martedì 6 novembre 2007

La tuta e la camicia

Ho rivisto Il Caimano e poi è morto Nils Liedholm. Messa così, mi rendo conto che l’interrelazione fra le due faccende suoni un po’ cruda e lasci a desiderare, ma posso assicurare che mi hanno creato in mente un corto circuito che tenterò di rendere più chiaro.


Sabato sera mi ero sistemato con tutta la buona intenzione a guardare Milan-Torino su Sky Sport 1, confortato e anzi illuso dalla roboante goleada a casa della Sampdoria, non più di tre giorni prima; se non che progressivamente vinto dalla noia, dalla stanchezza, dalla depressione, dalla disperazione e dall’angoscia che inevitabili montano a ogni partita casalinga del Milan in campionato, prima ancora dell’intervallo ho voluto tradire e cambiare canale: trovando infine requie su Sky Cinema Mania dove a sorpresa mi è apparso Elio De Capitani sommerso dalle banconote esplose da una valigia precipitata da chissà dove. Allora mi son detto: il Milan farà 0-0 per l’ennesima volta (come volevasi dimostrare), tanto vale concedersi una seconda visione cinematografica; a maggior ragione considerato che la prima visione coincideva con l’uscita del film, e che l’uscita del film coincideva con la campagna elettorale. La riduzione dallo schermo grande a quello piccolo, la maggior comodità della poltrona, l’assenza di elementi di disturbo esterno (volgarmente noti quale pubblico pagante) e la prospettiva politica radicalmente mutata erano elementi sufficienti a trasformare la propaganda in critica e la cronaca in storiografia.


Senza più le elezioni di mezzo, emerge più chiaro che la peggior cosa che Nanni Moretti rimprovera a Berlusconi è non tanto il valigione di cui sopra quanto l’atteggiamento perennemente vittorioso; più volte torna la sentenza che “i pessimisti non hanno mai concluso niente”, più volte si rimarca l’attenzione di Berlusconi per il succo, il concreto, il profitto a fronte dei romantici fronzoli; e, soprattutto, nella scena finale Moretti raffigura un Berlusconi trionfante anche nel momento della più atroce sconfitta. Tutta invidia, si dirà; non mi esprimo, ma rimarco come queste caratteristiche siano state la principale innovazione apportata dal ciclonico Berlusconi nel mansueto Milan di metà anni ottanta.


Il mio affacciarsi sul calcio è temporalmente coinciso con l’inizio di Berlusconi; che ha al contempo segnato, benché non drasticamente, la fine di Nils Liedholm. Ripassando la storia, questi ha fatto posto dapprima a Capello, che ha ricuperato una stagione storta vincendo lo spareggio finale per andare almeno in Coppa UEFA; quindi a Sacchi, che ha vinto uno scudetto, due Coppe dei Campioni e numerose varie ed eventuali; quindi ancora a Capello, che ha vinto quattro scudetti e una Coppa dei Campioni; quindi, fatto salvo un passaggio a vuoto che ha comunque fruttato lo scudettino di Zaccheroni a fine secolo, è stato il turno di Ancelotti che finora ha vinto uno scudetto, una Coppa Italia e due Coppe dei Campioni.


Liedholm niente di tutto ciò, anche se il suo unico scudetto rossonero, nel 1979, pesa più di tutti gli altri perché ha garantito la stella cumulativa della decina, che tuttora dà lustro alla maglia più del patetico ovale europeo sistemato sulla mezza manica. Già solo a guardare una foto risalente al 1986 - che ritrae Berlusconi appena arrivato, in camicia al contempo impeccabile e sportiva, di fianco a Liedholm con la bislacca tuta di acetato bianco-rosso-nera e in testa l’improponibile berretto a fungo per ripararsi dal sole - appare lampante che le due strade erano destinate a divergere da subito. Pensate oggi ai completi Dolce e Gabbana, invero un po’ da magnaccia, coi quali è costretto a vestirsi Ancelotti per ogni santa partita.


Eppure non ritengo fasulla una briciola del rimpianto espresso da Berlusconi per la morte di Liedholm, ieri, per due motivi. Il primo, immediato, è che Liedholm calciatore è stato il simbolo di un Milan in bianco e nero a strisce larghe e reti gonfie, una squadra capace di segnare 118 goal in un solo campionato, espressione di un tempo in cui era normale che il derby finisse 5-4 o Milan-Juve 7-1. Il secondo, inconscio, è che Liedholm allenatore è stato lo zenit iniziale di un decennio milanista a strisce strette e vacche magre, coi primi tentativi di sponsor (Olio Cuore; Mondadori; Fotorex U-Bix) sotto la stella troppo piccola e il colletto nero a V, negli anni in cui vinceva sempre la Juventus avvocatesca e noialtri rotolavamo una volta di troppo in serie B.


Insomma, va’ a vedere che Berlusconi rimpiange un tempo andato in cui lui non c’era ancora e la squadra galleggiava a vista; l’epoca povera in cui non si giocava ogni anno in Champions League ma già un posticino UEFA era cosa buona e giusta (nonché nostro dovere e fonte di salvezza); i beati giorni della sconfitta senza remore e della mediocrità dorata, quando la vittoria non era ancora diventata un marchio di fabbrica a Milanello come ad Arcore, a Cologno Monzese e a Palazzo Grazioli.


Uno ci pensa su due minuti, gli scappa la lacrimuccia nostalgica, poi realizza che nonostante le severe critiche di Nanni Moretti è sempre meglio vincere, a calcio e alle elezioni.

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