giovedì 31 gennaio 2008

Chiedete a Gurrado

[Pubblico l'intervista concessa qualche settimana fa al webmagazine Graphomania della casa editrice Graphe, e pubblicata ieri nell'aggiornamento quindicinale del webmagazine - dove potrete leggere le medesime parole ma altresì godere della visione della fotografia di un Gurrado con barba, camicia lunga e copiose tracce di sangria nelle vene.]

- Parlaci un po’ del blog. Quando è nato e per quale motivo hai deciso di aprirlo?

Ci sono due risposte uguali e contrarie. La prima riguarda la mia attività come blogger in generale, che è iniziata nel febbraio 2004 senza altro preciso motivo che non fosse il ritrovarmi un pomeriggio libero (uno dei tanti) e che a Napoli, dove vivevo in quel periodo, stesse piovendo una volta tanto. Di modo tale che avevo aperto un blog su Splinder, che fra alterne vicende è stato attivo fino al febbraio 2007 e sul quale inserivo a varia scadenza ciò che viene inserito sulla pressoché totalità degli altri blog, ossia un ingente quantitativo di sciocchezze autoreferenziali.

La seconda risposta potrebbe raccontare che il 9 dicembre 2005, come inconsapevole regalo di compleanno, il giovane scrittore Gabriele Dadati mi aveva chiesto di entrare a far parte del team di Ore Piccole, che avrebbe iniziato la propria attività col nuovo anno; avevo accettato e il 9 gennaio 2006 ho scritto la mia prima recensione, Ian McEwan e il male domestico. Dal gradimento ricevuto ho tentato di sviluppare uno stile personale di recensire libri di ogni genere ordine e misura, così che l’amica Michela Murgia si è spinta fino ad asserire pubblicamente e testualmente che mi leggerebbe anche se facessi la recensione delle etichette dello shampoo che trovo in bagno – punto estremo fino al quale tuttavia non mi sono ancora spinto. Col passare del tempo, infatti, ho seguitato con le mie recensioni su Ore Piccole (l’ultima, Critica della ragion tonda, a un corposo saggio del filosofo tedesco Peter Sloterdijk) nonché su qualche rivista a stampa (in particolare Stilos, quando esisteva ancora); su invito del critico letterario Michele Trecca ho preso anche a collaborare al webmagazine letterario Books Brothers, per il quale da quest’anno curo la rubrica Tutti i libri che non ho letto; dopo che Carlo Tecce mi aveva chiamato a scrivere di calcio per Il Resto del Pallone, una volta che questo sito è passato a miglior vita mi sono evoluto e, grazie all’attenzione di Gino Cervi, sono passato a Quasi Rete/Em Bycicleta, blog poetico e nostalgico della Gazzetta dello Sport.

Poiché la carne al fuoco non manca, per organizzarla e renderla facilmente fruibile ho repentinamente ucciso il blog su Splinder e dato alla luce Scribacchiature su Blogspot, nel quale come da sottotitolo mi ripropongo di raccontare sempre e recensire tutto. Su questo sito, visitato soprattutto da mia madre all’esclusivo scopo di rintracciarvi refusi e anacoluti, non solo raccolgo i miei interventi sparsi in giro per vari webmagazine, ma inserisco una notevole quantità di miei testi capricciosi sugli argomenti più disparati: non solo libri (tag auto da fé) e sport (selvaggio e sentimentale), ma in particolare politica (radio londra), religione (abba abba), tv (la scatola nera), personaggi (dramatis personae) e luoghi (nomi cose città); l’ultimo esperimento, in ordine di tempo, è un’esplorazione delle scuole superiori italiane (lo stato dei licei) grazie alla valida collaborazione di una signorina la cui effettiva esistenza è tuttora incerta. Spero con questo di avere esaurientemente dimostrato che sul mio attuale (e definitivo) blog pubblico ancora delle sciocchezze autoreferenziali, però decisamente più sofisticate.

- Nel 2001 hai pubblicato “Il Gatto che si morde la coda”. Raccontaci qual è stato il percorso dalla stesura alla pubblicazione.

Ecco, brava. La mia preoccupante verbosità riguardo alla mia attività di scrittore per il web denunzia un’evidente disagio per l’assenza della carta stampata come supporto delle mie parole. Quest’instabilità nasce da due motivi precisi. Il primo è che sono conservatore e reazionario fin quasi alla caricatura, tanto che su internet avanzerei lo stesso giudizio che i migliori fra i borbonici riservavano a Garibaldi: è il demonio, ma per fortuna non esiste veramente. Nel senso che non ritengo quelle su internet delle effettive pubblicazioni, non solo per l’assenza della carta che ha sempre un suo fascino ma anche – tanto per dirne una – per l’impossibilità di selezionare il pubblico, cosa che invece un libro o una rivista, per la sua stessa forma chiusa, fa automaticamente. Per questo al momento mi trattengo su internet solo ed esclusivamente in attesa di tempi migliori, cartacei, rilegati.

Il secondo motivo è che io nasco come scrittore di carta. Quando facevo il liceo, alla fine dello scorso millennio, internet non aveva ancora attecchito e già soltanto avere il computer era una benedizione tale da procurarsi in casa l’incontrollato afflusso di amici che non ce l’avevano. Io, ad esempio, non ce l’avevo; così che quando ho sentito l’istinto a scrivere narrativa – molto presto, intorno ai 14 anni – giocoforza ho dovuto produrmi su dei quaderni a quadretti, così da sviluppare un rapporto viscerale con la materialità della scrittura. Insomma, dal 1995 io scrivo per essere pubblicato; e, per quanto fortunatamente i quaderni che raccolgono i miei primi esperimenti narrativi siano stati smarriti e vaghino nell’oblio più meritato (oltre che nell’illeggibilità, vista la mia grafia contorta), ha avuto miglior fortuna il romanzo in cui faccio una parodia dei diversi stili della scrittura autobiografica degli adolescenti e mia in particolare. Ora, sia chiaro: Il Gatto che si morde la coda (Schena, 2001) è un romanzo ingenuo, composto in un carattere estremamente minuto che garantisce tuttavia, al lettore che avrà l’ardimento di rovinarcisi gli occhi, la viva soddisfazione di scoprirvi un barocco ammontare di errori di stampa. Più che il suo contenuto, amo la sua storia editoriale: poiché la sua esistenza (e di conseguenza il mio esordio come scrittore, e tutto ciò che ne è conseguito finora e oltre) è dovuta alla mia reiterata partecipazione al Premio Nazionale di Narrativa “Valerio Gentile”, che mette in palio appunto la pubblicazione dell’opera vincitrice con l’editore Schena. Al premio Gentile devo moltissimo, e non solo per questo lo ritengo un’iniziativa lodevole in assoluto per dedizione e qualità; da qualche anno il premio è riservato ad esordienti under 30 e io sono stato inserito nella giuria – per cui ne approfitto per ricordare che per il 2008 la scadenza è prevista per il 14 marzo e che chi vorrà spedire il proprio manoscritto avrà l’onore di venire giudicato (anche) da me, nientemeno.

- Tra i due romanzi, pubblicati (e quindi stesi?) a quattro anni di distanza l'uno dall'altro, come è cambiato e cresciuto Antonio come autore?

Mi sono sviluppato soprattutto nella maniacale ricerca della parola giusta e del ritmo della frase: non ho mai sopportato la poesia contemporanea (né tampoco i poeti ancora vivi) che mettono da parte la metrica e tutti gli altri necessari paletti compositivi e sostengono che non siano più necessari al solo scopo di giustificare la propria imperizia stilistica. Incapace di essere tanto incapace, vado orgoglioso di produrre prosa fluente e corposa, che serbi fra le proprie righe una metrica interiore utile a distinguere – spero – il ben scritto dallo scritto malaccio. Il mio secondo romanzo, 2 5 98, di là da un titolo pressoché incomprensibile (a chi non si accorga che è una data) presenta i frutti di questo sviluppo: ho ripreso infatti il nucleo narrativo de Il Gatto, l’ho guardato in trasparenza, capovolto, smontato e rimesso insieme pezzo per pezzo fino a produrre un romanzo completamente nuovo: in cui i personaggi e la trama sostanzialmente coincidano, ma mutino radicalmente la diegesi e il taglio narrativo, nonché il tempo del racconto che da cinque interi anni viene ridotto a poche ore. Per divertirmi, ho immaginato una voce narrante onnisciente che potesse planare – quasi cinematograficamente – su un congruo numero di luoghi diversi nel corso della stessa giornata, e che per adattarsi a momenti e personaggi cambiasse di volta in volta il proprio timbro adottando uno stile narrativo differente a seconda dell’occasione (un po’ come ci si cambia d’abito a seconda della circostanza); con l’eccezione del lungo episodio centrale, ambientato a mezzanotte, che prevede la partecipazione fugace di tutti i personaggi e – di conseguenza – il repentino mutamento di timbro e stile della voce narrante, esattamente come accade quando si segue alla radio Tutto il Calcio Minuto per Minuto. È stato un esperimento curioso, coi suoi pregi; ovviamente oggi non lo rifarei più.

- Calcolando che le tue pubblicazioni sono a scadenza olimpica e che quindi non puoi lasciarci senza nulla da leggere per il prossimo anno, hai qualcosa nel cassetto per il 2009?

Dirò di più: come 2 5 98 era stato scritto nel corso della stesura della tesi di laurea (Voltaire e gli ebrei, vi risparmio i dettagli), così non ho potuto trattenermi dal comporre un altro romanzo nei tre anni che ho dedicato alla tesi di dottorato (Teocrazia e monarchia ebraiche: Voltaire fra religione e politica; vi risparmio gli ulteriori dettagli). Si tratta di quello che una mia amica inglese ha generosamente definito “the Great Italian Novel”, il Grande Romanzo Italiano – tanto che sotto questo titolo camuffo è stato noto ai pochissimi amici e addetti ai lavori che ne hanno via via seguito le fasi compositive per curiosità o compassione; non dico di più poiché parlo soltanto dei libri che esistono, e i libri esistono soltanto una volta pubblicati. È tuttavia stata una faticaccia, trattandosi del mio primo tentativo di romanzo lungo (intorno alle quattrocento pagine) e avendolo scritto e riscritto dal giugno 2004 all’agosto 2007; d’altra parte, come tutte le faticacce, molto probabilmente non verrà ricompensata adeguatamente. Tanto più che ritengo di non dover darmi fretta e preferirei attendere chissà quanto fino al momento in cui verrà notato da una qualche casa editrice di peso (al momento, alcune lo stanno leggendo); se per un motivo o per l’altro non verrà notato, pazienza: non me l’ha ordinato il dottore né di scrivere né di pubblicare, e – qualora non attecchisse – riterrei patetico tentare all’infinito di pubblicarlo con case editrici sempre più piccole, o peggio ancora di provare a scrivere qualcosa di nuovo per riparare all’insuccesso segreto del vecchio. Allora potrei, sapendo di aver dato il massimo che potevo, senza troppi rimpianti evitare di scrivere oltre e soprattutto non essere più costretto a leggere ogni cosa per migliorarmi sempre un poco; tornerei libero e felice, e non invidierei più gli scrittori di maggior successo ma, non potendo disimparare a leggere, solo e soltanto gli analfabeti.

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