’investigatore di Baker Street per costruirgli addosso un’ironica ragnatela di rimandi. Su scala del tutto diversa, lo stesso sarebbe avvenuto al cinema pochi decenni dopo con La Vita Privata di Sherlock Holmes di Billy Wilder (1970) e con Il Fratello più furbo di Sherlock Holmes di Gene Wilder (1975).

In ordine di tempo, l’ultimo tassello a questa raffinata tradizione di giochi letterari è stato aggiunto da Laurie R. King, scrittrice americana che s’è appropriata di Sherlock Holmes inventando Mary Russell, la sua giovane apprendista poi divenutane moglie nonché inseparabile assistente. Degli otto romanzi che la King ha pubblicato sulle loro inchieste, Neri Pozza ne ha tradotti due: dopo L’Allieva e l’Apicultore, è appena arrivato Il Gioco.

Si tratta di una spy story ricca di colpi di scena, pertanto del viaggio di Russell e Holmes nei più gelidi anfratti dell’India coloniale si può dire ben poco senza rovinare la sorpresa al lettore. Tuttavia meritano di essere messi in evidenza tre elementi che rendono Il Gioco gradevole anche ai non abituali divoratori di libri gialli. In primo luogo l’abilità mimetica di Laurie R. King: come Watson in Conan Doyle, Mary Russell è al contempo testimone privilegiata delle indagini di Holmes, ingranaggio indispensabile nel loro meccanismo e, soprattutto, voce narrante. La narrazione autodiegetica (ben tradotta da Valeria Giacobbo) viene condotta con notevole sapienza dalla King, che riversa nel testo tutta la sua conoscenza dei costumi (presumibilmente appresi dalla letteratura) del primo novecento inglese, così da far risuonare senza soste per più di quattrocento pagine la voce di una spregiudicata e ironica giovane donna del 1924.

Un ulteriore motivo di interesse è l’acutezza con la quale Laurie R. King spiazza il lettore ottenendo un continuo attrito fra le rigide esigenze dei paletti posti dal romanzo storico – il primo governo laburista, sotto Ramsay MacDonalds; i complicati rapporti con l’Unione Sovietica da poco costituita; il non facilmente identificabile terrorismo di matrice socialista – e la necessità di inventare nei dettagli una storia di spionaggio in una regione inesistente (della quale fornisce però precisa mappatura).


Soprattutto, degna di nota appare la ragione che muove Holmes, e con lui sua moglie, a prendere parte al gioco spionistico cui fa riferimento il titolo. Alcuni lettori, anzi, potrebbero cogliere nel titolo stesso un fugace riferimento al gioco sopranazionale che si conclude alla morte dei giocatori, secondo la definizione datane da Rudyard Kipling in Kim. È proprio alla ricerca del disperso Kimball O’Hara – conosciuto dall’investigatore nei tre anni della sua presunta morte, e ormai diventato un signore di mezz’età ma ancora al servizio della Corona – che si muove la famiglia Holmes, finendo nelle grinfie di un governatore sadico, squilibrato eppure del tutto lucido secondo una pittoresca metafora della follia politica del XX secolo. Un altro personaggio sfuggito di mano al proprio autore, dunque: così che, quando sua moglie gli chiede stupita se davvero “il ragazzo di Kipling” sia una persona reale, Sherlock Holmes può serenamente risponderle: “Quanto lo sono io”.

venerdì 21 settembre 2007

L'uomo e il lavoratore 2

I colloqui di lavoro sono come i bicchieri di Martini: uno va bene, due sono troppi, tre non sono mai sufficienti. Ribadendo il concetto che il lavoro non si trova quindi è inutile cercarlo (caso mai può capitare che lui trovi voi), alla lista delle sette possibili agenzie interinali bisogna aggiungere per lo meno tre tipi di aziende pronte a esaminare i curriculum dei candidati.

Azienda Invertita: avviene che l’esaminatrice, demandata al colloquio con il candidato che per convenzione chiameremo Gurrado, sia lievemente nervosa e che pertanto, di fronte al candidato, inizi a barcollare sulla sedia. E fin qui, niente di male. Poi inizia a torcersi le dita. E fin qui, niente di male. Poi inizia a fare parossistici occhiolini, dovuti più a un tic che al desiderio di trascinarsi Gurrado sotto la scrivania. E fin qui, insomma. Ma quando, incalzata dalla baldanza di Gurrado che non contento di darle risposte convincenti inizia a farle domande difficili, tramortita dalla sfilza di questioni che le vengono poste e obbligata a rifugiarsi nell’autobiografia iniziando a spiegare balbettando a Gurrado chi è lei e com’è arrivata a occupare il posto che occupa – in quell’istante le squilla il telefono e il suo capo, dall’altra scrivania, le ricorda che il colloquio lo sta facendo lei a Gurrado, e non Gurrado a lei. Gurrado non verrà assunto, lei verrà licenziata.

Azienda Radical Chic: avviene che l’esaminatrice propone ai candidati (sette ochette più un candidato bellissimo che per convenzione chiameremo Gurrado) di fingere di essere altrettanti caporedattori di una nuova rivista di sinistra progressista chiamata a riunirsi senza direttore per decidere le linee editoriali. Curiosamente, l’azienda non ha nulla a che spartire né con i giornali né con la sinistra progressista. A Gurrado, se vogliamo chiamarlo così, è stato assegnato il ruolo di caporedattore della cultura, e nonostante le apparenze barbute il gioco prevede che per tre quarti d’ora lo si chiami Lucia. In compenso le sette ochette si chiamano Maurizio o giù di lì. Scopo del gioco è che nel giro di tre quarti d’ora di riunione redazionale farlocca ogni giocatore ottenga un numero di pagine uguale a tre. Ovviamente, moltiplicate per otto, le tre pagine ciascuno superano il limite massimo della foliazione, quindi non tutti possono venire accontentati. Accade che le sette ochette si mettano a discettare su come debba essere un giornale di sinistra, litigando furiosamente fra di loro pur senza smettere di sorridersi con gran faccia da culo. Alla fine della riunione s’è deciso soltanto che a Gurrado spettano tre pagine; se ne deduce che le sette ochette sono maschiliste.

Azienda Pickwick: avviene che la segretaria, che per convenzione chiameremo segretaria, faccia accomodare nell’anticamera il candidato gurradesco inusitatamente elegante, specificando che l’esaminatore è estremamente impegnato. Circa dodici secondi dopo, la segretaria fa accomodare Gurrado nello studio dell’esaminatore, il quale sembra appena risvegliarsi dal letargo, e tace. Gurrado si presenta. L’esaminatore tace. Gurrado si accomoda. L’esaminatore tace. Gurrado guarda l’esaminatore che legge il suo (di Gurrado) curriculum, tacendo. A un certo punto, circa tre o quattro minuti dopo l’ingresso di Gurrado, l’esaminatore gli chiede a bruciapelo: “Pavia?” Gurrado risponde di sì senza cercare di ricostruire la domanda. L’esaminatore tace. Gurrado tace. L’esaminatore guarda l’orologio. Nell’istante in cui Gurrado si distrae, l’esaminatore gli chiede di rimando: “Modena?” Gurrado risponde nuovamente di sì. Al che l’esaminatore pronunzia quello che resterà l’unico giudizio compiuto dell’intero colloquio, benché tautologico: “Modena è Modena.” Gurrado acconsente. L’esaminatore tace per cinque minuti. Gurrado abbozza un sorriso ma lo spegne subito. L’esaminatore si sporge sulla scrivania e fa un lungo discorso che ricalca, per struttura e contenuto, quelli tenuti dall’anonimo viaggiatore col cappotto verde de Il Circolo Pickwick, al quale Dickens metteva in bocca ragionamenti sommari del tipo: “Ragazze inglesi meno belle delle spagnole – creature nobili – capelli corvini – occhi neri – forme gradevoli – creature dolci – bellissime”. Parimenti, l’esaminatore evita con cura ogni possibile tipo di predicato verbale. Gurrado assente ruffianamente. Poi l’esaminatore tace. Gurrado avanza una risposta di cortesia che si spegne nell’indifferenza dell’esaminatore. L’esaminatore pronunzia tredici sostantivi a casaccio. Gurrado tace. L’esaminatore tace. La segretaria fa la segretaria. Modena è Modena. A un certo punto Gurrado dice: “Va bene.” L’esaminatore tace. Gurrado si alza. L’esaminatore tace. Gurrado porge la mano. L’esaminatore tace. Gurrado se ne va. L’esaminatore tace. Gurrado esce. La segretaria lo saluta. Gurrado tace.

Samuel Beckett avrebbe pagato per scriverla lui, questa.

martedì 11 settembre 2007

L'uomo e il lavoratore

Avete mai cercato lavoro? Peggio per voi. Poiché non si trova, è tuttavia interessante cercarlo tramite le agenzie interinali, se non altro dal punto di vista antropologico. Chi come me arriva dal mondo accademico (e in virtù di ciò credeva di aver già visto cose che voi umani non potete immaginare nemmeno rifacendovi al cartone di Alice nel Paese delle Meraviglie) prima di metter piede nella prima agenzia interinale suppone che in fin dei conti siano tutte uguali (niente di più sbagliato) e non sa che gli si sta per dischiudere innanzi un mondo di visioni metafisiche (niente di più surreale). Stando alla mia personale esperienza, accumulata in due mattinate di passo veloce e colloqui a raffica, esistono sette diversi tipi di agenzie. Nel dettaglio:

Agenzia Gulliveriana: si citofona timidamente e si aspetta fuori mentre il gigantesco portone si schiude pian pianino. Si salgono varie scalinate e, quando si è perso l’orientamento, una targa grande quanto una finestra panoramica spiega che l’agenzia è lì. Si passa per una porticina minuscola, appiattendosi e acquattandosi al contempo, e si arriva nell’ingresso oblungo nel quale della benefattrice sociale, addetta alla raccolta e alla valutazione dei curriculum, si scorge soltanto l’attaccatura dei capelli dietro una scrivania tanto alta che per parlarvi l’un l’altro e tentare di guardarvi negli occhi dovete entrambi stare in piedi sulle punte. All’uscita (che avviene per disperata fuga dal mondo delle sproporzioni) bisogna nuovamente attendere l’apertura lenta lenta del mastodontico portone, sul quale un avviso scritto in corpo sette avvisa i dotati di migliori occhiali che si tratta di portone elettrico, raccomandandosi testualmente di non frapporsi a fermare la sua corsa.

Agenzia Zampe di Gallina: è necessario attendere il turno per il proprio colloquio ascoltando le dettagliate ambasce della benefattrice sociale A, preoccupata per l’invecchiamento della pelle, e i consigli di lifting dispensati dalla benefattrice sociale B, rifatta piuttosto bene, la quale vi accoglierà col disprezzo che si deve a chi solo perché è (relativamente) giovane crede di non aver bisogno di un corpo diverso da quello che gli è capitato.

Agenzia Ci Sono: trattasi di agenzia chiusa con due mandate ed evidente cartello che suggerisce di ripassare l’indomani, all’interno della quale una benefattrice sociale fa ampi gesti per richiamare la vostra attenzione urlando di là dal vetro insonorizzato: “È aperto, è aperto”. Una volta entrati, vi spiegherà che d’abitudine guarda chi passa e poi si regola a simpatia.

Agenzia Non Ci Sono: trattasi di agenzia aperta fino alle 13, non appena entrati nella quale vi viene notificato che essa agenzia sta per chiudere, essendo appena passato mezzogiorno, e che è meglio ripassare nel pomeriggio.

Agenzia Ci Sono e Non Ci Sono: trattasi di agenzia collocata, secondo il sito dell’Informagiovani, secondo le Pagine Gialle, secondo gli annunci pubblicitari e secondo l’opinione corrente in Via Michael Jordan 32, e nella quale capita di imbattersi andando da tutt’altra parte, all’altezza di Via Magic Johnson 23, quando invece in via Michael Jordan 32 il massimo che si riesce a trovare è una porta murata.

Agenzia Vaticana: in questo caso la colpa non va ascritta all’agenzia, invero funzionalissima, né alla benefattrice sociale, invero professionalissima, ma al candidato alla presentazione e alla valutazione del proprio curriculum, che per convenzione nomineremo Gurrado. La benefattrice sociale esprime a Gurrado il proprio parere spassionato, secondo il quale il suo curriculum ben si attaglierebbe a una carriera nel campo della comunicazione aziendale o della selezione del personale o nella gestione delle risorse umane; ciò nondimeno gli chiede che mestiere, in assoluto, gli piacerebbe fare qualora potesse scegliere. Ed ecco che Gurrado ha in visione la loggia pontificia che si apre, e il cardinale protodiacono che declama al popolo che freme: “Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam! (il popolo giubila) Eminentissimum ac reverendissimum dominum (pausa a effetto, il popolo trattiene il fiato) Antonium (il popolo si gratta la testa) Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Gurrado (il popolo bofonchia) qui sibi nomen imposuit (il popolo accetta scommesse) Pium Decimum Tertium (il popolo si fa mussulmano).

Agenzia delle Indie Occidentali: si capisce di aver sbagliato rendendosi conto di essere l’unico bianco che sta compilando il modulo d’iscrizione.

Agenzia Cuoricino: la benefattrice sociale legge il vostro curriculum con attenzione inusitata, stupisce, si innamora, declama il vostro numero di cellulare, sbatte le palpebre e chiede se e quando può usarlo per chiamarvi. “Come lavoratore?”, indagate voi. “No, così, come uomo.” Sarà l’unica che vi richiamerà.

sabato 8 settembre 2007

Pavarotti fra virgolette

Mia cugina che sta a Roma
e conosce tanta gente
dice: Li cantanti morti
nun so’ morti veramente…

(Elio e le Storie Tese)

Scena madre numero uno: io corro su e giù per il centro di Modena alla ricerca di agenzie interinali (vi assicuro fra parentesi che qui è molto più facile trovare fidanzate che datori di lavoro) e sento distintamente la voce di una signora che, seduta al tavolo di un bar, sfoglia Il Resto del Carlino dicendo: “Pare che verrà anche Amadeus!” – anzi, con il tipico accento locale, “Amadeusc”.

Amadeus(c) non lo so, ma fra ieri e oggi sono arrivati Kofi Annan, Zeffirelli, Carla Fracci, Zucchero, Jovanotti, Bono-degli-Uddùe; e poi Napolitano, Prodi (che non è stato fischiato e quindi è in crisi d’identità), la moglie di Prodi (la quale, stando a Snupi che guardava la tv da Cefalù, si è esibita in un notevole sbadiglio in Duomo e in diretta su Rai1 all’altezza della seconda lettura), Rutelli (che a un certo punto ha risposto al telefonino, sempre stando a Snupi, ma non voglio crederle, anche se fra Rutelli e Snupi so di chi fidarmi) e perfino io, che sono arrivato a Modena per fare tutt’altro e sono rimasto invischiato nella faccenda (inevitabilmente: la mia cameretta è praticamente dietro il Duomo).

Scena madre numero due: ieri mattina vado a comprare, per la prima volta nella mia vita, la Gazzetta di Modena e voilà, il titolone a effetto declama enorme e giallo in stampatello: Tutto il mondo ai sui piedi. Un refuso sesquipedale.

Non ho voluto trattenermi in Piazza Grande per tutto il funerale, ma ho reso omaggio alla salma andandola a trovare stamattina, quando s’era esaurita la fila di ore e ore che ieri ha intasato il centro di Modena, stupendomi peraltro di sbrigarmi in cinque minuti. Mia madre da Gravina ha notato con un lapsus indicativo: si tratta di un gesto di rispetto che si dedica agli estranei, quindi… Ha lasciato la aperto il sillogismo, ma l’altra metà significava presumibilmente che tanto più va reso omaggio alla salma dei familiari, o dei congiunti. Ovviamente oggi è stata la prima occasione di vederlo di persona, ma l’impressione era effettivamente di conoscerlo in abbondanza.

Scena madre numero tre: mentre si cucina la cena un’amica apprende dal Tg5 che il maestro è stato deposto in una bara bianca, e commenta: “Ma il bianco ingrassa!”.

La cosa più notevole di questi due giorni di follia collettiva era scritta sul badge distintivo di un addetto al servizio d’ordine: “Pavarotti”, fra virgolette. Mai come in questo caso l’ignoranza di chi non sa la grammatica è stata indicativa di un sentimento collettivo, poiché una folla immensa s’è riversata in Duomo e in Piazza Grande a vedere le esequie per rendere omaggio all’idea di Pavarotti, all’essere (stato) Pavarotti, alla pavarottità insomma più che al singolo povero defunto, e anche per poter vedere, in ordine d’importanza: sé stessa riflessa nel maxischermo; Bono-degli-Uddùe e gli altri vip di passaggio; se fischiavano Prodi anche stavolta. Il badge distintivo del servizio d’ordine, virgolettando Pavarotti, ha sinteticamente definito col suo nome tutto ciò che gli gravitava intorno, fagocitando il suo essere uomo, singolo.

Di là da tutto – di là perfino dalle Frecce Tricolori che hanno dipinto il quadrato di cielo che riesco a vedere dalla mia cameretta – il momento più toccante (per me) è stato assistere alla preparazione del carro funebre fuori dal Duomo, mentre iniziava il funerale. Che, tradotto, voleva significare come non importi quanti presidenti della repubblica vengono a porgerci l’estremo commiato, o quanti sconosciuti firmano il registro delle visite sperando di rivedersi in differita su Rai1, o quante virgolette vengano apposte al nostro nome o se siamo “Pavarotti” o “Gurrado” o “Pulcinella”: alla fine finiremo tutti nella stessa macchina oblunga delle Onoranze Funebri Gianni Gibellini, o chi per esse.

Se non che Pavarotti (scena madre numero quattro) al momento di andarsene se n’è andato con sei carri funebri. Sei! Non sarò mai all’altezza.

martedì 4 settembre 2007

Uno spettro si aggira per Gravina

Uno spettro si aggira per Gravina: io che per principio non compro il Manifesto. Se non che posso vantarmi di essere amico di Michela Murgia, giuslavorista mistica, e ancor più di essere interessato a quanto scrive; così che quando Michela Murgia scrive su il Manifesto mi trovo lacerato dal conflitto. Cosa faccio? Cosa non faccio?


Puntualmente è accaduto sabato scorso, così che ho dovuto ricorrere al seguente sotterfugio: recarmi dall’edicolante alle otto del mattino; comprare il Foglio e la Gazzetta dello Sport (alè); rientrare a casa a leggerli; tornare dall’edicolante verso l’una, quando i quotidiani sono pressoché esauriti, chiedergli a tradimento se gli fosse avanzata una copia de il Manifesto; soccorrerlo a seguito del suo svenimento; sgraffignare la penultima copia de il Manifesto dalle mani di un avventore comunista; sfogliare da cima a fondo detta copia fino a scoprire che l’articolo di MM era in bell’evidenza all’ultima pagina; restituire detta copia e congedare l’avventore comunista il quale, per comprare il Manifesto aveva sborsato cinque euri, cifra che da quando sono disoccupato non posso più permettermi di spendere nemmeno per comperare beni di necessario conforto come la guida al mondiale di rugby; rimpiangere i beati tempi del liceo in cui il Manifesto di tanto in tanto costava cinquantamila lire e la mia principale preoccupazione era diventare uno scrittore famoso; chiedere nuovamente all’edicolante se gli fosse avanzata un’ulteriore copia de il Manifesto; osservarlo acquattarsi sotto il bancone e ricuperare da non voglio sapere dove una copia residua de il Manifesto; spiegare all’edicolante riemerso chi è Michela Murgia; spiegargli altresì perché non posso comprare il Manifesto per principio, come doveva essergli chiaro stante la sua perspicua reazione di svenimento; chiedergli se fosse possibile fotocopiarmi l’ultima pagina de il Manifesto su due fogli A3; andarmene a leggere Michela Murgia in santa pace sul divano di casa, non prima di aver adeguatamente pranzato.

Vista la fatica, spero che Michela Murgia inizi presto a scrivere su giornali che posso acquistare con minor patema d’animo e senza alcuna vergogna: non dico il Foglio, non dico Avvenire, ma almeno Gente, Tv Sorrisi e Canzoni, il Guerin Sportivo, Speak Up, Scuola Italiana Moderna, Grazia, la Gazzetta Ufficiale, Eva Tremila, Jesus e Penthouse.

L’ideale sarebbe tuttavia che Michela Murgia e io fossimo inglesi, così che lei scriva sempre e soltanto su The Chap, il magazine del giovanotto snob che rimpiange il tempo andato - qualunque sia il tempo e dovunque sia andato.

lunedì 3 settembre 2007

La provincia del mistero

Per quanto era nero sembrava San Nicola di Bari, e invece era Francesco Giorgino il quale, leggermente abbronzato, di ritorno dalle vacanze apriva l’edizione del Tg1 più simile a un numero de La Provincia Pavese che la storia ricordi. Prima notizia: un tabaccaio è stato rapito a Bereguardo. Seconda notizia: la questione dell’omicidio di Garlasco. Mi aspettavo che continuasse così: invasione delle cavallette a Bressana Bottarone; sagra del bicarbonato di sodio a Zerbolò; intervista esclusiva all’unico studente universitario di Albaredo Arnaboldi; cordoglio unanime per il cane investito a Chiavica Gravellone; approfondimento sull’innaturale pendenza laterale della stazione ferroviaria di Certosa; infine, analisi della giornata calcistica con gli incontri Mezzana Rabattone – Landriano, Golferenzo – Gropello Cairoli, Vidigulfo – Corvino San Quirico e così via.

Non per fare lo spiritoso, ma io ho vissuto a Pavia cinque anni durante i quali non è successo niente. Il quotidiano locale, La Provincia Pavese appunto, ha sempre fatto del giornalismo eroico riuscendo a produrre dalla propria sede lungo il naviglio un giornale dalla foliazione sovrabbondante rispetto alla sconfortante penuria di avvenimenti. È ingiusta la leggenda che attribuisce a La Provincia il titolo “In cinquecento contro un albero: tutti morti” (o era forse “Falegname impazzito tira sega a passante”?): La Provincia non ingigantiva le notizie né giocava su titoli equivoci, ma si limitava a scavare nei sonni profondi della provincia più addormentata d’Italia per trovare la notizia che nessun telegiornale avrebbe dato. Ad esempio, una volta accadde che alcuni filibustieri del Ghislieri, il collegio in cui ho studiato, acquistassero il dominio web www.borromeo.it, per creare un sito fasullo e derisorio del collegio rivale e inferiore, appunto il borromeo. La burla geniale venne scandagliata da La Provincia con pagine intere, interviste ai malfattori (coperti da nomi di battaglia), riscontro dettagliato delle reazioni dei borromaici. Reazione che consisté nel rovesciare letame (letteralmente: merda a palate) davanti ai gradoni storici e augusti del Ghislieri; letame nel quale La Provincia sguazzò (metaforicamente) chiosando l’atto con una parafrasi del d’Annunzio: Io sono quel che ho donato.

Fu una pagina (furono tante pagine, a dire il vero) di grande giornalismo: più passa il tempo più me ne convinco. Un po’ come quel tale che disse che il talento di un autore si distingueva dalla capacità di stendere una tragedia in cinque atti ispirandosi al proprio mal di denti. Adesso che i ronfanti comuni nei dintorni di Pavia si sono messi d’improvviso a fornire notizie d’apertura ai telegiornali e a Giorgino nero come pece, penso che questa sia la giusta ricompensa a La Provincia che arditamente per anni e anni aveva dato forma compiuta di notizia al contenuto informe e vuoto degli avvenimenti trascurabili. Solo rimpiango di non poter essere lì ora, a leggere cos’ha scritto La Provincia su Garalsco e Bereguardo assurti a fama nazionale; di più: rimpiango di non sapere a quante pagine sia arrivata, se già di solito usciva con spessore doppio rispetto al quotidiano locale medio.