venerdì 29 febbraio 2008

Moby Dick e la curva

(Gurrado per Quasi Rete/Em Bycicleta)


La distinzione fondamentale riguardo a Tifare Contro, il libro di Giovanni Francesio appena edito da Sperling & Kupfer, si trova nel sottotitolo: una storia degli ultras italiani. L’articolo indeterminativo – una – si contrappone recisamente alla pletora di storie universalistiche e di discorsi saputi che vengono tirate fuori ogni volta che, ultimamente troppo spesso, intorno a uno stadio si verificano guerriglie; si contrappone insomma a una televisione e a un giornalismo necessariamente schiavi dei limiti di spazio e di tempo e di prevedibilità, e come tali costretti a dare spazio ridondante alla cronaca in sé e a sintetizzare l’approfondimento secondo formule precotte che non disturbino il tranquillo dormicchiare dello spettatore, o del lettore. A queste simultanee spettacolarizzazione dei fatti e sterilizzazione delle idee Giovanni Francesio risponde con un libro sintetico, coraggioso, che si legge d’un fiato e che per fortuna non lascia tutti d’accordo.

Tifare Contro è una storia del tifo organizzato in Italia, coi suoi aspetti più violenti, e come tale si colloca a mezza strada fra l’inchiesta (non c’è mezza intervista, non c’è mezza notizia nuova, il tutto per serena e consapevole ammissione dell’autore), l’autobiografia (Francesio era un ultrà, ma non c’è nessun richiamo personalistico a singoli episodi vissuti), la mera cronaca e il saggio scientifico (dal quale si distingue in quanto le note a pie’ di pagina ci sono, ma non sono la parte più interessante del volume). Piuttosto si direbbe che Francesio segua un suo proprio ragionamento, e che per supportarlo chiami a testimonio una serie di eventi narrati in ordine cronologico che possano alfine confluire tutti nella dimostrazione di una tesi.

Il grande vantaggio di Tifare Contro è che non è un instant book. Per quanto pubblicato subito dopo la fine dell’anno orribile che ha visto morire Filippo Raciti e Gabriele Sandri per motivi uguali e antitetici, Tifare Contro raccoglie materiale che aveva già visto la luce qualche tempo fa su queste stesse pagine virtuali em bycicleta. Non è pertanto una dimostrazione a posteriori, mossa dall’emozione o dall’indignazione o dall’esasperazione a fronte del precipitare degli eventi; è piuttosto un lucido, razionale (e come tale discutibile, ma onesto) excursus in cui sono i fatti a confermare le idee, o a smentirle. Non è una pappa pronta – uno di quei coccodrilli precotti, frettolosamente dati alle stampe non appena l’occasione lo permette – ma un costernato arrovellarsi sul problema (nelle parole di Henry James, a prolonged hovering over the case exposed) da parte di un uomo che ama il tifo, ama la vita, e vorrebbe preservare entrambi.

Se dovessi svelare qui il ragionamento di Francesio, probabilmente gli farei un torto, magari deturperei i contenuti del libro o li traviserei. Però, da persona che non va mai allo stadio (per disprezzo dei luoghi troppo affollati, così come non vado praticamente mai al cinema o in discoteca o ai matrimoni o alla messa di mezzanotte a Natale), ho combattuto contro le tesi di Francesio una battaglia dagli esiti alterni: alle volte mi sono dato ragione da solo, altre invece ho dovuto riconoscere che non solo il torto era dalla mia parte ma che l’esperienza diretta dell’autore mi mostrava dati di fatto che io non avrei mai potuto prendere in considerazione – meramente per ignoranza.

Il maggior pregio di Tifare Contro è che, a discapito del titolo, non si tratta di un libro fazioso: o meglio, una volta appurata l’identità orgogliosa dell’autore, il quale ha vissuto in curva senza che ciò gli fagocitasse il ben dell’intelletto, il maggior pregio del libro è nel suo onesto essere di parte, e di porsi non come verità definitiva ma come piattaforma consapevole per un dialogo possibile. La rinunzia alla sistematicità, se non nella precisa ricostruzione storico-cronachistica degli eventi che congiungono la fondazione del primo gruppo ultras nel 1968 ai casi Raciti e Sandri nel 2007, si basa sulla dichiarata cognizione che “il mondo ultras è un mondo ambiguo, schizofrenico, multiforme e imprevedibile perché in perenne contraddizione con se stesso” (p.102). Francesio stesso lo paragona fugacemente a una balena inafferrabile – parallelo che si può sviluppare con la violenza eterodiretta e il contemporaneo impulso autodistruttivo di Moby Dick, ossessivamente inseguita dal progressivamente folle capitano Achab.

Emerge chiaramente dalle tesi di Francesio come la lotta titanica fra Stato e ultras sia inadeguata a priori in quanto combattuta con strumenti razionali (e talvolta patetici: come la proibizione di esporre striscioni in quanto alcuni di essi potrebbero essere un fattore che può portare a un incremento della violenza) quando invece coinvolge strati molto più profondi del singolo uomo, di intere classi sociali, dell’identificazione totale in una bandiera. Pur non essendo un libro di psicologia, Tifare Contro aiuta a osservare dall’interno questa psicodinamica delle masse, senza per questo propinare un’idea monolitica del mondo ultras, le cui infinite differenziazioni interne sono troppo spesso ignorate non solo dalla pubblica opinione, che ha diritto a essere distratta, ma anche dagli infiniti gruppi di studio che l’hanno osservato con la lente d’ingrandimento. Talvolta si è privilegiato il comun denominatore perdendo di vista la complessità; talvolta ci si è concentrati sui particolari tanto da non accorgersi dell’enorme marea montante – una dimostrazione per tutte è la plausibile e mirabile ricostruzione di Francesio riguardo alla catena di inaudite superficialità organizzative che nel 1985 hanno portato alla mattanza dell’Heysel.

Tifare Contro è un libro pieno di dati di fatto con una chiara linea interpretativa della quale l’autore sottolinea al contempo la ragionevolezza in termini relativi e la discutibilità in termini assoluti: ottimo punto di partenza, questo. Meglio ancora è il punto di arrivo, poiché Giovanni Francesio deliberatamente evita di proporre una soluzione valida, una panacea assoluta, una conclusione consolatoria: se non la si è trovata in quarant’anni, non sarà un libro di duecento paginette a risolvere problemi che coniugano il calcio, la politica, la psicologia e la lotta di classe. Però l’onestà, la serenità e la contrizione con le quali i problemi legati al mondo ultras vengono analizzati costituiscono un piccolo passo avanti; e, per quanto io non mi senta di concordare su tutto, ammetto senz’altro che camminare piano è sicuramente meglio di fingere di correre.

giovedì 28 febbraio 2008

Tutti i libri che non ho letto (2)

(Gurrado per Books Brothers)

Abbiamo tantissimo tempo davanti,
e così poche cose da fare.
(Gene Wilder in Willy Wonka)


Nel suo film più enigmatico, Stardust Memories, Woody Allen inserisce a pochi istanti dai titoli d’inizio una scena emblematica (o, viceversa, nel suo film più emblematico inserisce una scena enigmatica – invertiti i fattori, il prodotto non cambia): il fumo sollevato da un treno in partenza si dissolve rivelando la figura di una bella donna, una giovanissima Sharon Stone, che guarda ammiccante dal finestrino. Woody Allen, sentendosi ammiccato, vorrebbe raggiungerla ma non può: il treno con Sharon Stone va ineluttabilmente in direzione opposta e svanisce di nuovo nel fumo avvolgente. A lui restano rimpianto e curiosità, a noi una sfilza domande irresolubili: chi è quella donna? perché quella donna? cosa sarebbe successo se il film fosse stato ambientato in Italia e di conseguenza il treno non fosse partito, o fosse consuetamente partito con tre quarti d’ora di ritardo? si può dire che il protagonista, grazie a un solo sguardo intenso, abbia conosciuto la misteriosa donna dell’altro treno? e, soprattutto, si può dire che Stardust Memories sia un film tanto con Woody Allen (che occupa la scena per un’ora e mezza) quanto con Sharon Stone (che la occupa per poco più di un secondo)?

Tralasciando tutte le altre domande, all’ultima mi sento di rispondere di sì. Se Woody Allen ha sistemato un secondo e rotti di Sharon Stone all’inizio di Stardust Memories, è evidentemente perché riteneva che in quel secondo e rotti ci volesse Sharon Stone e non, poniamo, Gianni Vattimo o Mandrake. Alla stessa maniera, la vita di ciascuno è regolata secondo incontri più o meno casuali che però non sono defettibili – nel senso che, fugace quantunque, la presenza altrui nel nostro campo visivo (o campo uditivo, o d’azione, o intellettuale, o sentimentale) è un dato di fatto impossibile a fuggirsi. Per quanto noi possiamo sforzarci di ignorarlo, di evitarlo, il tizio che ci guarda dal finestrino dell’altro treno c’è e ci segna. Possiamo dire di non conoscerlo solo perché non ci abbiamo parlato né gli abbiamo chiesto come si chiamasse? Dimenticare a comando qualcuno, o qualcosa, oltrepassa le nostre capacità; e per quanto il tempo possa rimuovere volti nomi e circostanze, nulla vieta che essi riemergano quando meno ce l’aspettiamo, in maniere che non abbiamo preventivato, in luoghi e circostanze che non cessano mai di sorprenderci. Uno può anche ritirarsi a fare l’eremita, ma avrebbe comunque una vita affollatissima.

Alla stessa maniera, io non compro quasi più libri: innanzitutto perché costano troppo, poi perché spesso me li spediscono gli editori, infine perché è clamorosamente lievitato il numero dei testi che non valeva la pena di pubblicare. Non è più come trenta, quarant’anni fa, quando chi desiderasse seguire tutte le tendenze della cultura postmoderna poteva, al solo prezzo di tutte le uscite di determinati editori sicuri, metter su una biblioteca onnicomprensiva – né tampoco è come ai tempi antichissimi in cui, con numerica certezza, qualcuno poteva vantarsi in giro di aver letto tutti i libri. È invece come se improvvisamente le persone che ci circondano siano aumentate esponenzialmente, e dove eravamo abituati a trovarne cento ce ne siano mille, dove mille un milione e così via. Possiamo sperare di conoscerli tutti?

Quanto ai libri, io risolvo così: non li compro quasi mai ma vado molto spesso in libreria. Mi aggiro fra gli scaffali, guardo, considero, memorizzo titolo e autore, leggo la quarta di copertina e talvolta addirittura sfoglio distrattamente. Nei casi estremi, limitatissimi, leggo due o tre frasi. Una volta su cento raid librari mi soffermo sulle prime righe, come se volessi leggerlo davvero. Terminata questa pantomima, esco dalla libreria a mani vuote, sorridendo alle cassiere che mi guardano imbronciate.

In fin dei conti è come quando, dopo una giornata intera trascorsa davanti allo schermo del portatile, una volta che le falangi sono anchilosate e i polpastrelli stanno perdendo le impronte digitali a furia di scrivere scrivere e scrivere, uno si stanca e sente il bisogno di vedere qualcuno. Allora non chiama gli amici ma si limita a uscire di casa e fare due passi al centro, immergendosi nella folla che procede in senso inverso e scrutandola, fissando le donne che fissano le vetrine, scansando i ciclisti temerari, scandendo i passi degli scemi del villaggio (ce n’è ovunque, di professionisti e dilettanti). Si fa un’idea di chi lo circonda, e mezz’ora dopo torna a casa con la consapevolezza che gli è bastato e avanzato, ritirandosi sazio di gente fino alla stessa ora del giorno dopo.

Proust, che doveva essere una persona noiosissima a incontrarsi, scriveva che fortunatamente per il romanziere ci sono più uomini che gusti o caratteri, o per meglio dire il più strano fra gli uomini partecipa abbastanza dei gusti e dei caratteri di un gran numero di persone, sicché parlando dei miei amici ho qualche probabilità di stupirti con la conoscenza approfondita degli amici tuoi, che d’altronde non ho mai visti, se, come lo spettatore ingenuo, non t’accorgi che il giocoliere non ha bisogno di aver visto miracolosamente la tua carta per dirti qual è, perché nel mazzo dove tu hai creduto scegliere tutte le carte erano eguali. (Cercate pure questa lunga citazione nella Recherche: non la troverete mai perché è da Jean Santeuil).

Passeggiando nel mazzo di carte tutte uguali, si appiccica a ogni sconosciuto una storia che se non sarà vera sarà comunque verosimile, presunta, deducibile razionalmente dai dettagli che lo accompagnano e che lo differenziano da chi lo circonda contemporaneamente assimilandolo a persone delle quali questi nemmeno suppone l’esistenza, e che invece vivono parallelamente a lui. Ugualmente io passeggio fra le copertine allineate di tutti i libri che non ho letto, li scandaglio senza aprirli e ragiono sugli sviluppi del loro contenuto basandomi sugli elementi scientifici che ho: l’autore, il titolo, la casa editrice, la grafica, lo scaffale, l’affollamento e il numero di copie invendute. Talvolta mi spingo fino a immaginare pagine e pagine intere, così come avrebbero dovuto essere dati gli iniziali caratteri immutabili; quasi sempre, una volta aperti, l’occhiata fugace alle parole stampate mi rivela che i libri altrui avrei fatto meglio a scriverli io.

(continua)

mercoledì 27 febbraio 2008

Lettera a Ferrara sulla lista pazza

Caro Direttore,

le scrivo in menzione della sua richiesta di consiglio e soccorso riguardo alla presentazione della lista "Aborto? No Grazie". Sabato scorso ho avuto modo di parlare con Ignazio La Russa, che incontrava militanti e simpatizzanti del centrodestra per spiegar loro i dettagli del progetto del Popolo della Libertà; quand'è stato il mio turno gli ho chiesto se pensa che in extremis sarà possibile apparentare PdL e lista pro-life, e se in caso contrario il PdL si impegnerà comunque nella battaglia per la vita dal concepimento alla morte naturale. La Russa ha risposto, molto cortesemente, che l'apparentamento da me caldeggiato era inverosimile, mentre non dovevo aver dubbi sull'impegno del PdL sui temi eticamente sensibili, culminanti nella difesa della famiglia quale nucleo portante della società. Controprova ne è, ha continuato La Russa, che la lista pro-life non sarà presentata al Senato in Lombardia dove si ritiene che il capolista del PdL Formigoni dia sovrabbondanti garanzie.

Il confronto di sabato mi ha consentito di riflettere, e sono giunto alla conclusione che presentare la lista in sotterranea concorrenza con il PdL potrebbe portare a un risultato su scala nazionale più traballante per il Senato, stante il barocco sistema d'assegnazione dei premi di maggioranza, e potrebbe quindi avere come conseguenza indiretta un maggior peso numerico (e quindi una maggior voce in capitolo) del PD che si fa capitanare nientemeno che da Umberto Veronesi.

Per quel poco che conta, il mio spiccio suggerimento politico è di presentare la lista "Aborto? No Grazie" solo alla Camera e non al Senato, per poi fornire comunque un appoggio esterno alla maggioranza (spero) costituita dal PdL, che sicuramente le concederà sui temi eticamente sensibili maggior ascolto degli altri partiti di quest'arco costituzionale postmoderno.

Più di ogni altra cosa, tuttavia, ho a cuore di offrirle il mio sostegno umano: quando, come ieri, si trova precipitato nell'angoscia riguardo ai necessari dubbi che si affollano attorno alla lista che prende vita, si ricordi di San Paolo: "Ho combattuto la buona battaglia, ho portato a termine la mia corsa" (2Timoteo 4, 7). La sua buona battaglia è questa, la combatta senza pensare a chi corre o meno con lei.

Coraggio! Un abbraccio, fin dove arrivo.

G.




martedì 26 febbraio 2008

Le cose in grande


Abraham Yehoshua sarà a Pavia sabato 1 marzo. Alle 16:30 inaugurerà la sede rinnovata della libreria Delfino in piazza della Vittoria. Alle 18 presenterà il suo nuovo romanzo Fuoco Amico (Einaudi) nell'Aula Magna del Collegio Ghislieri. In questa circostanza potrà lui e potrete voi ammirarmi in tutta la mia bellezza. Dopo di che andrà a Milano per farsi intervistare da Fabio Fazio, per la puntata di Che Tempo che Fa in onda domenica 2 marzo.

Evviva.

Ceci n'est pas une pipe

Heinrich Mann non è Thomas Mann.
Hellen Fielding non è Henry Fielding.
Immanuel Hermann Fichte non è Johann Gottlieb Fichte.
Fabio Battiato non è Franco Battiato.

Questo non sono io.

lunedì 25 febbraio 2008

Un po' di campagna elettorale

Mentre il faccione di Walter Veltroni, ieri pomeriggio, si affacciava al finestrino dalla stazione di Brescia postulando non già un nuovo partito bensì un’Italia migliore, chi come me soffriva sul treno Verona-Milano si scopriva inconsaepevolmente immerso in una sorta di spot elettorale semovente, nel quale una ghanese sovrappeso, dimèntica d’indossare la gonna, berciava strillando al telefono in una lingua che, per quanto di fatto incomprensibile né riducibile a qualsiasi possibile radice semantica indoeuropea, conseguiva l’immediato effetto di troncare la mia lettura dell’altrettanto ardimentosamente comprensibile Marcel Proust, suscitando intanto sguardi allarmati e risolini nervosi nei circonvicini utenti della carrozza, fino al momento in cui tali sguardi e tali risolini si sono sciolti nelle più generali sorpresa, e meraviglia, e irritazione al momento stesso in cui un mussulmano disinvolto ha dato fiato al proprio mangianastri che ha preso a diffondere a tutto volume forsennate danze del ventre, tali che solo la presenza effettiva di un’odalisca sfarfalleggiante per il corridoio dello scompartimento avrebbe potuto rendere più vivide, in maniera tale che man mano che il treno ripartiva e la stazione di Brescia veniva abbandonata e il faccione di Veltroni sfumava nell’alone dei ricordi più vaghi sarebbe stato ben verosimile che un fermo immagine divino ipostatizzasse la moresca laida o il tristo mamelucco mentre una voce fuori campo o un carattere in sovraimpressione scandisse commentando i loro volti ottusi:

Io sono in Italia perché non è stata applicata
la legge Bossi-Fini.

Grazie, continua a votare a sinistra!

sabato 23 febbraio 2008

Lo Stato dei Licei, 12: il corso di soccorso

[Oggi Gurrado è un po’ stanco, se la vede Silvia G:]

Gurrado, si sa che la scuola deve fornire agli alunni strumenti di conoscenza utili non solo per conseguire un diploma di licenza superiore, non solo per raggiungere una laurea, non solo per trovare lavoro fisso in banca, non solo per vincere migliaia di euro in un telequiz [Nota di Gurrado: Gurrado accusa inoltre un forte mal di schiena], ma anche e soprattutto per sopravvivere alla drammatica brutalità della vita quotidiana. Per questa ragione, il sommo dirigente scolastico ha organizzato al liceo Voltaire dei corsi di pronto soccorso riservati appositamente agli studenti dell’ultimo anno, a seguito dei quali gli stessi studenti devono sostenere un esame che, se superato, fornirà loro il titolo di Soccorritore di Primo Grado. Da quello che i membri della Terzaddì hanno potuto fino ad ora capire, il ruolo del Soccorritore di Primo Grado consiste esclusivamente nel valutare che qualunque situazione di pericolo o di emergenza è al di fuori delle sue competenze, ed egli, in ogni caso, deve limitarsi a chiamare il 118 e sperare che qualcuno risponda.

Ciò nonostante, il paramedico incaricato di esporre ai giovanotti e alle signorine del terzo anno le dinamiche di un intervento di pronto soccorso [NdG: Gurrado sbadiglia, ma non è colpa di Silvia G], pare trarre un discreto godimento dalla scrupolosa descrizione dei dettagli più orribili e rivoltanti del corpo umano, supportato tra l’altro da una serie di diapositive assai poco pittoresche:

-Guardate, ragazzi, guardate qui!-, esclama a volte, indicando la radiografia di un femore ridotto a stuzzicadenti, o di una rotula rotolata via dal resto del ginocchio, o di una spalla lussata che sbuca dalla carne come la Spada nella Roccia, -Guardate quali situazioni potreste trovarvi ad affrontare! [NdG: Gurrado si stiracchia fino a diventare alto, anzi lungo, un metro e novantasei] Osservate attentamente quest’osso spezzettato. Ammirate la straordinaria violenza di quest’emorragia. Esaminate i danni che quest’organo interno può aver subìto sgusciando fuori da questa ferita.

Il pubblico di baldi giovanotti sogghigna allora divertito. Alcuni di essi, a dire la verità, impallidiscono di tanto in tanto di fronte a qualche immagine particolarmente agghiacciante, ma trattengono stoicamente i conati di vomito, temendo soprattutto di sfigurare davanti ai compagni e alle compagne.

Il pubblico di signorine, che invece sente di non avere alcuna dignità da preservare, e che anzi considera la fragilità di nervi e la delicatezza di stomaco caratteristiche irrinunziabili della natura femminile, assume, man mano che le diapositive scorrono, un colorito sempre più verde [NdG: Oggi Gurrado è giallino con bordi marrò], finché, davanti all’accidentale amputazione di un intero arto (con conseguente applicazione del laccio emostatico), qualcuna di esse cade come corpo morto cade, rilassando la propria delicata persona sopra il banco, o addirittura sotto.

Il paramedico dai gusti macabri, deliziato da quest’improvviso accidente, coordina allora le provvidenziali operazioni di soccorso, facendo sdraiare la malcapitata sopra un materassino, tastandole il polso, misurandole la pressione [NdG: Stamattina Gurrado aveva 63 di massima e 209 di minima, mistero della fede], proponendo ai compagni maschi di metterla a testa in giù, e riscuotendo notevole successo nel caso la fanciulla indossi quel giorno una gonna corta.

Questi inspiegabili svenimenti a catena si susseguono ormai da diverse lezioni, costringendo ogni volta il paramedico a interrompere le sue terribili descrizioni di nervi scoperti e falangi incancrenite, e rendendo le lezioni di pronto soccorso assai più pratiche di quanto previsto.

Dal momento che, ad una ad una, sono ormai cadute quasi tutte le studentesse della Terzaddì [NdG: Stamattina a Gurrado è caduto il naso nella tazza del cappuccino, portandosi dietro il resto del corpo], l’orribile paramedico ha tratto le sue conclusioni: le giovani generazioni non possiedono una grande resistenza, specie le donne, e svengono decisamente troppo spesso, tra il resto senza una motivazione ben precisa.

-Vedete bene, ragazzi-, constata talvolta sorridendo, assai compiaciuto del suo ruolo di educatore, -vedete che gli accidenti possono capitare, e anzi capitano piuttosto di frequente. Il compito di noi soccorritori è dunque di fondamentale importanza. Noi evitiamo che le persone ferite o inferme subiscano eccessivi danni. E ora, osservate questa tibia insanguinata, o questo profondissimo taglio all’altezza del bacino, o questa frattura multipla del ginocchio… signorina, la vedo pallida, è mica sicura di sentirsi ben [NdG: Gurrado muore di vecchiaia, il manoscritto termina qui]

venerdì 22 febbraio 2008

Tutta un'altra cosa

Oggi Walter Veltroni ha assicurato che il PD sarà ben diverso dall'Unione di Romano Prodi. Quest'ultima, infatti, è stata una coalizione eterogenea che ha governato per un anno e mezzo. Il PD, al contrario, sarà un partito eterogeneo che starà all'opposizione per cinque anni.

Negli ambienti intelligenti desta scandalo la notizia che il PdL possa candidare nelle proprie liste la signorina Angela Sozio, iscritta da tempo a Forza Italia e già starlette del Grande Fratello 3. Un'istruttiva indagine sul web ha documentato che la prosperosa rossa ha dato il meglio di sé in una vasca idromassaggio e che, stando alle testimonianze di quanti hanno davvero visto il GF3, soleva fare a chi ce le aveva più grosse con un'altra concorrente - a giudicare dalle foto, risultando dantescamente "quella che vince e non colei che perde". La medesima signorina, qualche tempo fa, aveva fatto parte del cosiddetto harem di figliole che il settimanale Oggi aveva clandestinamente fotografato mentre passeggiavano in un palmizio mano nella mano con Silvio Berlusconi, il quale poi si sedeva lasciando che le cinque (cinque!) si accomodassero sulle sue ginocchia (due!). Non vedo quale sia il problema. Sarò reazionario e addirittura eterosessuale, ma ritengo che la bella presenza non guasti mai, anzi. Se si ritiene di contestare la candidatura della signorina Angela Sozio solamente perché costei è incontestabilmente una bella gnocca, si ricadrebbe nel frusto circolo vizioso istero-femminista secondo le quali solo le donne brutte meriterebbero visibilità, mentre la bellezza sarebbe da considerarsi una colpa (come la ricchezza, l'industriosità, la capacità di vivere bene, etc.). Se invece si ritiene di eliminare la medesima signorina dalla competizione elettorale poiché costei ha partecipato a un'edizione del Grande Fratello, mi sembra una maniera un po' libera di interpretare l'epistola di Sandro Bondi secondo la quale non va candidato chi abbia condanne penali pendenti. Se si ritiene che il grazioso culetto della signorina Angela Sozio possa essere indegno di scaldare i banchi di Montecitorio solo in quanto costei è esponente - lascio a voi giudicare il livello - della cosiddetta cultura pop, si tratta di razzismo intellettuale ritrito, sentimento antidemocratico che esclude a priori la rappresentanza proporzionale di tutta la popolazione italiana così come essa sia. Se infine il problema è quello solito, della superiorità intellettuale della sinistra e della congiunta dichiarazione "Noi siamo fichissimi perché abbiamo fior di intellettualoni che leggono Repubblica tre volte al dì, mentre loro sono sfigati perché hanno delle persone normali che guardano la televisione e addirittura partecipano al Grande Fratello", sono pronto a recidere la questione alla radice dichiarando pubblicamente che sotto ogni aspetto la signorina Angela Sozio è sicuramente meglio del dottor Umberto Veronesi.


(foto CorSera)

E poi, insomma, sulle mie ginocchia riesco a far sedere tre ragazze tutt'al più.

giovedì 21 febbraio 2008

La vera religione spiegata ai baresi

Domani 22 febbraio 2008 dopo Cristo
al Teatro Duse di Bari (via Cotugno)
Gabriella Carlucci e Renato Farina presenteranno
La Vera Religione spiegata alle ragazze

di Camillo Langone (Marsilio 2007)
alla nobile presenza dell'autore.



Io non potrò esserci (Pavia è un po' troppo distante)
ma manderò i miei genitori
e - spero - qualche amica bisognosa d'istruzione.

TuttoCoppe (seconda passata)

Non è stato uno spettacolo rallegrante vedere il Milan impaniarsi nella ragnatela sapientemente tessuta dall’Arsenal all’Emirates Stadium: sapientemente fino a un certo punto, però, visto che i bombardieri sono stati ottimi in fase di copertura (Hleb raddoppiava pressoché costantemente su Pirlo, sovente rincoglionendolo) ma molto meno in fase propulsiva. Adebayor sarà vicecapocannoniere della Premier League (18 goal contro i 19 dello svenevole Cristiano Ronaldo) ma ha due ferri da stiro al posto dei piedi e, quando al 94’ si tratta di schiacciare di testa nella porta semivuota, ha la bella pensata di alzare il pallone che quindi impatta dritto dritto la traversa. Se fossi Arsène Wenger, saprei chi prendere a calci nel sedere. Per fortuna non lo sono, Wenger: e quindi posso permettermi di dire che Adebayor sarebbe il miglior attaccante in circolazione se il gioco del calcio non consistesse tanto nel segnare quanto nell’arrivare primi alla linea di porta. È sgraziato, caracolla, pare sempre sul punto di crollare trafitto da un’immaginaria lancia, ma sui passaggi in profondità ha fatto venire i vapori ai centrali del Milan che gli correvano dietro e a me che li guardavo terrorizzato. Al ritorno, col pallino del gioco in mano al Milan casalingo, potrebbe essere un problema.



Zero a zero non è un risultato gradevole da gestirsi in casa, sicuramente: per quanto l’Arsenal rassomigli di più al Portogallo, che gira gira e non tira mai in porta (o tira loffo e centrale, sì da permettere a Kalac di arrivarci sorridente), prendere un goal prima o poi capita – e comunque a San Siro bisognerà vincere, cosa mica facile quest’anno. Per vincere infatti bisogna segnare e insegnare a Pato che non è necessario dribblare pure la bandierina del calcio d’angolo, alle volte si può anche tirare dritto per dritto. Altrettanto, se si fa giocare Gilardino bisogna rifornirlo di cross, altrimenti è come comprare un cane mastino e nutrirlo di Wiskas, l’alimento che solo i gatti comprerebbero. Poi magari Inzaghi fa il miracolo, chissà.

Di sicuro ieri è emersa netta la sostanziale differenza fra Inter e Milan: entrambe sono andate in Inghilterra a giocare partite variabili fra il pessimo e il preoccupante, ma l’Inter ha perduto peggio di quanto meritasse e il Milan se l’è cavata meglio di quanto temesse. Questione di esperienza e di approccio mentale (oltre che del terror panico che assale i nerazzurri ogniqualvolta sentono la canzoncina-sigletta universale della Champions; bisognerebbe iniziare a suonarla anche in campionato). L’Inter paga lo stesso errore di valutazione fatto da Romano Prodi quando giurava e spergiurava che avrebbe governato in eterno; non considerando che se alla Camera (id est in campionato) il premio di maggioranza nazionale gli garantiva un margine incrollabile, al Senato (id est in Coppa dei Campioni) la musica, appunto, è tutt’altra. Prodi ci ha rimesso le penne, Mancini quasi – è presumibile che presto si terranno le primarie per il nuovo allenatore (Mourinho? Benitez? Il mago di Arcella?).



Un’occhiata anche agli altri ottavi. L’Olympiacos Pireo ha bloccato sullo 0-0 il Chelsea nientemeno, ed è stata la ragguardevole punizione che gli dèi dell’Olimpo hanno assegnato agli inglesi per la ybris di essersi travestiti da evidenziatori (erano inguardabili, facevano cambiar canale più ancora che per come giocavano). Lo Schalke04 inguaia il Porto, che però in casa segna sempre; bisogna vedere quanti ne prende. Ammirevole il Fenerbahçe che, dopo aver sconfitto l’Inter in autunno con una partita sostanzialmente perfetta, azzanna tre volte un Siviglia particolarmente reattivo e (occhio) relativamente perforabile in casa, dove non ha mai tirato giù la saracinesca (è il difetto delle squadre spettacolo: che cioè ogni tanto lo spettacolo lo fanno fare agli altri). Onore al Celtic e a Vennegoor of Hesselink, l’attaccante dal cognome più lungo del mondo (batte il record di Eric Rabesandratana, centrale del Paris Saint Germain che una decina d’anni fa uccellò un Milan imbarazzante), il quale non scatenerà ululati isterici ma fa ciò per cui lo pagano, ossia sbatterla dentro quando l’occasione gli è propizia; detto questo, il Barcellona al ritorno vincerà 4-0 o giù di lì. Lione e Manchester United pareggiano il derby fra realtà sopravvalutate.

Per il puro piacere di essere smentito dai fatti, azzardo la previsione sulle otto qualificate: Liverpool, Chelsea, Real Madrid, Schalke04, Arsenal, Barcellona, Fenerbahçe e Manchester United: sì, nessuna italiana e quarantamila inglesi – quest’anno va così.

Due parolette infine per la Fiorentina, chiamata a non addormentarsi in casa dopo aver cotto il Rosenborg a domicilio, e per il progressivo intristimento della Coppa Uefa, che un tempo era una cosa seria e che ora come ora è diventata un impaccio o, peggio ancora, un imprevisto per giocatori, allenatori, tifosi e giornalisti, stante la formuletta: “Ah, sì, la Coppa Uefa”. Ora vado dal barbiere, che è meglio.


mercoledì 20 febbraio 2008

TuttoCoppe

Ultimamente il Liverpool mi sta dando notevoli soddisfazioni. Verranno a dirvi che è stata colpa dell’arbitro, verranno a dirvi che è stata colpa della malasorte, verranno a dirvi che una partita ogni tanto si può perdere – non credeteci. Liverpool-Inter 2-0 è la controprova di ciò che andavo sostenendo manzonianamente già dieci mesi fa, e cioè che il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare. L’Inter potrà vincere quante volte vuole con l’Empoli e con il Pontedera, ma la Coppa dei Campioni non è casa sua: s’è visto ieri dalla tremarella di Anfield Road, dall’aver (forse) sottovalutato un avversario indietro nel campionato inglese e ridicolmente eliminato dalla FA Cup, da (soprattutto) l’endemica incapacità di gestire le partite importanti, sarebbe a dire di rassegnarsi ad avere degli avversari pari livello. L’Inter di quest’anno mi ricorda l’Inter più forte della storia, quella allenata da Helenio Herrera nel 1967: dominò ogni competizione e poi, nel giro dell’ultima settimana, perse la Coppa dei Campioni (contro il Celtic), lo scudetto (contro, ehm, il Mantova) e pure la Coppa Italia (contro, uhm, il Padova). Ad majora.



Diverso, del tutto diverso, è il discorso sulla Roma. Andrei cauto coi trionfalismi dopo la (bella) vittoria su un Real che ha per giunta giocato benone. L’anno scorso l’eccessivo entusiasmo per aver imbrigliato lo United all’Olimpico portò a beccarsi sette sberle all’Old Trafford. Per quanto questa sia una Roma più matura di quella sbarazzina dello scorso anno, giova non dimenticare lo spirito di Juanito. Questi, notevole ala degli anni ’80 ormai passata a dribblare le nuvole, a seguito di una vistosa sconfitta europea in trasferta (tre o quattro goal di scarto, non ricordo) dichiarò: “Novanta minuti al Bernabeu sono molto lunghi”. E lo furono: il Real rimontò il pesante passivo e passò il turno con inaudita forza d'urto. L’ultima volta che lo spirito di Juanito è stato evocato (tanto nel senso di esprit quanto nel senso di fantasma) fu esattamente due anni fa, nel febbraio 2006, in occasione della sconfitta per 1-6 del Real a Saragozza. Al ritorno, il Real iniziò a segnare dopo cinquanta secondi, raddoppiò al quinto minuto e cinque minuti dopo aveva già fatto il terzo. Vinse 4-0 e fu una magnifica sconfitta: la Roma, che ha un solo goal di margine, è più che avvertita.



A scorno degli amici interisti che per stasera danno scontata una vittoria del Milan per 3-0 con tripletta di Kakà, temo che sia più probabile il 3-0 per l’Arsenal con tripletta di Fiori. Magari Kalac ricupererà in tempo, magari pareggeremo decentemente, magari vinceremo addirittura. Il dato di fatto è che il Milan può, fra una cosa e l’altra, permettersi di perdere. La legge dei grandi numeri previene dal vincere la Champions League due anni di fila. In campionato si veleggia verso l’obiettivo minimo a velocità da crociera. Quest’anno sono già state vinte Supercoppa e Intercontinentale (l’Inter, nella stagione in corso, ha vinto Trofeo Tim e Torneo di Viareggio), quindi il cartellino è timbrato. Da stasera in poi, tutto ciò che viene è un regalo.



Chiosa ridanciana. La lite fra Inter e Milan sulla rispettiva superiorità, piuttosto che la storia dell’uovo e della gallina (è meglio essere campioni d’Italia o d’Europa?) mi ricorda una barzelletta che sentii raccontare da Gino Bramieri. Il Milan è come l’ubriaco che prende in giro la signora imbarazzante per la sua bruttezza (non vincere qualcosa di serio dal 1965). L’Inter è come la signora brutta che rimprovera l’ubriaco di essersi ridotto ai minimi termini (distacco abissale in campionato, eliminazione in Coppa Italia, preoccupante carenza di portieri). Al che l’ubriaco risponde alla signora: “Sì, però a me domani passa”.

Chi se ne va che male fa?

A voler fare gli storici, ho iniziato la mia collaborazione a Ore Piccole più di due anni fa, lunedì 9 gennaio 2006. Due ore dopo che l’amico Gabriele Dadati inaugurasse il blog (dicendo educatamente “Buondì”), me ne sono uscito con una lunga disamina su Ian McEwan, Nicole Kidman e Walter Veltroni. Penso di dover essere grato a questa recensione, e all’opportunità che Ore Piccole mi ha consentito di sfruttare, viste le tante altre che sono seguite lì e altrove. Nel dettaglio, ma potrei sbagliarmi, ho contato che da allora a tutt’oggi ho pubblicato sul blog di Ore Piccole sessantatré recensioni: trentanove nel 2006, ventitré nel 2007, una nel 2008 – per una media scarsa di settemila caratteri l’una, fanno complessivamente circa mezzo milione di volte che i miei forsennati polpastrelli hanno battuto sulla tastiera del portatile, e questo senza contare le cancellature (a differenza di Shakespeare, la cui leggenda vuole che he never blotted a line, io ne cancello un sacco). Tutto ciò ha condotto la tastiera, anzi, le tastiere di due successivi portatili a consumarsi per usura e me medesimo al progressivo impazzimento.

A voler fare i filosofi, ci sarebbe da chiedersi fino a che punto ne sia valsa la pena. Un bel po’, credo; senza la possibilità di recensire quel che mi pareva su Ore Piccole avrei se non altro letto più superficialmente e quantitativamente meno. Invece la sfida di poter combattere con libri diversissimi per lingua, genere, stile e livello mi ha consentito di spaziare fino all’accumulo parossistico, e al tentativo di forzare sempre un po’ di più i confini standardizzati delle recensioni, che altrimenti consentono di sopravvivacchiare a furia di cliché giornalistici e di rapide scorse alle quarte di copertina. Ne è valsa la pena soprattutto perché ho letto ogni singola pagina di ogni singolo libro che ho citato, non solo recensito. E se posso permettermi cinque secondi di compiacimento, ne è valsa la pena perché, sottraendomi perfino al vincolo della recensione, dall’8 maggio al 30 giugno 2006 ho tirato fuori quotidianamente le letterine letterarie, considerazioni bonsai sulla vita l’arte e la letteratura delle quali ancora oggi qualcuno mi dice che erano più o meno tutte meravigliose, e io sorrido.

A voler fare i controfilosofi, ci sarebbe da elencare che potrebbe non esserne valsa la pena nel momento in cui i collaboratori si sono rarefatti, la grafica del sito ha traballato, i commenti del pubblico sono stati disattivati per pigrizia informatica o per mera disaffezione. Se fossi uno di quelli che considera solo il passato prossimo, a vedere un blog aggiornato tredici volte negli ultimi due mesi mi verrebbe lo sconforto. Ancor più rimpiangerei d’esser nato se considerassi che di questi ultimi tredici interventi cinque sono stati scritti da me; e che in generale per Ore Piccole io ho sempre scritto tanto (e letto tanto, e faticato tanto) mentre gli interventi altrui si sono andati via via assottigliando e rarefacendo, immagino per diversione d’interessi, per aspirazioni a maggior glorie o per mancanza di cose da dire. Non posso però farmi una colpa di essere grafomane, e onnivoro, e compulsivo.

A voler fare gli economisti, la rivista Ore Piccole va che è una bellezza, e se lo merita. Mi arriva regolarmente e sembra gradevole. Ci sono comparso una volta sola, nella primavera del 2006, con un pezzo su Pasolini che mi era stato espressamente richiesto e che ho avuto la tristezza di veder micragnosamente criticato nei contenuti, su quattro righe di un quotidiano di Piacenza, dal promotore della richiesta stessa. Non ci ho fatto caso più di tanto. Avrei voluto veder pubblicato un mio racconto, nella sezione narrativa della rivista, ma il comitato di redazione ha preferito di no poiché (ne sono consapevole) non ho un nome abbastanza famoso e la rivista (giustamente) cercava di trarre lustro dalle firme. Non ci ho fatto caso più di tanto. Probabilmente anche per questo mi sono scatenato sulla versione online, sul blog nel quale nessuno che non fossi io metteva bocca. Spero comunque che qualcuno leggesse, di tanto in tanto.

A voler fare i giornalisti, la notizia potrebbe essere che: fatti due conti, fronteggiato lo sconforto, ponderati i vari impegni, tarate le ambizioni e preso atto del contesto preferisco rinunciare a pubblicare oltre su Ore Piccole, né recensioni né chissà cosa. Passiamo ad altro.

martedì 19 febbraio 2008

Stretto e lungo

Stamattina in libreria mi è capitata per le mani l’opera dell’ingegno del senatore Marco Follini, La volpe e il leone (non fate rime ardite, se no passo i guai). Edito da Sellerio, il volume dura 83 pagine e costa 12 euri.

Michel de Montaigne, qualche secolo fa, si era spinto fino a dire: “Non ho fatto questo mio libro più di quanto esso abbia fatto me”.

Lo stesso vale, mutatis mutandis, per Follini: La volpe e il leone gli somiglia preciso. Curiosamente, la copertina del volume è più stretta e più lunga rispetto alla media delle altre pubblicazioni dello stesso editore. Il libro è maneggevole, si gira facilmente da un lato e dall’altro. Costa un sacco di soldi e dentro non c’è sostanzialmente nulla.

lunedì 18 febbraio 2008

La vita in fumo

(Gurrado per Books Brothers)


Benedetto sia il ritardo. Il plico speditomi dall’editore Marsilio, contenente Smokiana di Remmert-Ragagnin e Vita Morte Miracoli di Stefano Lorenzetto, è partito a fine novembre per raggiungermi non prima di inizio febbraio. Due mesi abbondanti, col Natale di mezzo, sufficienti a far perdere ai due volumi il carattere di novità, e a farmeli leggere con minor patema d’animo, una volta che il carattere di curiosità che spinge all’acquisto delle nuove uscite si era già (per fortuna) esaurito. Ma, soprattutto, questo iato temporale mi ha consentito di riflettere meglio e leggerli sotto luce differente, soppesandoli e riscontrando analogie e intersezioni che vanno al di là dalle due copertine, oggettivamente simili l’una all’altra.

Smokiana è il terzo volume che la premiata ditta Enrico Remmert e Luca Ragagnin dà alle stampe per Marsilio, concludendo un’ideale trilogia che, partendo da Bacco (Elogio della Sbronza Consapevole, 2004) è passata per Venere (Elogio dell'Amore Vizioso, 2006) e ora arriva con estrema coerenza al Tabacco (Smokiana, 2008). Lo stile è il consueto, e consta di una serie di citazioni, alcune delle quali fasulle, catalogate secondo dieci grandi temi inerenti al fumo: sigaro, pipa, sigaretta, fumo e filosofia, fumo e alcol, fumo ed eros, tabacchi tabacchiere tabaccherie, marijuana, canzoni sul fumo – più un’appendice sulle droghe varie, sviluppo e perversione della sigaretta.


Come per tutti i libri di citazioni, si scopre sempre qualcosa che non si conosceva. Come per tutti i libri di citazioni, ci si appunta qualche frasettina arguta da tirar fuori al momento opportuno (con un salutista, Pertini: “Mai un fumatore s’è lamentato di un non fumatore”; con una femminista, Stevenson: “Nessuna donna dovrebbe sposare un uomo astemio o che non fuma”). Come per tutti i libri di citazioni, si può fare il giochino delle presenze e delle assenze. C’è pressoché chiunque: Italo Svevo, ovviamente; Pirandello, Gadda, Pavese; Mark Twain, Atonia S. Byatt, Ian McEwan; Prévert, Garcia Lorca, Dostoevskij; Cat Power, Otis Redding, Giorgio Gaber. Se vogliamo concentrarci sulle assenze, un’eventuale riedizione non potrebbe fare a meno delle considerazioni di Christopher Marlowe sulla scoperta del tabacco in Un Morto a Deptford di Anthony Burgess. Né del sapido paradosso di Oscar Wilde (cito a memoria: “Lei fuma?” “Ebbene sì, mi rincresce ammettere che fumo.” “Me ne rallegro. Ogni uomo deve pur sempre avere qualcosa da fare. Girano troppi sfaccendati per Londra oggidì.”). Né si potrebbe trascurare il sillogismo parareligioso di Samuel Butler in Così Muore la Carne, vertente sulla questione se fumare sia peccato: San Paolo non lo proibisce esplicitamente, per cui non dovrebbe esserlo; ma San Paolo non può proibire il fumo poiché ancora non si conosceva il tabacco, per cui è plausibile che avrebbe ritenuto il fumo un peccato; però, se il Signore aveva impedito che il tabacco venisse scoperto in tempo da cadere sotto gli strali di un oltranzista notevolmente incazzoso come San Paolo, evidentemente il Signore stesso non voleva che fumare fosse peccato. Ne consegue che fumare non è peccato, per espresso volere divino.

Benedetto sia il ritardo anche perché ogni sezione del volume viene introdotta dal racconto di qualche arguto aneddoto sul fumo: in particolare, segnalo quello su Sir Walter Raleigh, accanito fumatore di pipa, che vince una scommessa con la regina Elisabetta sulla possibilità di pesare il fumo (col non trascurabile dettaglio che di lì a poco Raleigh sarebbe stato condannato a morte da Giacomo I,
accanito non fumatore). Ogni raccontino inizia col protagonista che guarda l’orologio (o la cipolla, o la clessidra) e aspira una boccata: segno inequivocabile che il comun denominatore del volume è l’attesa. Infatti fumare – quello che Pavese definiva “vizio assurdo” – è il gesto procrastinatore per eccellenza: fuma chi aspetta, fuma chi vuol farsi aspettare, fuma chi vuol prendere tempo, chi riflette, chi preferisce chiudere il cervello per l’intervallo di una sigaretta. Il fumo, che dallo stato solito del tabacco passa a quello aereo ascendendo verso il cielo, è la stessa scalinata trascendente per la quale l’uomo si sottrae al proprio essere uomo, alle proprie corporeità e materialità (fino a culminare nella trasformazione in epigono di Perelà, l’omino di fumo inventato da Palazzeschi). Il fumatore non produce ma consuma – e, dettaglio non trascurabile, si consuma: si accorcia la vita, si rode i polmoni, si ammuffisce i gangli. Soprattutto, lo fa consapevolmente (e ciò rende gli avvertimenti iettatori sui pacchetti tanto inutili quanto odiosi, e stupidi). Il fumo uccide; e allora?

Di meno mie parole ha bisogno Vita Morte Miracoli, in cui Stefano Lorenzetto raccoglie ventuno dialoghi (“sui temi ultimi”) con persone che hanno ricevuto nella propria vita più o meno evidenti, e più o meno impressionanti, segnali del divino. Ciò che Lorenzetto privilegia, tuttavia, è un divino quotidiano, che rifugge la spettacolarità. Si tratta di un libro da leggere e ponderare per poi fare i conti con la propria coscienza; quindi l’attività di recensore, al riguardo, è tanto inutile quanto gli avvertimenti di cui sopra (nonché dannosa come le sigarette, peraltro). Di mio, posso limitarmi a segnalare la breve ma perspicace introduzione di Giuliano Ferrara, che dà la misura di tutto il volume; le pagine conclusive di Luigi Amicone, che con estrema serenità incrocia la teoria alla propria vita privata (mai fidarsi di chi non lo fa, è quasi sempre in malafede, oppure un ingenuo presuntuoso); la toccante intervista a Mario Melazzini, medico incurabile, che pur potendo muovere infinitesimali porzioni del corpo si aggrappa con tutte le forze al suo ruolo di primario del day hospital oncologico della Maugeri di Pavia, pensando più a salvare vite altrui che a terminare la propria; e quella assolutamente vibrante a Francesco Agnoli, professore di filosofia e ardimentoso cattolico che, da controriformista, non poteva vivere altrove che a Trento. Una volta tanto, si tratta di guardare più ai contenuti che alla forma: ne esce un libro denso che può tanto entusiasmare quanto infastidire.
Suggestionato dalla precedente lettura di Smokiana, ho i miei buoni motivi per ritenere che possano esserne infastiditi soprattutto i non fumatori (o gli astemi, o i vegetariani, o quelli che vogliono farci alzare presto al mattino); coloro insomma che tacciano di integralismo le vittime che perseguitano. Come il fumatore si pone al di fuori della razionalità salutista, che prevede l’obbligo all’ottimizzazione quantitativa dell’esistenza, così il miracolato, il malato terminale che rifiuta di morire, il moribondo che non dispera e il difensore delle quattro cellule che costituiscono la vita umana si pongono tutti al di fuori e al di sopra dell’economia medicale, che vuole l’uom$o sempre e comunque in perfetta salute e per la quale l’embrione non è del tutto uomo, il moribondo non ha altra prospettiva che la morte della materia, il malato terminale è un capro al macello da far smettere di soffrire quanto prima, il miracolato è un ciarlatano ovvero un superstizioso. Allo stesso modo, è bene che chi fuma sia obbligato a smettere e che chi sta male si decida una buona volta a guarire o a morire – senza terze possibilità. Per fortuna la vita va oltre; per fortuna c’è il ritardo, lo iato temporale, lo sbrego nella catena ininterrotta di consumo e produzione materialistica e corporale. Spesso il buon senso prevale sulla ragione, e auguriamoci che sia sempre così; ma resta il pericolo ipotetico, resta la mia concreta paura, che a lungo andare per il nostro bene possa sorgere un ottimistico nazismo eugenetico (tanto più che, sia detto fra parentesi, Hitler non fumava).

sabato 16 febbraio 2008

Lo Stato dei Licei, 11: il senso dell'orientamento

[E ieri? Perché mai ieri il blog gurradesco è rimasto muto, come se fosse una qualsiasi domenica in cui adorare il Signore e venerare San Siro? Perché, rispondo con misura, ieri internet non funzionava – e questo, oltre a rinfocolare la convinzione che internet sia il male assoluto e che senza vivremmo tutti meglio (a cominciare da me medesimo, ché non sarei più costretto a scrivere quassù), mi ha consentito di riscoprire altri mezzi di comunicazione.
Il telefono, innanzitutto. “Pronto, parlo con Gurrado?” “Certamente, essendo il mio numero.” “Buongiorno dottor Gurrado, sono Caterina della Johnny Minkialonga corporation di ***, abbiamo preso in visione il suo curriculum e…” “…e?” “…e saremmo onorati di offrirle…” “…un lavoro?” “Macchè, di più, saremmo onorati di offrirle…” “…un finanziamento vitalizio?” “Si figuri, saremmo addirittura onorati di offrirle uno stage. “Ah.” “Retribuito, ci mancherebbe.” “Ci mancherebbe.” “Si tratta di un’esperienza altamente formativa…” “Sì, lo so, ma quanto?” “…altamente formativa tanto nel suo campo specifico quanto…” “Sì, ma quanto?” “…quanto nei settori più richieste dalle aziende di oggigiorno, fra le quali la Johnny Minkialonga…” “Signorina, Caterina, si fermi. Quanto?” “Quanto cosa?” “Retribuito quanto?” “Cento euro.” “…” “Cento euro al mese.” “…” “Più ulteriori cento euro di buoni pasto.” “…” “Dottor Gurrado?” “…” “È ancora in linea?” “…” “Si sente bene?” “Benissimo, mi scusi. Stavo ridendo.”
È per ragioni del genere che un po’ invidio Silvia G, che fa ancora il liceo. È per ragioni del genere che, pur rispettando le scelte di ognuno e avendo come massimo ideale la libertà individuale, le impedirò di iscriversi a qualsiasi facoltà umanistica, al costo di far saltare in aria tutte le Lettere e Filosofia sparse in ogni Università del Regno. Intanto Silvia G inconsapevole scrive:]

Gurrado, il terzo anno di liceo (classico) è senz’altro il più probante di tutte le superiori; non soltanto per l’esame di Stato che incombe, ma anche e soprattutto per gli ultimi ritagli di adolescenza che scivolano di giorno in giorno tra le dita dei maturandi [Nota di Gurrado: soprattutto dei maschietti, temo; sorry], costringendoli a prendere coscienza che l’età adulta si sta rapidamente avvicinando e con essa, nella più ottimistica delle ipotesi, il futuro lavorativo. Sono pochi gli studenti di liceo classico che decidono dopo l’esame di non iscriversi all’università [NdG: ma beati loro! multi sunt vocati, pauci vero electi! happy few! cfr. Matteo 7, 13: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa”], e di conseguenza la scuola sente il dovere civile e morale di introdurre ai suoi alunni le varie facoltà sin dall’inizio dell’anno, preoccupandosi meno di farli uscire dalle superiori con una preparazione completa. L’atto di organizzare uscite fuori porta, visite alle facoltà, presentazioni in videoconferenza coi rettori è appunto chiamato “orientamento universitario”.
La Terzaddì tutta ha sempre posseduto un pessimo senso dell’orientamento, al punto da riuscire in più di un’occasione a smarrirsi non solo durante le gite scolastiche, ma anche nella sua città natale (centro di ben ridotte dimensioni, che non conta più di ***mila abitanti); c’è poco da stupirsi, dunque, che anche con l’orientamento universitario questa famigerata classe abbia incontrato svariate difficoltà. A dire il vero, sono state per lo più difficoltà di comprensione, perché i professori e periti incontrati nel corso delle visite, pur parlando la stessa lingua dei membri della Terzaddì, non si sono dimostrati particolarmente abili nell’esporre il proprio pensiero, o per lo meno non hanno dimostrato eccessiva coerenza.
Assistendo a una videoconferenza di presentazione della facoltà di Giurisprudenza, prima che il chiacchiericcio di fondo dovuto alla presenza di numerosi liceali poco interessati nella sala coprisse definitivamente ogni altro suono, ho avuto modo di ascoltare le sagge parole del Rettore che ammonivano:
-Ragazzi, non lasciatevi condizionare dai vostri genitori, dai vostri amici, né tanto meno dai vostri fidanzati e dalle vostre fidanzate, nella scelta di una facoltà. È indispensabile che una decisione di questo tipo venga presa esclusivamente da voi, senza coinvolgimento di esterni.
Parrebbe quasi un consiglio ragionevole. Sennonché, a seguito dell’intervento del Rettore, prende la parola una professoressa relativamente giovane, che espone in maniera in vero poco chiara l’organizzazione della vita universitaria. Alla domanda mossa da uno studente presente in sala riguardo alla difficoltà di trovare lavoro dopo la laurea, tuttavia, la professoressa risponde che la concorrenza, nell’ambito della giurisprudenza, è effettivamente spietata; lei, a quel che dice, ha alle spalle una famiglia di giuristi, e quindi non le è stato difficile trovare lavoro nello studio legale di suo padre.
Si prosegue con la facoltà di Economia; stavolta è un perito aziendale a parlare, introducendo sempre il suo discorso con la raccomandazione di non lasciarsi condizionare eccessivamente da parenti, amici o fidanzati nella scelta della facoltà. Passa poi ad un’appassionata descrizione della sua giornata lavorativa, con un sorriso che non nasconde la più profonda delle soddisfazioni, essendo stato egli assunto di recente nell’azienda del suocero, produttore di un noto spumante locale:
-Ammetto senza vergogna che il primo lavoro me l’ha fornito il padre di mia moglie, ma questo certo non significa ch’io sia un raccomandato.
Certamente, no. Il vero raccomandato, infatti, è il nipote del farmacista Bertuzzi, che ha appena occupato il posto di un dipendente licenziato in misteriose circostanze nella farmacia dello zio; o il figlio del Rettore della facoltà di Medicina, che ha di fresco conseguito una laurea di 110 e lode (in medicina appunto), come non manca di sottolineare mente accompagna gli ancor giovani studenti liceali venuti in visita nelle varie aule della sede.
-Vi do un consiglio-, aggiunge, il giovanotto, al momento dei saluti, -non lasciatevi condizionare da parenti o amici, nella scelta della facoltà: è una decisione che spetta solo a voi.
Si mormora che, tornati agli ordinari banchi di scuola, alcuni maturandi della Terzaddì si lagnassero tra di loro dell’orientamento universitario appena subìto, e che i professori, indispettiti dalla cosa, domandassero quale mai fosse il motivo di tanta insoddisfazione.
-Prof-, sospira dunque qualcuno con tono sarcastico, -non siamo affatto insoddisfatti, anzi! Mio padre lavora in un cantiere edile e mia mamma ha fatto le magistrali: sono fortunato, perché non hanno la possibilità di condizionarmi in alcun modo, nella scelta della facoltà!
A quel punto un fortissimo boato squas[NdG: la pagina del quaderno a quadretti di Silvia G reca in questo luogo distinte tracce di cenere e lapilli; la vendetta divina è consumata e il manoscritto termina qui]

Chi sono i nostri amici?

Voltaire, durante e dopo la sua lunga vita, ha dovuto patire varie disgrazie - non ultima l'attribuzione fantastica della sentenza: "Non sono d'accordo con ciò che dici, ma darei la vita per consentirti di sostenerlo". Non solo non l'ha detto, ma non l'avrebbe detto mai: una frase del genere va bene, che ne so, in bocca a Ezio Mauro e serve esattamente a confondere le acque fra giusto e sbagliato: distinzione che invece Voltaire ha tenuto presente per più di settant'anni, avendola ben più chiara dei suoi vari lettori ignoranti o in malafede.

Dunque non ammirerò lo spirito pseudo-voltairiano (rimarcato invece da tutti i quotidiani) col quale gli ammirevoli senatori Lino Jannuzzi e Alfredo Biondi, pur non concordando col merito e col metodo della battaglia di Ferrara contro l'aborto, con due firmettine gli hanno consentito di presentare liste complete alla Camera e al Senato in tutta Italia. Mi limiterò a considerare che, alla fine, il bene trionfa sempre.

Coraggio, non praevalebunt!

Chi sono i nostri nemici?

Mezz'ora fa ero in una sala comune adibita alla lettura dei vari quotidiani e stavo scorrendo la prima pagina del Foglio. Un paio di minuti dopo sono entrate due signore, di una certa età e dimensione, con in bella mostra sul petto il badge di Libertà e Giustizia. Si sono sedute di fronte a me, e hanno iniziato a leggere Repubblica: nel senso che, essendocene una sola copia, una di loro leggeva ad alta voce e l'altra commentava, a detrimento della mia concentrazione.

"Guarda, la Bonino entra nel PD!" - "Sono contenta, la Bonino va bene, la Bonino è in gamba, la Bonino è una che ha combattuto."

Io ho continuato a leggere e, ostentatamente, ho aperto Il Foglio in maniera tale da piazzar sotto i loro nasi democratici la prima pagina con annesso simbolino bianco rosso e nero pro-lista-pro-moratoria-pro-life. Le criptoabortiste, troppo assorte dall'osservazione delle figure dell'inserto culturale del sabato, non ci hanno fatto caso.

"Certo che Ferrara è proprio un coglione."

Dal retro del Foglio spiegato come un lenzuolo, è spuntata la metà sinistra della mia faccia. Le agitatrici di grucce se ne sono accorte, tacendosi. Con un occhio solo ho mandato un'occhiataccia che la metà bastava.

"Scusi."

Non ho risposto e ho ripreso a leggere, scomparendo nuovamente dietro il sipario quotidiano.

Coraggio, non praevalebunt!

giovedì 14 febbraio 2008

Le discese ardite, e le risalite

(Gurrado per Quasi Rete / Em Bycicleta)

Chissà, chissà che fine ha fatto Nuzzi. Andavamo insieme alle medie superiori e una sera del maggio 1997, nel corso di una delle solite barbosissime feste di compleanno, mi vide arrivare da lontano e mi venne incontro chiedendo: “Hai visto Pantani, oggi?”. Non una parola di saluto, né un apprezzamento sulla ruspante eleganza delle nostre coetanee ai primi armeggi col fondotinta, né una considerazione sulla temibile verifica di Storia dell’Arte che incombeva sulle nostre povere nuche innocenti. “Hai visto Pantani, oggi?”.

L’avevo visto, Pantani, quel giorno. Dopo un anno e passa di sosta forzata, più di due anni dopo essere stato investito da uno sconsiderato autista, alla prima tappa ondulata del Giro d’Italia della risurrezione, nel giorno che segnava l’inizio delle nuove speranze per il più talentuoso e promettente dei giovani ciclisti italiani, un gatto aveva attraversato la strada. Un gatto aveva attraversato la strada della curvilinea discesa del Chiunzi, incocciando sbadatamente la ruota della bicicletta sul sellino della quale sedeva il più talentuoso e promettente dei giovani ciclisti italiani – ma il gatto, felino intuitivo quantunque, presumibilmente non poteva saperlo. Il gatto, che si sarà fatto un po’ male anche lui, avrà solamente scorto con la coda dell’occhio una bicicletta che sferragliava, una massa rumorosa che si catapultava sull’asfalto, un corpo vestito di giallo che rotolava in un fosso. Poi sarà scappato il più veloce possibile, il gatto: e non avrà fatto nessun caso al rovesciarsi delle speranze di tutta una nazione pedalante, né al mesto corteo di maglie gialle che, lento lento, accompagnava Pantani lacero verso il traguardo, a colpi di tristi incoraggiamenti e di vane pacche sulla schiena, man mano che si accumulavano impassibili i minuti di ritardo.

Io sono sicuro che un anno dopo, mentre io e Nuzzi ci preparavamo agli esami di maturità almanaccando su quali materie sarebbero state sorteggiate (ancora erano gli esami di maturità veri, quelli) – dicevo, io sono sicuro che un anno dopo Marco Pantani abbia pensato al gatto del Chiunzi ascendendo perentorio verso Plan di Montecampione. Aveva la maglia rosa sulle spalle, Pavel Tonkov alle calcagna e un’inimica cronometro individuale all’orizzonte. Allora pensava al gatto, Pantani, tentava uno scatto, si mangiava ogni volta un po’ di salita – e l’ombra lunga di Tonkov dietro di lui. Ripensava al gatto, ritentava uno scatto, e l’ombra di Tonkov sempre dietro. Il gatto si faceva sinuoso, enorme, beffardo e inafferrabile come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie: un ghigno derisorio sospeso lì in alto. Ragion per cui Pantani scattava la terza, la quarta, l’ennesima volta (e Tonkov sempre dietro, ci mancherebbe altro).

Io mi sarei seduto, a quel punto, io avrei desistito pensando che in fin dei conti la maglia rosa ce l’avevo e che Dio in qualche modo avrebbe provveduto. Chiunque si sarebbe seduto, credo, chiunque avrebbe desistito. Anche Tonkov: e infatti Pantani piazzò il suo scatto millesimo primo e l’ombra di Tonkov, miracolosamente, non c’era più. In cima a Plan di Montecampione, calvo e stremato, Pantani rizzò la schiena e diede le ultime pedalate a occhi chiusi, bocca aperta e braccia spalancate. Un crocifisso in maglia rosa: a significare quanto religiosamente nel ciclismo incedere nella gloria e piegarsi alla sofferenza vadano sovente insieme, anzi, siano la medesima faccenda inscindibile.

Nell’estate, passati gli esami di maturità e preparandomi inconsapevolmente alla progressiva, definitiva e inevitabile separazione da Nuzzi (uno che ti telefonava mezz’ora dopo la scuola al solo scopo di comunicarti che nel pomeriggio c’era la crono, o il Mortirolo, o qualsiasi pezzo di strada asfaltata conferisse un senso nuovo al pomeriggio e un valido motivo per non fare i compiti) – dicevo, nell’estate lessi Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Vi appresi dell’esistenza di Fagotto, gattaccio malefico che incarnava il male e assisteva Satana nei secoli dei secoli. Sarà un caso ma, leggendolo a letto dopo pranzo, il libro mi cadde di mano e contrariamente al mio solito mi addormentai pesante, risvegliandomi di soprassalto cinque minuti, no, un quarto d’ora, no, mezz’ora dopo forse, con un pensiero fisso che mi urlava nel cervello: il Galibier, il Galibier! E nel preciso istante in cui accesi la tv dopo aver cercato il telecomando in ogni dove, vidi un muro di pioggia dal quale si distingueva appena un omino che si ingrandiva progressivamente pedalando verso la telecamera un po’ più veloce del gruppetto che lo inseguiva. Era giallo e blu. Era Pantani. Fagotto e tutti i gatti suoi pari giacevano immoti sul materasso, immobilizzati nel libro aperto e schiacciati dalla copertina rovesciata. Intuii che stavolta sarebbero toccati a Ullrich, scortato dai suoi compagni di squadra fucsia, gli impassibili minuti di ritardo, le vane pacche sulla schiena e i più tristi degli incoraggiamenti. Pantani, lui, nel giro di un paio d’ore sarebbe diventato meravigliosamente giallo.

Non so Nuzzi, ma io tendo a non festeggiare mai San Valentino: un po’ perché mi sembra una festa da femminucce, un po’ per rispetto ai santi Cirillo e Metodio, che sono più importanti, un po’ perché il 14 febbraio per me è sempre stato il compleanno di Gianni Bugno (che ci volete fare, il ciclismo è un amore cieco). Non so Nuzzi, ma io quattro anni fa vivevo a Napoli insieme a tre miei colleghi, a metà di una salita ripida che conduceva da Piazza Dante a via Salvator Rosa, ché ogni sera si rincasava per cena col fiatone. E ogni sera, immancabilmente, trovavamo inequivocabili tracce del passaggio di un gatto sul pianerottolo: si vendicava quotidianamente della nostra indifferenza alla sua continua e miagolante richiesta di cibo. “Niente te pozzo fa’”, soleva chiosare il mio coinquilino romano, “niente te pozzo fa’, te piscio la porta de casa”. La sera del 14 febbraio 2004, rincasando, trovammo il pianerottolo asciutto e lindo come se il gatto ci avesse appena passato il Vetril; poiché i gatti non sogliono fare pulizie, ne dedussi che doveva essere andato altrove, in trasferta, e infatti poco dopo il telefonino mi squillò un messaggio che sopperiva alla mancanza della tv: “Hai saputo di Pantani, oggi?”.

Non era Nuzzi, però. Anzi, siccome sono sicuro che Nuzzi oggi come allora legga la Gazzetta, siccome sono ancora più sicuro che ovunque egli sia e qualsiasi cosa faccia sbirci continuamente il sito, grazie alle nuove tecnologie che dieci anni fa ci sognavamo, e che magari saltuariamente legga anche Quasi Rete – be’, in tal caso, Nuzzi, se oggi pomeriggio hai tempo telefonami. Il numero è sempre quello, parleremo di Pantani e sarà la controprova che alla fine non ha vinto il gatto.

(Sempre sullo stesso argomento, e sempre sullo stesso sito, è bene leggere l'interento del maestro Andrea Majetti: A Marco, qui nous a fait rêver; nonché quello di Frank Parigi: Quando ci portava in cima.)

Gurrado invecchia ma non dimentica

Gianni Bugno è nato a Brugg (Svizzera)
il 14 febbraio 1964.
Auguri.




Marco Pantani è morto a Rimini (Romagna)
il 14 febbraio 2004.
Lacrime.

mercoledì 13 febbraio 2008

Laicità obbligatoria



Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta!
(Giona 3, 4)

Santi e secchioni, fuori dai
(Alice Munro)


Ammetto che avevo rimosso l’esistenza di Libertà e Giustizia, l’associazione nata qualche anno fa fra grandi strombazzamenti e magna profusione di Umberti Echi quale strenua resistenza al governo Berlusconi, che com’è noto ha ridotto la libertà di stampa, imposto la visione obbligatoria della messa domenicale su Rete4 e soprattutto vessato le classi più indigenti (quali professori universitari, opinionisti di professione, autori di volumi da acquistare necessariamente ma da non leggere mai). Se non che Libertà e Giustizia è sopravvissuta al governo Berlusconi e ha continuato a difendere la libertà di pensarla a modo suo (ma non diversamente), come ho potuto constatare ieri sera nel corso di una conferenza alla quale ho assistito per esclusivo rispetto nei confronti della presenza del Vescovo di Pavia (che non dovrebbe essere iscritto a Libertà e Giustizia, a quanto ne so; o almeno spero).

È stato affrontato un tema inedito, la laicità, con ammirevole equidistanza: il moderatore ha voluto dedicare la meritata attenzione, infatti, all’“alleanza mefistofelica” fra gli interessi delle gerarchie ecclesiastiche e “le ciniche scelte” della “ridicola genia” degli atei devoti, rappresentati da un grande (e grosso) giornalista, direttore di un celebre quotidiano, che non è mai stato nominato ma del quale sono stati ribaditi la disonestà intellettuale e l’esclusiva attenzione al ritorno privato (è noto, infatti, che meno persone abortiscono più Giuliano Ferrara ingrassa).

Un celebre filosofo della politica ha spiegato con sufficiente chiarezza che bisogna stabilire un’immaginaria asticella del danno procurato, al di sopra della quale le azioni vanno punite, ma al di sotto della quale vanno permesse. Esempio pratico: la pedofilia si colloca al di sopra dell’asticella, poiché procura indubbiamente un danno all’umanità, pertanto va sanzionata. L’aborto, l’eutanasia, la fecondazione assistita ballano il limbo al di sotto dell’asticella, pertanto non c’è necessità di sanzionarli (ferma restando la possibilità di evitarli privatamente, che è già qualcosa). Nessuno ha chiesto al filosofo chi stabilisce l’altezza dell’asticella, visto che si tratta esattamente del punto in questione (io ritengo che aborto, eutanasia, fecondazione assistita e compagnia bella si collochino ben al di sopra dell’asticella; un pedofilo mi dirà che la pedofilia si colloca sotto, e così via). Probabilmente, risposta sottintesa, la stabilisce il filosofo stesso.

Un professore di fisica si è domandato cosa succederebbe se ogni domenica a mezzogiorno, da una finestra del Quirinale, si affacciasse il Presidente della Repubblica per chiedere al Vaticano di abolire il celibato degli ecclesiastici, consentire il sacerdozio femminile e introdurre un’ora settimanale di darwinismo spinto in tutti i seminari. Trattandosi di una delle conferenze organizzate apposta per rabbonire la coscienza del pubblico facendolo sentire intelligente per un paio d’ore, per l’aula non è risonata pernacchia alcuna, né si è avuta la maleducazione di ricordare al professore di fisica che il Presidente della Repubblica, abitando al Quirinale, vive in casa d’altri (d’altronde, non era mica un professore di storia).

Va lodato l’intento laico di non imporre al Vescovo di sputare coram populo sul Crocifisso.

Di là da queste amene considerazioni, che lasciano il tempo che trovano perché non sarò certo io (temo) a frenare la deriva dei tempi e dei cervelli, ho ritenuto opportuno star fermo e zitto fino al termine della conferenza perché sono una persona educata (io), ma ci sarebbe stato motivo sufficiente di prendere cappello e andarsene sin dalle prime parole del moderatore immoderato. È tuttavia servito, restare, a sfilare via dall’aula più convinto che questa lista pro-life sulla quale ero e sono un po’ scettico potrebbe servire a qualcosa: se Libertà e Giustizia ha abbaiato così tanto, evidentemente qualcuno deve averle pestato la coda, e Giuliano Ferrara non è propriamente un fuscello.

martedì 12 febbraio 2008

Libertà di censura

I giornali italiani brillano sempre per la capacità di riuscire a mettere in risalto, fra due attigue, la notizia meno importante. Oggi il Corriere della Sera dedica un paginone alla notizia che Giuliano Ferrara si impegnerà in prima persona nella sua lista pro-vita (o anti-aborto, che è la stessa cosa, non fidatevi dei sofismi progressisti), e soltanto un inciso alla necessità che quindi, per legge, lo stesso Ferrara sia costretto ad abbandonare Otto e Mezzo.

La vera notizia non è tanto la lista, che era nell’aria da settimane, quanto l’abbandono forzato. Dovete sapere che in Italia non c’è libertà di parola, o quanto meno se ne fraintende il senso. La televisione viene percepita come mezzo infame che porta a votare compulsivamente per la persona che vi appare di più: è il solito retaggio dell’antiberlusconismo cieco, quello che ritiene che Berlusconi vinca perché possiede tre reti televisive e non perché sa usare la televisione come mezzo comunicativo. Quest’idea non tiene presente due fattori: il primo, che il coltello (ossia il telecomando) è nelle mani dell’utente, il quale può far sparire in un nanosecondo il faccione di chiunque non gli aggradi; il secondo, che non sempre la visione reiterata conduce al gradimento. Ho conosciuto molte persone che si facevano un dovere di ammazzare Pippo Baudo per il solo irragionevole motivo di averlo visto troppo spesso.

Il risultato del pregiudizio antitelevisivo è che, allo scopo di eliminare la distanza che nel corso di innumerevoli passaggi televisivi necessariamente si verrebbe a creare fra (poniamo) un Berlusconi che sfonda lo schermo e un Prodi tutt’al più buono a sputacchiare sul cameraman, si è optato per razionare i medesimi passaggi e imbrigliare la creatività del parlatore (pensate all’orrendo faccia a faccia del 2006 fra due candidati premier imbalsamati), così da eliminare in partenza il vantaggio del più bravo, percepito come ingiusto.

Siamo una nazione che fraintende la giustizia come livellamento verso il basso; ne consegue che ad ampie falcate stiamo diventando una nazione di mediocri. Il caso-Ferrara è eloquente: con indiscutibile coraggio, il direttore di un quotidiano (già anchorman televisivo, già ministro della Repubblica, già studioso di Leo Strauss) decide di mettersi in discussione con una lista elettorale i cui obiettivi potranno essere percepiti come discutibili (io non li discuto, sia chiaro), e la prima diretta conseguenza della sua scelta è che deve mollare la trasmissione che con un guizzo di genio ha fondato e che con ammirevole ostinazione ha condotto giorno dopo giorno nel corso degli anni.

Ora chi lo spiega a mia madre, che guarda Otto e Mezzo pressoché ogni sera? Il ragionamento che potrei farle è il seguente: Ferrara non potrà più prendere parte a Otto e Mezzo per non svantaggiare troppo i suoi competitori elettorali che, nel corso della loro lunga vita, non sono stati in grado di metter su uno straccio di trasmissione televisiva né di dire qualcosa di intelligente fissando la lucetta rossa della telecamera che li inquadrava. Ahi, serva Italia!


lunedì 11 febbraio 2008

L'altro da sé

Lui è Walter Veltroni, mica pizza e fichi. Ha detto che bisogna aumentare i salari. Mica è Prodi, lui, mica vuole affamare la gente. Lui è Walter Veltroni, il segretario del Partito Democratico. Ha detto che bisogna ridurre le tasse. Mica come Prodi. Lui è Walter Veltroni, il segretario del Partito Democratico. Bisogna garantire la sicurezza dei cittadini. Non come ha fatto Prodi, per carità. Perché lui è Walter Veltroni, il segretario del Partito Democratico. I giovani devono avere una speranza. Prodi ai giovani ha dato le stesse speranze che Barbablù concedeva alle donne. Ma lui è Walter Veltroni, il segretario del Partito Democratico. Bisogna farsi capire dai cittadini. Mica come Prodi, che biascicava come un curato ubriaco. Bisogna scan-di-re, parlare forte e chiaro, proprio come fa Walter Veltroni, il segretario del Partito Democratico. Bisogna curare l’immagine vitale, elegante e nobile dell’Italia nostra. Avete presente come si conciava Prodi quando andava a correre o a sciare? Ecco, il contrario farà Walter Veltroni, il segretario del Partito Democratico. Bisogna, infine, dare segnali inequivocabili di cambiamento, di rottura col passato. E lui lo farà sicuramente, perché non è Prodi. Lui è Walter Veltroni, il segretario del Partito Democratico. Prodi, invece, del Partito Democratico è soltanto presidente.

venerdì 8 febbraio 2008

Lo Stato dei Licei, 10: psicopatologia dell'insegnante quotidiana

[E così, Gurrado se ne va a Padova senza nemmeno aspettare che finisca la settimana lavorativa (d’altronde non lavora, lui); e così, Silvia G prende possesso del suo portatile senza nemmeno aspettare la consueta scadenza del sabato, così da garantirsi un po’ più di tempo libero e un’ulteriore serata da trascorrere in discoteca a ballare seminuda su enormi cubi di ghiaccio a iniettarsi sostanze chimiche nella spina dorsale come qualunque adolescentessa che si rispetti. Pertanto scrive:]

Dal momento che, come confermano i giornali, la televisione e addirittura internet, quella di noi studenti liceali odierni è una generazione degenerata, il sommo dirigente scolastico del liceo Voltaire ha pensato bene di assumere una giovane psicologa (o psicanalista, o psicoterapeuta, o psichiatra, o, più probabilmente, psicopatica), la quale, tutti i pomeriggi, tiene uno “sportello di ascolto” per gli studenti che sentono la necessità di esternare i loro drammi interiori e di dar sfogo ai tanti problemi che affollano la loro testolina. È stata consigliata la frequentazione dello “sportello” a tutti coloro che intendo parlare di insuccessi scolastici, episodi di bullismo, anticoncezionali, sfruttamento, fobie, attacchi di panico, interpretazione dei sogni, sesso, droga e rock’n’roll. La dottoressa in questione si chiama Alda Filippi e, non potendo vantare particolari doti fisiche, né alcuna affabilità caratteriale, è stata presa poco in considerazione sia dagli alunni maschi del liceo Voltaire, sia dalle femmine; i giovani infatti, vergognosi di esporre i loro problemi adolescenziali davanti ad un’estranea, non hanno mai prenotato nemmeno un’ora di “sportello di ascolto”, lasciando la dottoressa Filippi sola o, tutt’al più, con l’unica compagnia della Settimana Enigmistica.

Capitò un giorno che, durante i ricevimenti generali pomeridiani con gli insegnanti, nessun genitore si presentasse al cospetto della professoressa Gatto, docente di educazione fisica. Costei, indispettita dal fatto che né i padri, né le madri dei suoi alunni si interessassero alle prestazioni dei ragazzi alla spalliera, lasciò la sala udienze con un gesto di teatrale disappunto e decise di concedersi un cappuccino molto zuccherato alla macchinetta automatica. Il caso volle che, proprio in quel momento, proprio davanti alla stessa macchinetta, la dottoressa Filippi stesse cercando di prelevare il proprio resto di venticinque centesimi, che era rimasto incastrato nell’infernale apparecchio. Spinta da un moto di solidarietà e, soprattutto, dall’impazienza di sorseggiare il cappuccino, la professoressa Gatto mostrò alla dottoressa come costringere la macchinetta a tirare fuori le monetine, assestando alla stessa un poderosissimo cazzotto (si valuti che la Gatto, in gioventù, era stata atleta). La dottoressa Filippi, traboccante di riconoscenza, offrì un cappuccino alla professoressa con il resto appena prelevato, e le signore si misero dunque a fare due chiacchiere; le chiacchiere, come spesso accade, si moltiplicarono, divenendo quattro, otto, sedici e così via, avendo la professoressa Gatto deciso di sfogare sulla psicologa tutta la stizza che la sua condizione di insegnante di educazione fisica le procurava. Si lagnò della scarsa considerazione che le era riservata, di come i colleghi di lettere la guardassero dall’alto in basso, dei ragazzi, che, a furia di star piegati sui libri, venivano su con la schiena storta senza che lei potesse intervenire a dovere. La dottoressa, molto professionalmente, ascoltava annuendo di tanto in tanto; estratto poi un blocchetto di fogli dalla borsa, si mise a prendere appunti. Infine, quasi dispiaciuta, si congedò dalla professoressa Gatto, pregandola di tornare da lei ogni qual volta ne avvertisse la necessità.

La Gatto, molto amica della professoressa Ivani e della professoressa Pedro, confidò loro della chiacchierata con la psicologa, e di come quella giovane dottoressa si fosse mostrata disponibile nei suoi confronti, e di quanto si fosse tolta un peso dal cuore parlando con lei, e di come le avrebbe fatto piacere tornarci. Il giorno dopo, anche l’Ivani si recò dalla dottoressa Filippi, per esternare il suo dramma di insegnante di lingua viva, l’inglese, messa in competizione con delle lingue morte, e da esse puntualmente sconfitta. La Filippi ascoltava, annuiva, prendeva appunti. Così fece anche con la professoressa Pedro, insegnante di matematica, che le parlò della sua dipendenza ossessiva dal caffé; così con la professoressa Selli, che raccontò le dolorose origini della natura femminista che la caratterizzava, la quale affondava le sue radici nell’abbandono da parte del fidanzato a un passo dall’altare. La Filippi ascoltava, dava consigli, sorrideva.

Le professoresse, nel giro di una settimana, cambiarono: si dimostravano pazienti nei confronti degli alunni, e disponibili ad ascoltarli. Non provavano più un sadico divertimento nel veder soffrire i giovani discepoli, certo perché le sedute della dottoressa Filippi avevano sortito un insperato effetto benefico sul loro umore e sul loro carattere. Fu grande dunque la loro sofferenza quando, a causa dello scarso successo che la psicologa aveva riscosso tra gli studenti del liceo Voltaire, il sommo dirigente scolastico decise di licenziarla, ritenendola giustamente un’inutile spesa che gravava sul bilancio della scuola. Le povere donne avrebbero voluto intervenire, raccogliere firme, costruire barricate sui corridoi per impedire che la loro sola fonte di soddisfazione venisse congedata in quel modo. Tutto si rivelò inutile.

Dal momento che i benefici effetti della dottoressa Filippi sull’inclinazione delle insegnanti stanno cominciando a dissolversi, gli studenti del liceo Voltaire (e della Terzaddì in particolare) cominciano a simulare gravi sintomi di squilibrio al cospetto del sommo dirigente: c’è speranza che, seppur indirettamente, la psicologa torni ad alleviare un poco le sofferenze dei giovani alunni e, curando le loro professoresse, ad aiutarli almeno in parte a risolvere i propri prob [Ma ecco che scatta l’allarme a orologeria predisposto da Gurrado in partenza, e il portatile si richiude all’improvviso sulle mani innocenti di Silvia G, come una cozza ipertecnologica, come una ghigliottina postmoderna; ne consegue che il file termina qui]

Yes, weekend!

Oggi piglio e vado tre giorni a Padova, a visitare degli amici carissimi e a impetrare varie grazie a Sant'Antonio: ad esempio che mi faccia trovare un lavoro, che mi faccia trovare un lavoro particolarmente remunertivo, che mi faccia trovare un lavoro non eccessivamente faticoso, che mi faccia trovare un lavoro a Modena, che mi faccia trovare un lavoro altrove con frequenti trasferte a Modena, che mi faccia trovare un lavoro che non abbia nulla a che vedere con Modena ma che mi consenta di andarci quando ho voglia, che mi faccia trovare un lavoro talmente lontano da Modena che mia madre si convinca finalmente che non sono fidanzato con nessuna modenese, che mi faccia trovare un lavoro nel campo dell'editoria, che mi faccia trovare un lavoro che mi lasci tempo libero per scrivere, che mi faccia trovare un lavoro che mi consenta di smettere finalmente di scrivere cazzate, che mi faccia trovare un lavoro manuale così che perda a uno a uno le dita e con esse ogni possibile utilizzo delle medesime sulla tastiera, che mi faccia trovare un lavoro che valorizzi la mia abilità di lettore indefesso, che mi faccia trovare un lavoro che mi lasci tempo di leggere, che mi faccia trovare un lavoro che mi lasci tempo di leggere solamente il Guerin Sportivo, che mi faccia trovare un lavoro nella redazione del Guerin Sportivo, che mi faccia trovare un lavoro che mi stanchi talmente tanto da impedirmi di leggere anche soltanto la marca del frigorifero, che mi faccia trovare un lavoro grazie al quale non sia più necessario leggere cazzate, che mi faccia trovare un lavoro grazie al quale disimparare a leggere; oppure che non mi faccia trovare nessun lavoro, purché mi paghi lui stesso regolarmente.



Mia madre invece ritiene che io vada a Padova a prendere la meningite.