mercoledì 31 ottobre 2007

Sade a Cesano Maderno 2

Ma, in definitiva, che stavo a fare sul trenino della Nord, avanzando in piena Brianza? Andavo a vedere per la prima volta il figlio di Cosimo Argentina, che ho già plurimamente recensito qui e in vari posti. Perché, dirà chi lo conosce, ne ha avuto un altro? No, è sempre lo stesso figlio che ora ha quattro anni e la cui visione avevo rimandato di volta in volta, ripromettendomi comunque che accadesse prima della sua laurea. Anzi ne approfitto per ringraziare ufficialmente anche Argentina che avantieri mi ha citato in una poesia sul suo blog: “tutti a darla via, di sabato sera / nella stanzetta il Guru dorme fatto di grappa”. In questo caso, tuttavia, non di invenzione giornalistica si trattava ma di licenza poetica: fatto di grappa quantunque, nella stanzetta non dormivo ma approfittando dell’ora solare in più mi capacitavo nottetempo di come Argentina avesse una casa ampia, una moglie innamorata e un figlio tutto suo padre, di modo tale che per conseguire la più completa felicità gli mancassero soltanto (in ordine d’importanza) l’abbonamento a Sky e un cagnolino peloso.

Ciò nondimeno, con ammirevoli regolarità e dedizione, Cosimo Argentina continua a scrivere. Io non sarei in grado, ritenendo la vita da scrittore una sofferenza indicibile, descritta alla perfezione – meglio di come potrei mai – novantotto anni fa da Thomas Mann in Altezza Reale: vita da atleta, sempre a letto presto, giornate di fronte alla pagina da riempire in un modo o nell’altro, pile di libri da leggere e rileggere, citazioni sbagliate sempre in agguato, pubblico dai gusti isterici, editori spazientiti, amici che telefonano sempre mentre cerchi la parola giusta, fidanzate che non capiscono di essere meno importanti di (poniamo) Joyce, uno schermo verbale che vela da ogni immediato contatto, un continuo e frustrante tentativo di tradurre avvenimenti reali in episodi narrati, o più in generale la vana speranza di far quadrare il cerchio trasformando le cose in parole, la gente che non crede che scrivere sia un lavoro, peggio ancora la gente che dimentica che scrivere è una tecnica e pretende che ci si affidi all’ispirazione, il continuo senso di dover giustificarsi quando si chiede silenzio tutt’attorno, l’ironica commiserazione che si percepisce negli sguardi altrui quando non si viene pubblicati, il commento superiore del lettore che non sarebbe in grado di mettere per iscritto un concetto compiuto, la domanda eterna di chi ti chiede perché non scrivi libri che la gente possa leggere. Questo, tanto per fermarsi alla punta dell’iceberg.

Leggere, scrivere, rileggere, correggere, tagliare, stampare, rivedere, espungere, ristampare, fotocopiare, rilegare, impacchettare, spedire, sperare, rassegnarsi, telefonare, rassegnarsi, contrattare, rassegnarsi, promettere che non si farà mai più nulla del genere e poi ricominciare nel giro di un mese a leggere, scrivere, rileggere, correggere, senza che mai si scorga una fine: non c’è nulla da invidiare a uno scrittore. A conti fatti, ci si rimette più di quanto si guadagna; le possibilità di trasformare le parole in soldi sono statisticamente molto limitate; la presunta soddisfazione di vedere la propria opera racchiusa fra una copertina vera o fra gli scaffali di una libreria è abbondantemente superata dall’angoscia della vendita scarsa, dalla consapevolezza che autori peggiori hanno maggior successo, dal sospetto dell’aver perso tempo quando si incontra (poniamo) il compagno delle medie il quale alla stessa età ha uno stipendio e una moglie – oltre che, va da sé, l’abbonamento a Sky e il cagnolino peloso. O semplicemente, mi disse lo stesso Argentina qualche anno fa (cito a memoria, tradendo): uno ha fra le mani il suo libro appena pubblicato e già è roso dal pensiero del lavoro che lo attende per quello successivo, e dal timore di non essere all’altezza.

A me leggere e scrivere non piace per niente; ogni volta è una faticaccia, per di più inutile, ma è l’unica cosa che so fare (oltre ad allacciarmi le scarpe) pertanto porto la mia croce con pazienza sapendo che ve ne sono di peggiori (studiare filosofia, ad esempio) e sperando che prima o poi mi cada dalle mani così che io possa trascorrere la vita a guardare partite di calcio, basket, pallavolo e rugby in tromba ogni santo giorno della divina settimana, senza dover renderne conto a nessuno se non al bollettario della tv via satellite. Ventiquattr’ore a casa di Cosimo Argentina, però, dopo aver fenduto (fesso?) la Brianza leggendo Sade in treno, sono sufficienti a cambiare quasi idea: uno vede la moglie, vede il figlio, vede la casa e lo studiolo che finalmente gli consente di non dover scrivere capolavori in equilibrio precario, la libreria vera e propria in cui trasportare i libri che da ragazzo accatastava nella dispensa in cucina (o i manoscritti nel frigorifero), il computer perennemente acceso e le locandine di otto anni di romanzi che ornano il corridoio, la camera da letto, perfino il bagno; uno vede tutto ciò e si convince che potrebbe valerne la pena, forse, e torna a casa (sempre ammesso che ne abbia una) con tutte le buone intenzioni di leggere di più e scrivere sul serio, nonostante tutto. Queste sono le intenzioni, per i risultati vedremo.


Infine sul treno che da Milano Centrale mi riporta a Pavia, fetentissimo interregionale, capito di fronte a una siciliana carina e normanna (capelli chiari, occhioni verdi) con una valigia enorme quasi quanto quella che io insisto a portare in giro per l’Italia; per quanto io stia leggendo Sade col titolo in bell’evidenza, nel bel mezzo delle centocinquanta passioni omicide costei si toglie le cuffie dell’iPod, ripone il cellulare, si sfila il maglione e si lamenta del caldo improvviso; racconta che si è laureata a Palermo e che dopo un master a Milano stava andando a fare non so che stage a Grosseto. Errore imperdonabile, per la prima volta nella mia lunga carriera di cliente di Trenitalia, invece di abbozzare un sorrisetto di compassione e seguitare a leggere e a pensare a cosa scrivere domani, richiudo il libro e le rispondo.

martedì 30 ottobre 2007

Sade a Cesano Maderno

Questo post è talmente narcisista che se ne sconsiglia la lettura a chiunque non sia me stesso.

Per prima cosa ringrazio ufficialmente Roberto Alfatti Appetiti il quale, domenica 21 ottobre, ha realizzato un mio antico sogno citandomi su Il Secolo d’Italia: “il giovane romanziere Antonio Gurrado, nel suo blog Scribacchiature (…)”. Che sono romanziere in fin dei conti è vero. Che sono giovane è la solita invenzione dei giornalisti: l’altra sera ero in fila a mensa e una signorina abbastanza più piccola di me mi ha leggermente urtato il gomito e immediatamente ha squittito: “Mi scusi”. In quel momento è iniziata irrefrenabile la vecchiaia.


La gente non mi piace, e una delle migliori maniere per tenerla lontana è salire sul trenino della Nord che congiunge Milano Cadorna alla Brianza (uno dei mezzi di locomozione più lenti che la storia ricordi, più lento addirittura di me quando corro) e mettersi a leggere Le 120 Giornate di Sodoma coprendosi il volto col volume e tenendo il titolo in bell’evidenza. Ora, la gente è ignorante e quando legge, anzi, quando sente pronunziare il nome di Sade pensa chissà che (a dire il vero, per prima cosa pensa che sia sbagliato e che si debba dire De Sade, ragione più che sufficiente per sottoporla a indicibili torture). In particolare, la gente fa l’equazione Sade = De Sade = fruste e frustate. Male, malaccio, malissimo. Sia perché la gente reagisce in maniera scomposta e quindi il mio scompartimento, man mano che procedevo ridacchiando alla gustosa lettura, andava via via svuotandosi (ad Àffori scende un gruppetto di ragazzette starnazzanti; a Cusano Milanino svanisce una notevole percentuale di coloni turcomanni; a Varedo scappa una signora che leggeva Nigrizia, addirittura; a Cesano Maderno sembra che intorno a me non sia rimasta più anima viva, se non gli invisibili animaletti che popolano i sedili strappati; a Camnago, capolinea, mi rendo conto che dal treno emergiamo soltanto io e Sade). Sia perché la gente guarda di sottecchi chiunque legga Sade in treno (cioè me soltanto) figurandoselo oziosamente intento a vergare scudisciate sul corpo innocente di qualche fidanzata altrui, equiparandolo a una persona cattiva e immorale, mentre invece basterebbe leggere Sade per capire che ci si trova di fronte a un esempio di persona morbosamente fedele a un criterio geometricamente etico. Tanto per dire, nelle prime duecentosettantuno pagine delle 120 Giornate non si fa riferimento esplicito a un rapporto sessuale che sia uno, ma tutti i personaggi vivono nella più completa e snervante verginità. Se qualcuno, preferibilmente una ragazza, viene sorpreso a letto con qualcun altro, preferibilmente una ragazza, immediatamente entrambi vengono puniti come ben meritano. Le passioni sono ordinate in una scala ascendente che prevede centocinquanta passioni semplici (robetta), centocinquanta passioni doppie (robaccia), centocinquanta passioni criminali (però) e centocinquanta passioni omicide (gnam). I dilettanti, che credono di essere liberi facendo quello che vogliono quando vogliono, leggono Sade e restano scandalizzati scoprendo che anche il più tremendo terremoto del corpo necessita di un preciso ordine inderogabile, e guai a chi sgarra. I comunisti dell’anima, che si sentono autorizzati al self service corporale, leggono Sade e restano scandalizzati scoprendo tutto un sistema di regole dettagliate senza le quali il minimo atto lubrico diventa reato e diventa peccato. Ragion per cui la gente preferisce non leggere Sade, continuare a credere che si chiami De Sade (addirittura ci sono biblioteche che lo catalogano sotto la lettera D: andrebbero bruciate insieme ai loro bibliotecari) e che i suoi libri abbiano qualcosa a che vedere con gente inguainata nel cuoio che mena fendenti a destra e a manca. E la profonda, incrollabile moralità di Sade – perfettamente conseguente in un sistema filosofico che fa a meno di Dio – va a farsi benedire in un mondo di cacchette che prima prendono in giro i cattolici, sparlano del Papa, millantano di non credere in Dio e poi non sono in grado di far del male a una mosca, anzi, il peggio che riescono a combinare è votare per la Rosa nel Pugno.

(continua)

lunedì 29 ottobre 2007

La morte, considerata come una delle belle arti

(Gurrado per Ore Piccole)


Nel limitato giro di qualche mese l’editore Neri Pozza ha pubblicato tre libri, diversissimi per genesi e fattura, che hanno tuttavia in comune a livello formale l’anglofonia degli autori (un’australiana, un irlandese, un inglese) e a livello contenutistico il tentativo di sottrarsi alla mortalità andando su e giù nello spaziotempo. Nel dettaglio, Lo Scandalo della Stagione di Sophie Gee (l’australiana) ci riporta al XVIII secolo e più precisamente nella Londra del 1711, l’anno che dette ad Alexander Pope lo spunto per The Rape of the Lock, Il Riccio Rapito, satira mai abbastanza letta in Italia (né mai abbastanza tradotta, poiché ne esiste soltanto un’edizione Rizzoli che si perde nella notte dei tempi). Morte di uno Scrittore di Michael Collins (l’irlandese, peraltro omonimo di un irlandese ben più celebre) è ambientato invece nell’America degli anni ’70 e narra l’ingrossarsi della sottile linea di follia che tormenta un autore finché non raggiunge la conclamata immortalità, con ogni mezzo soprattutto illecito. Vite Straordinarie infine, curato dall’inglese Ian Brunskill (editor dei necrologi del Times), è una corposa raccolta di obituaries, ossia le biografie definitive, variamente e vanamente imitate in Italia, degli uomini celebri la cui morte consegna alla Storia perfino una faccenda piuttosto volgare qual è il giornalismo.





L’immortalità è il basso continuo de Lo Scandalo della Stagione. Indubbiamente Sophie Gee, che è giovane e si farà, dà il meglio di sé nella descrizione particolareggiata di vivide scene collettive, come ad esempio l’ingresso a teatro di Haymarket con cui apre il nono capitolo del suo romanzo d’esordio: più ancora che nello scandaglio della psicologia individuale, che alla fin fine è il motivo per cui il pubblico compra un romanzo e talvolta se lo legge, il suo talento diventa evidente nel momento in cui si innalza a considerare con occhio distaccato di tre secoli l’affannarsi degli strati sociali diversi della Londra appena illuministica. Quest’affannarsi, va da sé, è inutile anziché no; ai nostri occhi disincantati la concitata attenzione per un ballo in maschera o per un costume di piume è senz’ombra di dubbio comica a considerare come oggi, dei partecipanti al ballo, non resti che un po’ di polvere e manco una piuma (eppure, a ben pensarci, noialtri facciamo esattamente lo stesso). Sull’agitata folla della buona società londinese spicca per questo la figura di Alexander Pope, all’epoca giovane autore di poemi noiosetti e volenteroso traduttore di Omero in fieri; l’obiettivo delle sue fatiche letterarie è quello di guadagnarsi un posto stabile nell’eternità d’inchiostro, stante che la longevità gli è preclusa a priori dalla costituzione fisica né sana né robusta.


La storia è semplice. Arabella Fermor è una bella ragazza che sa tenere a bada tutti i corteggiatori tranne uno, Lord Robert Petre, personaggio un po’ rubacchiato da Jane Austen che seduce Arabella e ne inguaia l’onore. La tragedia è di proporzioni vastissime, se considerata col punto di vista del tempo e dell’ambiente; ma tutto viene ridimensionato nel momento in cui la scrittura la trasforma sub specie aeternitatis.


Avviene infatti che, presumibilmente annoiati dai ponderosi versi del primo Pope, i suoi amici più maturi gli chiedano per vanità uno scritto che li eterni: “Ma ditemi, signor Pope, quando scriverete un poema sui vostri amici? Ardiamo dal desiderio di leggere grandi versi su noi stessi!”. Passano centocinquanta pagine ed ecco bello che scritto Il Riccio Rapito, nel quale Pope ha provveduto con non pochi scrupoli a travasare lo scandalo che coinvolge Arabella in quello nel quale “la musa consacrerà alla Fama / e tra le stelle scriverà il nome di Belinda” insieme a quello di un lubrico barone. Il testo desta la chiacchiera e sir Richard Steele, l’ultimo giornalista decente che la Storia ricordi, insinua che questa Belinda goda di troppe rassomiglianze con l’effettiva Arabella Fermor, a cominciare dal nome; segue discussione nel corso della quale gli scrupoli di Pope vengono via via fugati, con la fine del romanzo, apprendendo che il pubblico indaga oziosamente sull’identità di Arabella, ne travisa il cognome (“Farmer?”), finisce per dubitare della sua effettiva esistenza (“È una persona reale?”). All’ultima pagina de Lo Scandalo della Stagione, Arabella Fermor non esiste più, è dimenticata; resta invece reale l’immaginaria Belinda, entomologicamente inchiodata su carta, e con essa diventa eterno il nome di Alexander Pope, poeta malaticcio.





L’immortalità è la malattia di Robert Pendleton, protagonista di Morte di uno Scrittore e, speriamo, in nessun modo alter ego dell’autore Michael Collins (al suo sesto romanzo, il quarto tradotto in Italia, tutti da Neri Pozza). Si tratta peraltro, in questo caso, di malattia mortale: poiché Pendleton, sommamente frustrato dall’immobilità della propria carriera letteraria e ancor più dalla miseria della propria gloria, pressoché nulla, intuisce in circostanze estreme che solo una cosa potrà rendere eterno il suo nome: la morte, appunto, e pertanto si suicida. Essendo un fallito, non ci riesce e resta appeso a un filo di vita che lo tormenterà per decenni. Inane, tuttavia, vede la propria gloria crescere e i riconoscimenti fioccare dal momento in cui Adi Wiltshire, procace dottoranda celebre per qualità poco accademiche, riesuma un manoscritto che Pendleton aveva abilmente celato da anni a occhi indiscreti. Come mai tanto desiderio di nascondersi in un uomo che non mirava ad altro che all’immeritata diffusione del proprio nome? È perché la morte, amata non ricambiante nella prima parte del romanzo di Collins, diventa invece nella seconda ospite indesiderata: il manoscritto di Pendleton riproduce infatti in ogni ripugnante dettaglio la scabrosa morte di una ragazzina, sulla quale nessun investigatore è mai riuscito a gettar luce; particolare non trascurabile, il manoscritto di Pendleton era stato datato prima della scoperta del cadavere monco della fanciulla. Abbiamo dunque un caso giuridico morto e sepolto che viene riesumato; uno scrittore suicida che continua pervicacemente a vivere; un investigatore squilibrato che non si dà per vinto; una brama di immortalità letteraria, soprattutto, che si ritorce contro il proprio corteggiatore e lo consegna a un diverso tipo di imbalsamazione. Michael Collins riesce a concentrare in un solo romanzo motivi sufficienti per essere amato da diversi tipi di pubblico: la prima parte è un’arguta satira della pseudo-civiltà universitaria, dove “avere ragione è come pisciare controvento”; con la seconda parte inizia di fatto un romanzo diverso, vero e proprio pageturner, in cui il mistero via via si infittisce (pure troppo, per uno che non è un amante del genere e fatica a tenere il conto dei morti ammazzati e degli assassini incriminati); infine una terza parte più psicologica che racconta il progressivo deteriorarsi della bella Adi e risolve brillantemente il mistero in una maniera che nemmeno lontanamente potete immaginarvi.





L’immortalità è la ragion d’essere di Vite Straordinarie, la raccolta dei necrologi del Times curata da Ian Brunskill, che tale macabro esercizio coordina da tempo. L’Inghilterra è una nazione naturalmente versata nella catalogazione, e in fondo a ogni quotidiano o settimanale (be’, tranne Zoo, il rotocalco delle donne nude) c’è almeno una pagina dedicata all’elenco di morti freschi. Se il nudo elenco alfabetico è dedicato anche a compleanni e matrimoni, nei giornali broadsheet i necrologi vanno di là dalla catalogazione asettica in favore di dettagliati resoconti della vita che ha appena finito di respirare. L’obituary è diventato così un vero e proprio genere letterario a sé stante, che unisce la biografia al giudizio sulla vita stessa, non sempre lusinghiero né privo di umorismo; in particolare, i necrologi del Times sono ritenuti i più istituzionali, trattandosi di rigorose recensioni della vita vissuta. Riceverne uno è necessario, se la propria esistenza merita di essere ricordata; come corollario inverso, se uno muore e non viene incluso nel corposo elenco, solo il fatto di essere già morto può parzialmente consolarlo dall’esclusione.


Vite Straordinarie dimostra come il procedimento sotteso alla selezione sia rimasto sostanzialmente immutato dal 21 gennaio 1924 (morte di Lenin) al 2 aprile 2005 (partenza per il Paradiso di Giovanni Paolo II). Il criterio è la decantazione: il necrologio del Times riporta esclusivamente ciò che la Storia ricorderà di ciascuno nei secoli: e il maggior pregio è che ciò avviene a poche ore dalla morte. Di modo tale che ogni personaggio potenzialmente storico viene costantemente monitorato in vita, le sue azioni divise in utili e futili, buone e cattive; e alla fine il necrologio tira le somme alla stessa maniera in cui, ne I Buddenbrook, il piccolo Hanno traccia una riga sotto il proprio nome nel frondoso albero genealogico di famiglia. La linea è la morte, inevitabile; il necrologio che segue la linea è ciò che resta di ciò che è stato fatto, sia esso di pochi capoversi, come per Jimi Hendrix, o una specie di libricino a sé stante, come nel caso di Winston Churchill. La miglior caratteristica dei necrologi del Times è la lapide, ossia il sottotitolo che accompagna il nome e la data di morte di ciascun personaggio: le poche parole che, prima del necrologio esteso, spiegano in sintesi chi era, cos’ha fatto e perché vale la pena di ricordarlo in maniera tale che ogni cosa vada al proprio posto nel flusso continuo della Storia universale. Humphrey Bogart (14 gennaio 1957), “attore di grande autorità”; Franklin D. Roosvelt (12 aprile 1945), “quattro volte presidente degli Stati Uniti, al servizio della causa della libertà”; sir Stanley Mattews (23 febbraio 2000), “calciatore, la cui abilità nell’ingannare gli avversari entusiasmò la folla per decenni e gli valse il primo cavalierato nel mondo del calcio”; Albert Einstein (18 aprile 1955), “padre della fisica nucleare”; Andy Warhol (22 febbraio 1987), “sostenitore dell’arte in funzione della pubblicità e dei media”; Adolf Hitler (30 aprile 1945), “dittatore della Germania nazista, dodici anni di tirannia e violenza”.

Nella speranza di poterne vantare uno anch’io entro tempi ragionevoli (Antonio Gurrado (data ignota), “recensore reazionario e molestatore di ragazzine”), ho fatto un gioco per ammazzare il tempo: leggere di seguito, secondo un ordine cronologico, i necrologi degli scrittori via via ospitati dal Times. Se ne deduce innanzitutto che la letteratura garantisce una certa immortalità, poiché non sono pochi, secondi per categoria e per estensione delle biografie solamente agli uomini politici. Poi che la letteratura garantisce un’immortalità democratica, in cui Virginia Woolf (28 marzo 1941), “scrittrice di romanzi, saggi e critica letteraria”, riposa tranquillamente in pace al fianco di Barbara Cartland (21 maggio 2000), “la regina del romanzo rosa, e la scrittrice che ha venduto più copie al mondo; visse in un mondo tutto rosa di sua invenzione”. Infine, si apprende che la difformità della scrittura non solo conferisce a ognuno un’immortalità di genere differente – Gorge Bernard Shaw (2 novembre 1950), “un profeta del teatro” contro P.G. Wodehouse (14 febbraio 1975), “creatore di una terra incantata e senza tempo” – ma soprattutto che, per la composizione stessa dell’obituary, senza la scrittura quest’immortalità non sarebbe possibile, essendo i necrologi del Times passaporti per l’aldilà, racconti della vita di ciascuno, opera scritta e incancellabile dalla morte stessa.

venerdì 26 ottobre 2007

Appunti sulla decomposizione

Contrordine, compagni. Il titolo de il manifesto di oggi 26 ottobre 2007 dopo Cristo – “Come muore un italiano” – va inteso come riferito a Nicola Calipari in nessunissima maniera a Romano Prodi.

Diliberto ha ragione: lui sarà comunista ma mica è scemo. Questo lascia intendere che gli altri comunisti lo sono almeno un poco? Bertinotti, dal canto suo, è altrettanto comunista e altrettanto poco scemo; inoltre tifa per il Milan, e presumibilmente ha visto la partita di mercoledì sera nella quale, a beneficio dei distratti, ricordo che il Milan ha vinto 4-1 contro lo Shaktar Donetsk, una squadra che nonostante il suo nome esiste veramente, e che di conseguenza la stampa s’è esaltata a magnificare il ritorno in grande stile della stessa squadra che tre giorni prima aveva perso in casa con l’Empoli e che fra due giorni perderà in casa con la Roma. Io, esattamente come Bertinotti, ho visto la partita e mi sono reso conto che: per metà secondo tempo lo Shaktar ha fatto il tiro a segno, ragion per cui il portiere del Milan è stato il migliore in campo; lo Shaktar non aveva nulla che fosse assimilabile a una difesa, quindi il Milan avrebbe dovuto segnare comodamente non quattro ma quattordici goal; Oddo, pagato per essere terzino destro del Milan, ha abilmente giocato da ala sinistra dello Shaktar; Kakà ha sbagliato un paio di goal al minuto; Pirlo, che notoriamente sbaglia un passaggio all’anno, deve essere curiosamente stato convinto che i giocatori del Milan erano quelli con la maglia bianca, non con quella rossonera, e s’è tutt’al più limitato a battere per benino i calci d’angolo come se fosse un Beckham qualunque: in definitiva, se al posto dell’imbarazzante Shaktar (non a caso allenato dall’ex interista Lucescu) ci fosse stata un’altra squadra, ad esempio l’Empoli, il Milan avrebbe irrimediabilmente perduto. Quindi esultare per la vittoria sarebbe come se il Governo esultasse perché stanotte il Senato ha approvato il decreto fiscale, e Bertinotti lo sa benissimo.

La madre di Denise Pipitone si è incatenata al Quirinale, nonostante l’avvertimento dei commessi: “Guardi che ce n’è già uno incatenato a Palazzo Chigi.”

Romano Prodi ha ragione, come sempre. Lui è una persona seria, un fanciullino della politica, la sua candidatura è stata sostenuta da due milioni di persone che pur di votarlo hanno sborsato di tasca loro un euro almeno, ha girato l’Italia su un tir giallo, ha condotto la marcia trionfale che ha portato a una netta affermazione elettorale, ha festeggiato alle tre di notte gli exit poll delle tre del pomeriggio, ha creato un posto di lavoro per Padoa Schioppa, ha bloccato la pericolosa riforma costituzionale di Berlusconi che prevedeva la riduzione del numero dei parlamentari, ha creato un sistema fiscale più equo, ci ha fatto vincere il Mondiale, ci ha ridato credibilità internazionale sufficiente a farci levare cinque seggi all’europarlamento, ha inventato il Partito Democratico, ha biascicato frasi incomprensibili che hanno messo tutti d’accordo, ha tenuto la barra dritta, ha salvato la maggioranza, ha strigliato i dissidenti, ha sintetizzato quattrocento pagine in dodici capoversi, ha fatto proposte, ha minacciato di fare i nomi, ha dato ragione a Mastella, ha dato ragione a Di Pietro, ha lanciato ultimatum, ha parlato al Tg3, ha convocato vertici notturni, ha dato tutto sé stesso per quanto poco potesse essere. Se solo fosse Presidente del Consiglio gliela farebbe vedere lui, al Senato dispettoso.

Turigliatto, tu uccidi un uomo morto.

martedì 23 ottobre 2007

Elementare Watson

Dunque, noi vogliamo sapere:
per andare dove dobbiamo andare,
per dove dobbiamo andare?
Sa, è una semplice informazione.

(Totò)

Per prima cosa, non vi risparmio la battutaccia: il professor James Watson si è precipitato a smentire le proprie dichiarazioni riguardo all’inferiorità intellettuale dei neri, ma pochi giorni dopo il pilota Lewis Hamilton si è precipitato a confermarle.

Ora, io non ho vinto il Nobel nel 1962 né mai, e il massimo punto di contatto che ho avuto con Watson (e Creek) consiste, oltre che nell’essere dotato di regolare elica dna, nell’aver bevuto una birra – vabbe’, svariate birre – all’Eagle, il pub di Cambridge dove i due studiosi, più o meno alla mia età, si precipitarono a celebrare la loro scoperta epocale (da tutto questo precipitarsi si deduce che il professor Watson è piuttosto precipitoso). Però ho pensato a lui, anzi, mi sono sentito un po’ lui giovedì scorso, quando ho preso il pullman rosso che congiunge direttamente Milano (ma anche Modena, Torino, Parigi e Casablanca) con Gravina (ma anche Canosa, Minervino e Spinazzola). In primo luogo devo sottolineare che al mattino ero andato in agenzia viaggi per fare il biglietto e l’agentessa, all’atto stesso dell’emissione, persisteva nella convinzione che tale pullman rosso non esistesse, mais passons, si sa che da queste parti sono particolarmente restii ad arrendersi all’evidenza.

Il punto è che ho pensato a quali conclusioni avrebbe tratto il professor Watson prendendo assieme a me un pullman rosso carico di meridionali, bigliettaio e autista compresi. Quanto a me, ho dedotto che i meridionali si distinguono dai settentrionali per essere espressionisti, ossia per provare emozioni dilatate e comunicarle in maniera rutilante: così che il viaggio notturno da Milano a Gravina si trasformi come minimo in Sotto il Vulcano e in Paura e Delirio a Las Vegas. Il ritardo del pullman rosso, più o meno giustificabile, ha creato moti di terrore e raccapriccio caratterizzati da improperi di varia natura contro il pullman rosso e chi lo creò, repentinamente trasformati in disordinato entusiasmo e giubilo barocco al momento in cui il pullman rosso è apparso. Nonostante il pullman rosso recasse lampeggiante la dicitura Torino-Milano-Canosa-Minervino-Spinazzola-Gravina, all’autista sceso per raccogliere i bagagli è stato chiesto se il medesimo pullman andasse a Fasano, a Maglie, a Cergnola e perfino in Calabria. La raccomandazione del bigliettaio di non mangiare né fumare a bordo la dice lunga sulle abitudini di viaggio dei miei conterranei, perché – come notava Voltaire – non ci sarebbe stato bisogno che Mosè proibisse espressamente ai giudei di accoppiarsi con le capre (Levitico 18, 23) se nessuno di loro avesse prima o poi pensato di farlo. Un passeggere ha chiesto al bigliettaio se durante il tragitto sarebbe stato proiettato il film d’azione, e il bigliettaio ha reagito con spericolati giochi di parole sugli azionisti; al che il medesimo passeggere ha dichiarato che si sarebbe accontentato di un film erotico. La pingue signorina seduta di fianco a me parlava tramite due differenti cellulari con due differenti fidanzati.

Sul sedile davanti al mio, nel momento in cui il pullman rosso è partito un’anziana signora si è presentata con voce squillante all’anziana signora sedutale di fianco. In viale Campania avevamo appreso che suo marito era spirato fra atroci dolori. A San Giuliano si era ben delineata la composizione anagrafica della sua discendenza comprensiva di figli (tre) e nipoti (sette). All’imbocco dell’autostrada è stato stilato un calendario dettagliato dei suoi viaggi a Milano passati e futuri. Alle due di notte l’anziana signora continuava ininterrottamente a ripetere di non essere in grado di restare sveglia dopo le undici.

Se per la loro capacità mimetica o per la vostra confusione mentale, tuttavia, non foste in grado di capire al volo se i vostri compagni di viaggio siano o meno meridionali, il professor Watson potrebbe suggerirvi un metodo infallibile per scoprirlo: appostarvi in una stazione di servizio. Solitamente, il pullman rosso fa tre fermate. La prima è a un autogrill estremamente professionale alle colonne d’Ercole della Lombardia, con le porte girevoli che metteranno in seria difficoltà il viaggiatore meridionale, con i bagni talmente puliti da venir guardati con ragionevole sospetto e con i nomi magniloquenti dei menù alimentari pronunziati con perdurante scetticismo, prima e dopo del rilascio dello scontrino fiscale. Ciò nondimeno, il viaggiatore meridionale mangia ai quattro palmenti, incurante del fatto che non sia più ora di cena e che non sia ancora tempo di colazione, sprezzante dei due panini sbafati di soppiatto nel tragitto appena coperto alla faccia dell’avvertimento del bigliettaio, ignaro di aver pronunziato il nome turchesco del menù prefabbricato in maniera tale che solo il genio del cassiere ha potuto impedire che gli venisse servito tutt’altro, ad esempio un pacco-famiglia di cotton fioc.

La seconda fermata è in uno degli ammiccanti fast-food Fini nelle tarde Marche, dove la consueta affabilità degli inservienti e del cibo e dei bagni causa a buona parte dei viaggiatori meridionali un torpore tale che, a sosta finita da dieci minuti, il viaggiatore più meridionale di tutti risulti impossibile a rintracciarsi per il controllore mentre tutti gli altri sono già seduti ai propri posti, finché la moglie residua non lo vede tornare (il marito) e lo aggredisce (il controllore) perché non dà tempo (il controllore) nemmeno di prendere un cappuccino in santa pace (al marito).

La terza fermata è in una stazione di servizio garganica custodita al proprio interno da una statua di Padre Pio molto più grande dell’originale, dove finalmente il viaggiatore meridionale può sentirsi a casa propria e ordinare impunemente menù dai nomi truffaldini in maniera rassicurante (“Fatti Furbo”), accumulare la propria pipì su quelle già espresse da generazioni di viaggiatori meridionali prima di lui, comprare una quantità sorprendente di giocattoli ripugnanti, capaci di bloccare la crescita a un vampiro e presumibilmente non esistenti al di fuori della medesima stazione di servizio garganica, insultare in dialetto il barista solingo perché pur avendo due mani non riesce a servire quarantatre cappuccini contemporaneamente e ripartire lamentandosi del fatto che nel cornetto c’era troppa Nutella. Quando il pullman riparte, e la notte è già passata, il viaggiatore meridionale si addormenta infallibilmente e alle prime luci dell’alba si ode solo la voce dell’anziana signora che spiega alla sua anziana vicina di sedile che non riesce mai e poi mai a svegliarsi prima delle nove passate.

Infine il viaggiatore meridionale arriva a destinazione, alle sette e mezza del mattino; scende dal pullman rosso salutando l’autista, il bigliettaio e gli altri viaggiatori meridionali come se non desiderasse altro che rivederli in ogni giorno della sua vita, mette alfine piede a terra, ricupera dalla stiva il bagaglio che per le precedenti undici ore avrà dato per perduto e giura che un viaggio del genere non lo ripeterà mai più. La domenica sera lo sta rifacendo in senso inverso, da Gravina a Milano, sullo stesso pullman rosso.

mercoledì 17 ottobre 2007

La zia cinematografica

In the bleak midwinter, frosty wind made moan,
Earth stood hard as iron, water like a stone.

(Christina G. Rossetti)



Un curioso destino ha voluto che per ben due volte, a sei anni di distanza, mi ritrovassi a guardare LaCapaGira di Alessandro Piva nel bel mezzo dell’autunno pavese (con tanto di freddo improvviso e minaccioso: aveva ragione Veltroni, che appena lo eleggevano arrivava la nuova stagione). La curiosità della circostanza è data dal caso che il film è integralmente in dialetto barese, che io vengo dalla provincia di Bari, che all’uscita del film facevo l’università a Pavia, che in questi giorni sono tornato a Pavia per imprecisati motivi (e che domani sono costretto a tornare di volata nel barese a prendere dei vestiti invernali per colpa di Veltroni).


La prima volta mi era capitato di vederlo nella sala minore di un piccolo multisala; di là dal muro avrebbero dovuto dare non ricordo che gran film americano ma, data la sorprendente affluenza di baresi, parabaresi, baresologi e baresomani i gestori del cinema furono costretti a organizzare un’ulteriore proiezione ritardata di mezz’ora per contenere la furia omicida (e baroccamente dialettofona) di chi era rimasto fuori. È stato in quella circostanza che ho avuto la conferma che a Pavia i pavesi sono una sparuta minoranza, benché fastidiosa.


Ieri sera l’ho rivisto fra amici e, con la maggiore maturità conferitami dal dottorato di ricerca (non ha alcun senso, ma è sempre bello dirlo), ho tentato di spiegare agli astanti per lo più lombardi che si trattava di un film iperrealista, e che questo era il suo pregio principale. Innanzitutto per la lingua: scelta non banale in quanto il regista e suo fratello Andrea (sceneggiatore e recente autore di Apocalisse da Camera per Einaudi) non sono baresi, contrariamente a quanto si crede, ma salernitani; se non che Alessandro Piva ha fatto il liceo a Bari e s’è innamorato di questo dialetto (ché esso stesso non vuol essere chiamato lingua, scettico e understating com’è per istinto) nasale, bieco, cruento. Ridondante soprattutto: scandalizzatissimi i miei amici hanno appreso comparando l’audio ai sottotitoli che, su tre parole italiane, cinque in dialetto sono bestemmie di varia sorta.


Per la provenienza del regista e per la natura del pubblico nazionale, dunque, si tratta di un film in lingua straniera, che mi ricorda la presa di posizione di Samuel Beckett il quale di punto in bianco decise di scrivere in Francese invece che in Inglese all’esplicito scopo di non avere uno stile, o meglio, di non lasciare che la sua prosa geometricamente perfetta venisse contaminata dalle scorie della prosaccia inglese letta durante l’infanzia e l’adolescenza più o meno tarda. Il barese parlato ne LaCapaGira è il grado zero del dialetto, quello ideale che viene parlato da tutti e compreso da tutti, a Bari; soprattutto, spianta completamente nell’immaginario nordico il barese artefatto consegnato (suo malgrado) da Lino Banfi. Non si cambiano le a in e (etacismo?), ma si aspirano. Non si dilata la gola, ma il naso. Non esiste la locuzione narrativa “quel poliziotto”, ma “u cazz d’polizziott”.


Poiché come un romanzo la sceneggiatura di un film è composta soprattutto di parole, la pregnanza semantica de LaCapaGira è fondamentale riguardo allo svolgimento della trama. Quando si inventa un personaggio distante dall’esperienza dell’autore o da quello che si presume essere il pubblico medio (quando si adotta un personaggio vissuto in un’epoca differente, ad esempio, o quando i personaggi fanno parte del folto sottobosco della microcriminalità, come in questo caso) la questione dirimente è come farlo parlare. Se si sceglie di farlo parlare come l’autore o come il pubblico (nella speranza che autore e pubblico siano persone decenti), si può ottenere un buon impatto narrativo ma la cosa suona necessariamente fasulla ad orecchie appena non ingenue. Se si decide di farlo parlare in un gergo costruito, è molto probabile il fallimento, a meno di essere Carlo Emilio Gadda (cosa che nessuno ormai è più). La scelta obbligata, ma non per questo immediata, dei fratelli Piva è stata quella di dotare i criminali di un linguaggio oscuro (e incomprensibile al resto dell’Italia) ma saldo nelle fondamenta (in quanto realmente esistente e comprensibile entro un raggio ragionevole intorno a Bari vecchia).


Qui va lodata la seconda scelta geniale del film, ovvero di affidare la recitazione ad attori della multiforme fauna del teatro e della tv dialettali baresi: non solo Dino Abbrescia e Paolo Sassanelli che nel frattempo sono diventati famosi, e l’ottimo Dante Marmone ovviamente, ma anche il resto dell’Anonima GR, Nicola Pignataro, e perfino Mingo De Pasquale che fa una comparsata. Si tratta della punta di un iceberg composto da una notevole varietà (e qualità) di riconosciuto istrionismo locale, che rende tuttora certi orari di Telenorba o Teledue preferibili ai contemporanei palinsesti nazionali (con Mudù, Catene, l’Ariamara che hanno sostituito Teledurazzo, Il Polpo, Melensa). Il compito degli attori era quello di recitare incarnando quello che sarebbero stati se non avessero recitato (a pensarci, è una cosa difficilissima); le facce scavate, le tute di acetato, i surreali copricapo sono esattamente quello che si incontra passeggiando per Bari in un giorno qualsiasi. L’obiettivo del film era creare artificialmente una copia perfetta della realtà naturale, una specie di serra sociologica; riuscito.


Piva ha optato per una sorta di unità di tempo e luogo aristotelica: le vie degradate di Bari in un giorno di mezzo inverno, dalla tarda mattinata alla prima notte, costituiscono la cristallizzazione di un processo quotidiano che si presume ripetibile a oltranza: il pacchetto di roba viene lanciato dal treno, viene bene o male ricuperato, la cocaina viene tagliata e immessa sul mercato. Il film gioca sul dualismo fra la regola – questo diffuso benché poco edificante standard – e l’eccezione – il contrattempo ridicolo, il vizio del singolo, la sfera privata e così via. Lo iato e l’attrito fra questi due filoni creano uno scompenso che disorienta, che ingloba l’essenza stessa della microcriminalità, e che appunto crea il capogiro cui fa riferimento il titolo. Un amico, peraltro possessore e padrone incontrastato del dvd, ha specificato che si tratta di un topos valido a Bari come in ogni altro luogo, e come tale universalizzabile. Io non credo (anzi, non creeeed, come dice reiteratamente il personaggio di Dino Abbrescia), e ritengo che LaCapaGira sia un film fortemente barese non solo nel linguaggio ma anche nei temi e nei personaggi; come controprova adduco l’inquadratura delle nude strade di Bari, alle quali non è stato apportato nessun miglioramento o peggioramento, ma che sono state usate come setting già bell’e pronto all’aria aperta: cristallizzazione definitiva di questa realtà respingente e familiare al tempo stesso in cui, come nell'inno di Christina Rossetti, l’inverno rende ferro la terra e pietra l’acqua.



Questo sarebbe stato un discorso più che ragionevole; se non che io non capisco niente di cinema pertanto mi sono limitato a indicare la chiesa del Redentore e a specificare: Uagnùn, ca dè ddrejt stè la ka’s d’zian’m, ragazzi, lì dietro abita mia zia. È una soddisfazione che non si prova nemmeno guardando un kolossal.

lunedì 15 ottobre 2007

Appunti per il W-day after

Abbiamo le cifre definitive e incontestabili. Per le primarie del Partito Democratico hanno votato tre milioni trecentomila elettori, quattro milioni e seicentoventimila dei quali hanno votato per Veltroni. Per fare un raffronto, sabato scorso alla manifestazione di AN hanno partecipato novecentomila persone, che hanno sfilato fra i due Colossei di Roma insieme ad almeno cinque Michele Vittorie Brambille. Secondo gli ultimi sondaggi il 72% degli italiani è pregiudizialmente avverso al Governo, a cui si aggiunge un 64% che è avverso a ragion veduta. Di questi, settecentonove sostengono di essere sottosegretari a qualche cosa. È stato espresso diffuso apprezzamento per il progetto di ridurre i parlamentari a sette, limitando a novecentoquarantacinque i senatori a vita, che saranno nominati dai dodici Presidenti della Repubblica in carica al momento. Ieri sera il film tv La Baronessa di Carini è stato guardato da ventisei milioni di italiani. A Francavilla, un’automobilista russa, a bordo delle sue otto automobili, ha investito dodici famiglie che uscivano da centosessantaquattro locali. Il fumetto del signor Bonaventura festeggia i suoi primi settemila anni. L’Italia ha sconfitto la Georgia per nove a zero. Cécilia Sarkozy ha deciso di divorziare circa trenta volte da suo marito. L’Inter è in testa al campionato con centocinquanta punti di vantaggio sulla Juve e quattromila sulla Fiorentina. In Iraq sono stati rapiti otto preti cattolici e ne sono successivamente stati rilasciati sessantatre. Io sono almeno trecentonovantadue persone.

Tutti guardano a Veltroni, ma è curioso pensare come Gawronski abbia preso la stessa percentuale grazie alla quale l’Unione ha vinto le politiche del 2006. Svelato intanto il titolo del prossimo libro di Mario Adinolfi: Generazione Uno per mille.

A ben guardare, Veltroni aveva auspicato la candidatura nelle sue liste di Veronica Lario, moglie di Berlusconi. Enrico Letta è nipote di Gianni Letta, braccio destro di Berlusconi. Pier Giorgio Gawronski, quale che ne sia la grafia corretta, è figlio di Jas Gawronski, europarlamentare di Forza Italia e già portavoce di Berlusconi. Massimo D’Alema pubblica per Mondadori, che è di Berlusconi. Francesco Rutelli è sposato con Barbara Palombelli, editorialista del Tg5, che è di Berlusconi. È evidente che con il Partito Democratico si realizza alfine il sogno di Prodi; un incubo, presumo.

Parisi aveva promesso la massima trasparenza ai seggi, e infatti non l’ha visto nessuno.

Tuttavia rattrista dire che sono state segnalate alcune irregolarità. A Roma, Goffredo Bettini ha stabilito che si votava a peso. A Napoli, ci sono state file ai seggi fino a mercoledì prossimo. A Torino, qualcuno ha votato davvero per Gawronski. A Palermo, è stato considerato sedicenne chiunque fosse nato negli ultimi sedici anni. A Genova, le schede per votare Veltroni costavano un euro, tutte le altre ne costavano venticinque. A Firenze, una volta esaurite le schede, per risparmiare tempo sono state fotocopiate quelle già votate. A Bolzano, è stata sparsa la voce che fossero le primarie per la SPD. A Modena, che fossero le primarie per il PDS. A Milano, ha comunque vinto la CdL. A Bologna, nel seggio 46, è spuntata una scheda non votata con ben visibile la scritta PRODI nell’angolo a destra; adesso è caccia all’uomo.

Com’è come non è, il PD era nato da due ore e improvvisamente tutti i leader del centrodestra davano pieno appoggio retroattivo alla manifestazione di AN.

La massiccia partecipazione alle urne rafforza il Governo, sostiene la candidata Rosy Bindi, ministro del Governo (14% dei suffragi). È stata una festa di democrazia che premia l’operato del Governo, sostiene il candidato Enrico Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (10% dei suffragi). Il Governo è più forte, sostiene il prossimo ex Presidente del Consiglio Romano Prodi (0% dei suffragi). Intanto anche il centrodestra applaude al plebiscito che ha incoronato Walter Veltroni capo dell’opposizione.

Vei Veltro’! Le primarie sono vinte; ora ti mancano solamente il Nobel e l’Oscar, e poi farai la fine di Al Go’.

domenica 14 ottobre 2007

Appunti per il W-day

Uno può criticarli finché vuole ma una cosa bisogna riconoscere ai (post)comunisti: l’organizzazione capillare. Prima di truccare le elezioni vere fanno sempre le prove generali fra di loro.

Come in America il Partito Repubblicano è noto come GOP (Grand Old Party), così in Italia il Partito Democratico potrebbe fregiarsi di un acronimo difforme dal nome anagrafico: ad esempio il GBS party, ossia il partito dei generici buoni sentimenti. Ai quali non sono pregiudizialmente avverso, visto che di tanto in tanto (molto di rado) portano alle generiche buone idee; come quella di Goffredo Bettini, gran ciambellano del veltronismo applicato, il quale suggerisce di boicottare le Olimpiadi in Cina. La ragione per cui è giunto a questa saggia idea, ossia che la Cina appoggia e fomenta la dittatura birmana a grande scorno dei monaci buddisti, è indicativa dei futuri metodi del pensiero democratico. Appare evidente che, se la Cina si fosse limitata ad impedire che atleti, allenatori, massaggiatori, accompagnatori, giornalisti, tifosi e passanti portassero entro i patri confini simboli religiosi e reazionari quali Crocifissi e Bibbie, a Goffredo Bettini non gliene sarebbe potuto fregare di meno. Resta da chiarire se il Partito Democratico riterrà consolatoria l’eventualità che le partite di calcio delle prossime Olimpiadi vengano giocate con palloni cuciti da retrogradi sacerdoti protestanti appositamente condannati per smercio clandestino di testi sacri. Speriamo pertanto che la fine del mondo arrivi prima.

Ma è vero che Guglielmo Epifani, per distrarsi e non pensare troppo a ciò che attende governo e sindacati entro fine mese, cioè l’apocalisse, ha scritto la prefazione a Filosofia per Disoccupati di Jean-Louis Cianni? Io dal canto mio potrei agevolmente scrivere Disoccupati per Filosofia.

Come sempre, l’Unità sa qual che fa. Sbugiardata su La7 dall’ingenuo Staino, il quale racconta della sua vignetta che-non-è-stata-propriamente-censurata-ma-che-era-meglio-non-pubblicare-in-quanto-ritenuta-troppo-politicamente-violenta-date-le-circostanze-specifiche (quella per intenderci in cui la figlia chiede a Bobo: “Papà, ma tu voterai Veltroni per disciplina di partito?”, e Bobo risponde: “Ma che partito? Lo voterò per disciplina!”), oggi il quotidiano del Ministero per l’Informazione Sterilizzata corre ai ripari pubblicando in terza pagina, nell’ordine: la vignetta incriminata di Staino; un testo spavaldamente ritenuto satirico in cui Staino riproduce la pervicace argomentazione con la quale il direttore l’ha convinto che era meglio di no; un tristissimo abbozzo di meta-vignetta in cui la figlia stessa guarda la vignetta in questione e dice a Bobo: “Papà, ma questa vignetta fa schifo!”, e Bobo risponde: “Zitta, o mi diranno che anche mia figlia mi censura”. Per come la vedo io, censurare qualcosa e fingere di non averlo fatto è indegno, ma in politica questo e altro; costringere un autore a scrivere pubblicamente che il suo lavoro fa schifo è un po’ troppo sovietico, o se non altro poco democratico. Urge aggiornarsi.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha nuovamente espresso la propria preoccupazione riguardo al fenomeno delle morti sul lavoro, con particolare riferimento alla senatrice Rita Levi Montalcini.

Si dirà che un tempo erano Fronte Popolare, poi sono diventati Partito Comunista, poi sono stati Partito dei Democratici di Sinistra, poi genericamente Progressisti, poi sono diventati Democratici di Sinistra senza più partito, si sono ramificati nell’Ulivo, poi in Uniti per l’Ulivo, poi nell’Unione con l’Ulivo dentro, da oggi sono Partito Democratico senza più sinistra, domani chissà che altro. Il dato di fatto è che in data odierna viene definitivamente sancito, a plebiscito popolare, il compromesso storico che rende indistinguibili PCI e DC. Nel ricordare che per molto meno, durante il primo governo Prodi cioè dieci anni fa, venne giù il soffitto della Basilica di Assisi, non riesco a rassegnarmi all’idea che questo nuovo e indistinto avversario ma anche interlocutore mi privi del mio miglior nemico, i proteiformi DS, che (onore delle armi, scrivo senza un briciolo di ironia) avevano un pensiero coerente, una scuola politica, una storia identitaria, personalità di spicco e quel tantino di cattiveria che in politica non guasta mai. Alla stessa maniera non riesco a elaborare il lutto per Piero Fassino, segretario adamantino, talentuoso capo dell’opposizione, persona onesta, adeguata, consapevole. E che di conseguenza si ritrova senza incarichi nel governo né nel nuovo partito.

In definitiva l’unica cosa rossa che mi convince e mi piace oltremodo è la camicetta scollata di Alessandra Mussolini.

sabato 13 ottobre 2007

Vengo dopo il Piddì

Non sopporto i cori russi,
la musica finto-rock, la new-wave italiana,
il free-jazz-punk inglese.
Neanche la nera africana.
(Franco Battiato)


(“Scusi, scusi, vuole votare per le primarie del Partito Democratico?”
“Macchè, è un problema vostro.”)

La domenica, come ogni giorno meno santo, consta di ventiquattr’ore con la differenza che di domenica bisogna andare alla messa, pertanto ne restano ventitre. Poi, sinceramente, non vogliamo approfittarne per dormire un po’ di più, foss’anche se siamo abituati ad andare a letto con le galline (metaforicamente; anche se in internet circola di tutto quindi non mi stupirei altrimenti) dopo aver visto un po’ di tv già in posizione orizzontale, indipendentemente dalla febbre del sabato sera? Sottraiamo dunque altre otto ore di sonno, anzi, facciamo nove per maggior comodità, e ne restano quattordici. Che non sono mica tante: nella fattispecie, domani non c’è la serie A ma poco importa, il calciomane sa che si deve dedicare pari attenzione alla visione o all’ascolto delle partite di serie B, in particolar modo Frosinone-Bari e Modena-Cesena, ed ecco che le ore sono diventate dodici. Diventano dieci a seguito dell’obbligo di seguire l’irrinunciabile semifinale del mondiale di rugby, Sud Africa-Argentina, che capita una volta ogni quattro anni pertanto bisogna approfittarne. Dieci a voler abbondare, visto che non abbiamo tenuto presente né un abbondante colazione al bar (un’ora), né il tradizionale pranzo familiare (due ore) né la bieca pizza serale con gli amici (altre due ore). Le dieci ore vengono dimezzate a cinque. A questo punto le strade si dividono. Se si è sposati, se si hanno figli, è bene dedicare almeno un’ora alla prole e una alla moglie. Se non si è sposati, le due ore in questione vanno dedicate a qualche amichetta, se no quando al venerdì successivo ci si va a confessare si rischia di fare scena muta. Restano tre misere ore residue. Avrete un hobby, no? Magari per un’ora leggete un libro (io personalmente Le 120 giornate di Sodoma) e per un’altra ora ne scrivete uno (consiglio per gli ingenui: solitamente ci vuole più di un’ora a farlo, a meno che non siate Marco Travaglio). Oppure leggete il giornale, va’, o datevi al bricolage, riparate la vostra casa cadente, fate le pulizie, cambiate la lettiera al gatto, suonate ai citofoni degli sconosciuti e poi scappate, imbottitevi di Efferalgan che fa sempre bene, telefonate a persone che vi hanno dimenticato, fate la cacca, dite il rosario (non contemporaneamente), riscoprite vecchi maglioni ridicoli, lavate i piatti di giovedì scorso, chiedetevi perché siete al mondo e datevi una risposta che mi convinca, cercate su YouTube filmati di cui siete protagonisti a vostra insaputa, spargete la voce che non appena finite quello che state facendo (foss’anche il sindaco di Roma) andrete a far volontariato in Africa.

Resta un’ultima ora; ma spero vivamente che voi la impieghiate lavandovi con cura. Se ne deduce che per andare a votare alla primarie del Partito Democratico non è che ci sia tutto questo tempo; tanto più che, nel caso, buona parte delle ventiquattr’ore libere della domenica, pardon ventitre, andrebbero impiegate a cercare di capire chi cazz’è Mario Adinolfi.

(“Scusi, scusi, vuole votare per le primarie del Partito Democratico?”
“No, perché sono teocratico.”)

giovedì 11 ottobre 2007

Geografia comparata

Pavia, stazione di Pavia. È lunedì mattina presto, e a tela di ragno da un punto imprecisato della sala d’aspetto si dipartono la fila per la biglietteria manuale, la fila per la biglietteria automatica, la fila per il bar e quella per il giornalaio, in maniera tale che tutti i treni siano in orario e ciò nonostante tutti i viaggiatori siano in ritardo. Io ho un appuntamento a Milano alle dieci: sgomito, maledico e riesco a sistemarmi nella fila per la biglietteria automatica. Arriva il mio turno, seleziono il biglietto desiderato, inserisco il bancomat. La macchinetta automatica si inceppa e si riporta alla schermata iniziale espellendo con sdegno la mia tessera di sopravvivenza. Dietro di me, la folla mormora. Riprovo da capo e, allo stesso punto di prima, la macchinetta si inceppa e si riporta alla schermata iniziale dandomi tacitamente del terrone atavico. Dietro di me, la folla si agita. Un gentiluomo che deve parimenti andare a Milano si offre di fare due biglietti, uno per me e uno per lui, dietro pagamento di sei euri. Lo ringrazio e gli porgo una banconota da cinque euri. Cerco la residua moneta ma trovo solamente un’ulteriore banconota da cinquanta euri. Dico al gentiluomo di star lì e corro in edicola, mi sobbarco un’altra fila trepidando per l’orario del treno, pavento il ritardo colossale ma finalmente riesco a spuntare di fronte al giornalaio al quale chiedo una copia della Gazzetta dello Sport, lui la prende e me la porge, e il favore di cambiarmi la banconota da cinquanta euri. Lui dice di no, si riprende la Gazzetta e repentino mi volge le spalle. Lo ringrazio per la consueta gentilezza lombarda e vado a farmi cambiare i soldi al bar. Terza fila. Ne ottengo cinque banconote da dieci euri; torno in edicola, quarta fila, e schioppando di fronte al medesimo giornalaio gli chiedo se non gli è di troppo disturbo darmi in cambio di una banconota da dieci euri una copia della Gazzetta dello Sport e nove euri di resto in varia guisa. Il giornalaio esegue e grugnisce, o grugnisce ed esegue, in simultanea. Lo ringrazio per la sua squisita cortesia che rende onore a tutta la nazione, metto l’euro dovuto in mano al gentiluomo ormai cianotico per il ritardo accumulato e insieme prendiamo al volo il treno che, essendo arrivato in stazione prima delle otto del mattino, mi consentirà di percorrere trenta chilometri arrivando a Milano trenta secondi prima dell’appuntamento delle dieci dopo aver cambiato due bus, un tram e una navetta a caso.

Modena, stazione di Modena. È giovedì pomeriggio tardi, Pavarotti è morto da poche ore e il suo corpo ancora tiepido sta per essere adagiato in Duomo. Io scendo sfatto dall’intercity a pedali che mi ha portato lì da Bari, intento per otto ore a spiegare a tutti i variabili compagni di viaggio che sì, stavo indubbiamente andando a Modena, ma no, non per Pavarotti. Sono le sette meno cinque e prima di raggiungere il mio alloggio di fortuna faccio tuttavia capolino nell’edicola per chiedere se La Gazzetta di Modena e Il Resto del Carlino hanno pubblicato qualche speciale in morte del maestro. Il giornalaio mi dice che il Carlino ha fatto uno speciale allegato all’edizione pomeridiana. Gli chiedo di comprare una copia del Carlino, allora, e gli porgo un euro. Il giornalaio controlla l’orario, realizza che solo un folle comprerebbe un quotidiano cinque minuti prima della chiusura dell’edicola, e mi dice: “Ma va’, lo speciale glielo regalo”. Ringrazio l’edicolante, ripongo l’euro nel portafoglio, ficco lo speciale pavarottesco del Carlino nella tasca anteriore dell’enorme valigia che da più di un mese mi fa da casa portatile, esco dalla stazione e raggiungo il centro di Modena e con esso la felicità.

Gravina, stazione di Gravina. C’è un bar ma non ci sono i treni.

martedì 9 ottobre 2007

Tanto a poco

L'importante è perdere.
(Giorgio Manganelli)
Come per giocare a golf, per fare i critici letterari essere cretini non è necessario però aiuta. L’altro giorno leggevo che un professore dell’università di Manchester, invece di vergognarsi di insegnare all’università di Manchester, sproloquiava negando la patente di grande autore a Martin Amis perché questi si era macchiato di razzismo sostenendo che i mussulmani sono responsabili dell’attentato alle Torri Gemelle, e assurdità simili. Il critico, che per convenzione chiameremo professor Cacchetta, tutto tronfio spiega che la gloria letteraria può essere conseguita soltanto previo superamento dell’esame di politically correctness, e che quindi vada negata a un autore che parli leggermente male dei mussulmani, o che dica “negro” invece di “diversamente bianco”, o che lasci trasparire il sospetto che le femminucce siano tutte un po’ baldracche.
Parallelismo inconsulto: le prime pagine dei quotidiani nazionali, oggi, dedicano discreto spazio alla notizia che i pulcini dell’Inter hanno sconfitto i pari età del Pergocrema, poveracci, per 40 a 0. Corre voce che questi ragazzini prematuramente affetti da interismo avrebbero dovuto invece fermarsi a un certo punto (sul 36-0? sul 24-0? sul 10-0? sull’1-0?), e serpeggia il sospetto che così facendo abbiano invece bloccato lo sviluppo degli avversari. Lo sport ha il grande vantaggio di seguire criteri oggettivi, ovvero i punteggi, ma si ritiene più etico ammorbidirne l’oggettività quando i criteri diventano troppo crudeli; se uno poco poco si accorge di star vincendo, e quindi di essere superiore, non sta bene che ribadisca quaranta volte la propria superiorità. Ne basterebbero un paio. Ma in assoluto sarebbe meglio pareggiare.
Il professor Cacchetta e i più strenui difensori del Pergocrema (difensori teorici, ché i difensori veri e propri a quanto ho capito non si sono impegnati gran che) hanno in comune la vocazione alla sconfitta, o meglio il desiderio di stare sempre dalla parte del più debole, vezzeggiandolo e coccolandolo fino alla negazione dell’evidenza dei dati oggettivi (ossia che i mussulmani hanno qualcosa a che vedere con l’11 settembre, e che una squadra che perde 40-0 evidentemente merita di perdere 40-0). Da Pergocrema, vari disfattomani negano l’essenza del calcio; da Manchester, il professor Cacchetta nega l’essenza stessa della letteratura e in particolare di quella umoristica alla quale Martin Amis appartiene per gene ereditario (è figlio di Kingsley Amis). Il professor Cacchetta sogna un mondo di grandi scrittori tutti intenti a ricamare buoni sentimenti, tutti intenti a elogiare la superiorità del diverso e ad applaudire gli errori altrui. Un mondo letterario in cui non si spenda una sola parola contro i mussulmani, in cui le donne non siano toccate nemmeno con un fiore, in cui vengano esposte solo le idee politiche giuste e accettabili. Una letteratura in cui non ci sia una sola parola fuori posto, in cui nessuno possa sentirsi superiore a un altro e che possa incontrare il plauso unanime dell’umanità tutta: ovvero una noia mortale. È il criterio col quale di solito viene assegnato il Nobel, peraltro.

giovedì 4 ottobre 2007

Il gran lombardo

(Gurrado per Ore Piccole)

Si possono paragonare i romanzi alle pietanze? Probabilmente no, ma in ogni modo Il Diavolo Custode di Luigi Balocchi, inteso Luis Balocch, è indubitabilmente una cassoeula. Lo lascia presagire la casa editrice, Meridiano Zero, quando nel risvolto parla di scrittura tanto “inedita, intensa, travolgente” che per decenza viene paragonata a un fiume in piena – ma chi la conosce sa che più di esso la cassoeula è travolgente, intensa e, se si è nati sotto il muro di Ancona, decisamente inedita; lo dice esplicitamente l’autore stesso, nell’apparentemente inutile digressione culinaria che apre il diciassettesimo capitolo, dersèt secondo la numerazione longobarda, che al lettore scaltro appare invece rivelatrice. La zuppa, spiega Balocchi, “s’abbandonava all’apocalisse delle gengive rosse fuoco sguainate (…) con suprema voluttà di mestoli di verze, sellero, cotica e fagioli. E di burro. (…) Che benediceva i molti grugni a picco sui piatti, laddove fumi succulenti andavano a mischiarsi con il puzzo delle pipe schioppettanti, dei toscani raccattati per la strada, della carta di giornale tormentata da salive corrosive. Del dialetto.” Né il riferimento caudato all’affastellamento dialettale è fantasioso, stante che quest’apocalisse culinaria avviene “come solo noi lombardi sappiamo fare”, a sancire la perfetta corrispondenza fra il piatto e il libro, fra romanzo e pietanza, lingua e digestione.

Per capire l’esordio narrativo di Balocchi bisogna partire dalla cassoeula e tener presente la gran tradizione barocca lombardografa, il Gadda senz’altro, forse ancor di più Manganelli. Bisogna altrettanto, nel leggere la storia del famigerato bandito d’inizio secolo scorso, Sante Pollastro, risolutamente dimenticare De Gregori, al quale tuttavia Balocchi ruba il titolo del tredicesimo capitolo (tredes), discograficamente chiamato Il bandito e il campione. Qui finiscono le analogie e amen. L’amicizia fra Pollastro (che De Gregori canta eufonicamente Pollastri) e Girardengo, motore della canzone di De Gregori, in Balocchi rimane sullo sfondo. Il manigoldo che le tre o quattro strofe di De Gregori necessariamente riducono a macchietta, in Balocchi diventa il centro di tutto un mondo: mondo di ladri, ovviamente, mondo di miasmi nordoccidentali, ma soprattutto mondo linguistico. E, per quanto Pollastro sia piemontese, la sua lingua ha zavorra lombarda, grazie all’autore Balocchi che al confine fra queste due terre vive, nel pavese, a Mortara.

Lombardissima è la numerazione dei capitoli, da vùn a vint. Ma fin qui, ordinaria amministrazione. Vieppiù longobarda è la scelta semantica, e anch’essa benché pregevole può rientrare nel già visto (anche ad altre latitudini: il Camilleri siculòfono, il Raffaele Nigro basentòfono, etc.). Ora, più lombarda di tutte è la sillabazione, la scansione ritmica del testo parola per parola, fonema per fonema. L’ho intuito in viaggio (esprimendo un po’ di perplessità leggendo del treno che per Balocchi va “come un colpo di cannone dritto in culo al paradiso” mentre la femminea voce metallica dell’Intercity al ralenty mi informava internazionalmente che in pochi minuti, in a few minutes, il treno arriverà, the train will stop, alla stazione di Molfetta, in Molfetta station); l’ho compreso appieno una volta arrivato a Pavia, pochi chilometri distante dalla casa di Balocchi, e sentendo la gente parlare con la stessa scansione ritmica, con la stessa sillabazione appunto, del libro su Sante Pollastro. Allora ho capito perché il romanzo funzionava.

Va premesso che in tempi postmoderni prosa e poesia si distinguono per la metrica: nel senso che la poesia non ce l’ha più, l’ha perduta nei gorghi di sciacquoni sperimentali che l’hanno trasformata in prosaccia con punteggiatura e capoversi a capocchia; così che la prosa, per difendersi dall’attacco sconclusionato della sua bieca rivale, ha progressivamente dovuto mettere in bella mostra la metrica interiore che nei secoli aveva scandito il fluire dei rètori, le spirali mariniane, la geometria manzoniana, le volute dannunziane, i barocchismi gurradeschi (sono neoparnassiano, io). Consente questa metrica nascosta di propendere per un termine piuttosto che un altro a parità di significato, contando le sillabe, misurandone gli effetti, stupendosi ogni volta nello scoprire come due o tre lettere in più o in meno (o messe prima, o spostate dopo) rendano illeggibile un pezzo altrimenti decente. È quello che i poeti – quasi tutti – hanno smesso di fare e che i cattivi prosatori non impareranno mai.

Sul fondo dell’esordio di Balocchi si sente distinto il clangore militaresco dell’ottonario longobardo. Facciamo un esempio: il primo capitolo conta cinque pagine soltanto? E gli ottonari abbondano in tromba, ben più di quanti un poeta medio sarebbe in grado di trovare per l’immortalità del suo poemetto: “Quattro amici e in mezzo lui”; “Serra il ghigno il bel Santéin. / Tace il fiato. Si fa sera”; “Già che il treno è ormai passato. / E ti restano i lampioni. / Quegli stessi che han rubato”; “I lampioni infissi al cielo”; “Ma il Santéin ha l’occhio sveglio”; “Per la grande apparizione / nel tremendo della vita”. Ed è solo la prima pagina, che ricalca passo passo la parlata dei lombardi che scandiscono il dialetto dividendolo per otto; e che tira dritta fino all’ottonario principe, il padre di tutti gli ottonari di Balocchi, il nome completo e anagraficamente cristallizzato del protagonista che presta la voce, il fiato e il ritmo al romanzo che lo canonizza: “Sante Decimo Pollastro”.

Il lettore lì per lì non ci fa caso, poi si rende conto che la prosa fila troppo liscia, e si corruccia all’idea vaga che ci sia da qualche parte un leitmotiv che gli sfugge. Poi ritrova la cadenza, intervallata per amor di lunghezza da periodare di più ampio respiro; conta le sillabe e sono otto; passa oltre, riconta le sillabe e sono otto; intuisce come questo ritmo lombardeggiante sia il burro, il collante che trionfa nella cassoeula narrativa di Balocchi; stupisce, ammirato, si guarda intorno e comunica la propria meraviglia ai vicini di scompartimento, indifferenti, consapevole lui di star leggendo prosa di solida pignatta, molto più nutriente e gustosa di tanta poesia nouvelle cuisine. I vicini di scompartimento lo prendono per matto, ma pazienza.