lunedì 31 marzo 2008

Comunicazione di servizio


Vero, per qualche giorno è stato chiuso e inaccessibile come una vergine col suo unicorno d'ordinanza. Ora finalmente Books Brothers è nuovamente aperto al pubblico, guardacaso con un intervento scritto da me.

Tranquilli, vinciamo

Come sapete, da qualche giorno è proibito pubblicare sondaggi elettorali. Ciò non toglie che si possano fare due conti sulla base di dati noti a chiunque voglia consultare il sito del Ministero dell'Interno, ossia quelli delle elezioni del 2006.

I politologi concordano sull'evenienza che in Italia si tende a votare sempre allo stesso modo; quest'anno, tuttavia, non solo si sono sfaldate le tradizionali coalizioni ma soprattutto quasi tutti i partiti sulla scena nel 2006 si sono rimescolati dando vita a un panorama politico che appare del tutto nuovo.

Appare e basta, tuttavia; in realtà è sempre lo stesso. Per prima cosa, i passaggi di voti da una coalizione all'altra ci sono già stati e sono stati quasi tutti dal centrosinistra al centrodestra, visto che il governo Prodi ha dato tanto cattiva prova di sé. Il centrodestra, invece, non può essere votato da meno persone dei fedelissimi che l'hanno tenuto a galla nel nero 2006. Piuttosto si tratta di ridefinire i rapporti interni alle singole ex coalizioni: ossia quanti voti si sposteranno dal Partito Democratico alla Sinistra Arcobaleno e viceversa, e quanti dal Popolo della Libertà all'Unione di Centro o a La Destra e viceversa.

Le proporzioni, tuttavia, resteranno presumibilmente invariate. Per questo i risultati delle elezioni del 2006 sono preziosi per intuire chi vincerà nel 2008.

Due anni fa la situazione era questa: Prodi e la coalizione di centrosinistra erano uniti e particolarmente forti, mentre Berlusconi aveva una coalizione sfaldata e al minimo dei consensi. Ragioniamo: il calcolo del trasferimento dei voti, pari pari, dai partiti del 2006 ai partiti del 2008 può illustrare il worst case scenario, il peggior scenario possibile: quello in cui i partiti di sinistra non perdono un voto e Berlusconi non ne guadagna nemmeno uno.

Male che debba andare, dunque, alla Camera i risultati delle prossime elezioni saranno questi:

Partito Democratico (Ulivo + metà Rosa nel Pugno) 32,57% 174 seggi
Italia dei Valori 2,30% 12 seggi
Coalizione WALTER VELTRONI 34,87% 186 seggi

Sinistra Arcobaleno (Rifondazione + Comunisti Italiani + Verdi)
Coalizione FAUSTO BERTINOTTI 10,22% 55 seggi

Partito Socialista (metà Rosa nel Pugno + I Socialisti + metà Dc/Nuovo Psi)
Coalizione ENRICO BOSELLI 1,98% 0 seggi

Popolo della Libertà (Forza Italia + Alleanza Nazionale + Pensionati + metà Dc/Nuovo Psi + Alternativa Sociale) 37,97% 303 seggi
Lega Nord 4,58% 37 seggi
Coalizione SILVIO BERLUSCONI 42,55% 340 seggi

Unione di Centro
Coalizione PIERFERDINANDO CASINI 6,76% 36 seggi

La Destra (Fiamma Tricolore+Destra Nazionale)
Coalizione DANIELA SANTANCHÈ 0,60% 0 seggi


Considerazioni a latere. Innanzitutto, ho tenuto presente esclusivamente l'Italia, con l'esclusione del seggio uninominale della Val d'Aosta e dei dodici seggi assegnati all'Estero, perché tali seggi sono ininfluenti ai fini del cospicuo premio di maggioranza. Questo significa che il numero di 340 deputati per Berlusconi è il minimo, e direi che è un minimo piuttosto tranquillizzante. Inoltre dalle note che ho messo fra parentesi va notato come abbia considerato la maggior stabilità possibile per ogni partito: cioè non ho considerato che Casini perderà i voti di Giovanardi (dall’Udc al Popolo della Libertà), Berlusconi perderà i voti di Storace (dal Popolo della libertà a La Destra), Veltroni perderà i voti di Mussi (dal Partito Democratico alla Sinistra Arcobaleno) e Bertinotti perderà i voti di Ferrando e Turigliatto (dalla Sinistra Arcobaleno ai vari Partiti Comunisti); queste variazioni, essendo in entrata e in uscita da tutti i principali partiti, dovrebbero concorrere ad annullarsi reciprocamente e soprattutto la loro incidenza non sarà tale da scompaginare le proporzioni consegnate dalle elezioni scorse. In particolare, se pure Berlusconi perderà verosimilmente dei voti in favore di Casini o soprattutto di Storace (il quale sicuramente conseguirà un risultato superiore dello 0,60% dato dalla somma pregressa delle forze neofasciste con l'esclusione della Mussolini che sostiene il Popolo della Libertà), l'emorragia sarà arginata dal travaso di consensi (brutalmente, da sinistra a destra) avvenuta nel corso dei due anni di malgoverno Prodi. Alla stessa maniera, l'aumento dei consensi per Berlusconi sarà ammortizzato dalla presumibilmente inferiore partecipazione al voto, il cui diminuire tradizionalmente favorisce i partiti di sinistra. Insomma, sui piatti della bilancia pro e contro si equivalgono per tutti.

In definitiva, basta leggere i dati del 2006 per capire che allo stato delle cose fra due settimane la coalizione che sostiene Berlusconi avrà circa sette punti di vantaggio su quella che sostiene Veltroni. Scommettiamo?

Domani vi fornisco i risultati del Senato. Vi assicuro che sono divertenti.

sabato 29 marzo 2008

Dimmi per chi voto

Sto facendo indigestione di test atti a rivelarmi se il mio inconscio vuole votare davvero per Berlusconi e Fini così come la ragionevole ragione ha già deciso per conto suo. Fermo restando che, quali che siano i risultati di tutti i test possibili, voterò Pdl anche se entro il 13 aprile dovessi malauguratamente essere già morto, il sito Dimmi chi sei, ti dirò chi votare dà indicazioni interessanti. In primo luogo, è forse quello che presenta le domande più circostanziate e più complete (fatti tutti i distinguo del caso, è ovvio che si tratta di un gioco). Inoltre, il risultato consiste in un istogramma che stabilisce il grado di affinità dell'elettore (io) coi singoli partiti. Nel mio caso, è venuta fuori questa roba:

Da ciò si deduce che ho una notevole affinità con Udc, Movimento per le Autonomie e La Destra - che tanto per gradire si presentano in tre coalizioni differenti. La Lega Nord mi convince più del Pdl. Infine, un dito mignolo della mia mano sinistra potrebbe essere propenso a prendere in considerazione remotamente l'ipotesi di votare Di Pietro o Bertinotti, ma pur di non votare Pd mi farei tagliare ogni sporgenza corporea, visto che l'affinità risultante è uno 0% che ha sorpreso perfino me.

Poiché il premio di maggioranza comporta però di prendere in considerazione non tanto i partiti quanto le coalizioni, riguardo a esse la situazione è tale:

Sarebbe a dire che posso votare indifferentemente per Berlusconi, Casini o Santanché; e che pur di non votare Veltroni potrei turarmi il naso (e vari altri buchi) e votare Bertinotti. Direi che questo giochino è quasi preoccupante.

Lo Stato dei Licei, 15: il sesso degli angeli

[Se la vendetta è un piatto che si serve freddo, mi piacerebbe chiamare stamattina la professoressa Stronzacchioni, che dieci anni fa fu membro esterno d’Italiano nella commissione dei miei esami di maturità. Il 4 luglio del 1998, in coda a un esame orale che mi fruttò complimenti e riverenze, la professoressa Stronzacchioni prese la parola per dire che il mio tema d’Italiano non era un gran che, e che parlando di Italo Svevo avevo addirittura utilizzato l’orrendo termine inettezza. Io ero stanco e non replicai; lo faccio oggi. Poco prima della prova scritta, infatti, avevo letto il volume che raccoglie i Racconti di Italo Svevo (Rizzoli, 1988) che la professoressa Stronzacchioni con ogni probabilità non ha aperto giammai in vita sua. Senza nemmeno bisogno di leggerlo tutto, a pagina 34 si legge a chiare lettere: era l’inettezza in persona. Parlando di Italo Svevo, avevo utilizzato un termine mutuato dallo stesso Italo Svevo. Il volume dei Racconti, essendo piuttosto corposo (ammonta a complessive 634 pagine), ha un dorso decisamente cospicuo che oggidì, come e più di dieci anni fa, vorrei dare di taglio sulla fronte vacante della professoressa Stronzacchioni. Mi trattengo dal farlo solo perché non so dove ritrovarla; ma, se dovessi incontrarla casualmente per strada, state pur certi che l’aggredirei.
Dallo stesso volume di Italo Svevo sappiate che deriva il titolo di questo blog effimero e tecnicamente inesistente, potenziale palestra di più alti cimenti letterari che di questo passo non arriveranno giammai. Scrive infatti Italo Svevo: Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente. Si deve tentare di portare a galla dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più. Altrimenti facilmente si cade, - il giorno in cui si crede d’esser autorizzati di prender la penna - in luoghi comuni o si travia quel luogo proprio che non fu a sufficienza disaminato. Insomma fuor della penna non c’è salvezza. E ora, Silvia G:]

Gurrado, com’è noto la necessità aguzza l’ingegno; in età giovanile, poi, la mente è ancora elastica, fresca e fantasiosa, e può arrivare a partorire espedienti estremamente creativi per divincolarsi dagli impicci, soprattutto quando le giovani menti in questione appartengono a studenti liceali e gli impicci altro non sono che le temibili interrogazioni quotidiane. Il bisogno tramuta spesso gli alunni della Terzaddì in fini psicologi, pronti a cogliere le debolezze caratteristiche di ogni insegnante e a servirsene conseguentemente per portare avanti i propri interessi; così, volendo distrarre la professoressa di scienze da un’interrogazione programmata, l’arguto alunno inscenerà durante la sua ora un dibattito a proposito delle incredibili difficoltà che gli studenti usciti dal liceo classico incontrano nell’affrontare i test d’ammissione alle facoltà di medicina o di scienze naturali, argomento assai caro alla professoressa Selli, che da sempre vorrebbe organizzare corsi extrascolastici di approfondimento scientifico proprio per questo motivo. Oppure, durante le ore di filosofia, i giovani birbanti distrarranno la professoressa Arcangelo dall’idea di fissare il compito in classe su Sigmund Freud proponendo di appisolarsi tutti quanti sopra i banchi, al fine di sperimentare la bontà de L’interpretazione dei sogni, opera dello stesso Freud, al risveglio.
Nel caso della professoressa Allori, insegnante di storia dell’arte, la fantasia dei membri della Terzaddì può trovare ristoro, essendo l’Allori persona estremamente eccentrica e fortemente predisposta alla pazzia. Sin dalla tarda adolescenza ella si è chiusa nel suo universo di opere d’arte, estraniandosi dal resto del mondo e trovando il pieno appagamento dei sensi soltanto nel rimirare affreschi rinascimentali, pitture impressionistiche e sculture neoclassiche. Per di più, l’Allori pare aver scelto il movimento dadaista come modello di vita, e si diverte a vestire in maniera eccentrica e a coniare nuovi creativi termini tecnici (tra i tanti spicca “pangeocromatico”, letteralmente: “che contiene in sé i colori di tutta la Terra”).
La stravagante professoressa interroga di rado e con scarsa severità (la prima e unica domanda che mi abbia posto è stata: -Dimmi, Silvia G, i famosi Bronzi di Riace li preferisci da davanti o da dietro?-, premurandosi poi di comunicarmi che lei li preferisce da dietro), ragion per cui generalmente gli alunni non sentono la necessità di ricorrere a espedienti originali per distrarre l’Allori, trovando invece le sue lezioni più che mai gradevoli e spassose.
Capitò tuttavia un giorno che anche la professoressa di storia dell’arte, oppressa dalla necessità di racimolare qualche voto sul suo registro prima degli scrutini di fine anno, decidesse di interrogare, mettendo in allarme tutti i membri della Terzaddì, i quali subito provvidero a correre ai ripari. Dopo che l’Allori ebbe arditamente pregato Giovanni T di descrivere lo splendido tondo della Madonna del Magnificat, nel quale Botticelli ritrae la Vergine e il Bambino circondati da cinque angeli, l’alunno cominciò: -Mirabili sono le capigliature di Maria e degli angeli attorno a lei. Per fare un esempio, osservando il secondo angelo a sinistra, noteremo che è riccio e biondo… o forse (mi sovviene ora) sarebbe più corretto dire riccia e bionda? Mi dica lei, professoressa: si tratta di figure maschili o femminili?
L’Allori, colta alla sprovvista, esitò perplessa; evidentemente mai s’era posta una simile domanda, prima di allora. Intervenne dunque l’alunno Ruggero F, buono e degno amico di Giovanni T:
-A parer mio, si tratta indubbiamente di maschi. Mai si è infatti sentito parlare di angelE, ma sempre e soltanto di angelI.
-Mi permetto di contraddirti!-, obbiettò Alberto I, -Indicando gli angeli esclusivamente al maschile si potrebbe intendere “genere angelico”, così come parlando di “uomini” si fa di solito riferimento al genere umano tutto, donne comprese.
-I tratti dei soggetti in questione-, continuò Giovanni T, -lasciano inoltre pochi dubbi: essi sono delicati, soavi, eterei. Tutte caratteristiche che meglio si associano al sesso femminile che a quello maschile.
-Si tratta di giovani di carnagione chiara-, proseguì risoluto Ruggero F, -comprenderete che l’aspetto efebico è giustificato!
La professoressa lasciava discorrere i suoi alunni, visibilmente confusa e altrettanto mortificata: in quanto insegnante di storia dell’arte avrebbe dovuto essere lei stessa a sciogliere i dubbi degli studenti; eppure, quella domanda la lasciava attonita e priva di argomentazioni.
-Io ritengo che siano maschi!-, esclamavano alcuni.
-E io invece penso che siano femmine!-, obbiettavano altri.
A risolvere definitivamente la disputa intervenne il sospirato suono della campanella, che col suo vivace trillare pose fine ad un’ora in cui, come spesso accade nei licei classici, si era vanamente discusso sul sesso[NdG: La commissione di vigilanza della Rai, ritenendo che un dibattito del genere avvantaggi smaccatamente i temi avallati dalla lista di Giuliano Ferrara, in ottemperanza alle vigenti norme della par condicio rimuove Silvia G dal suo quaderno e quindi il manoscritto termina qui.]

venerdì 28 marzo 2008

Scusate, dove sono?

Pur di non lavorare, oggi ho rifatto il giochino di ieri in tutt'altra salsa, basandomi sui più scientifici e verosimili dettami del sito www.voisietequi.it. A seguito di faticose ricerche, è emerso che il partito al quale sono più vicino è il Pdl; seguono a pari merito Destra, Udc e Lega. Sono piuttosto lontano dal PD e dal Partito Socialista. Sono lontanissimo dall'Italia dei Valori, e dalla restante canaglia comunista.


Due considerazioni
a latere del grafichetto:
1) risulto più a destra di Berlusconi, e vabbe', ma anche di Storace, perbacco;
2) ciò nonostante sono meno vicino alla Sinistra Arcobaleno che alla Sinistra Critica e al Partito Comunista dei Lavoratori.

Infine, va rilevata la completa assenza di Giuliano Ferrara e della lista "Aborto? No Grazie", l'unico altro partito che potrei prendere in considerazione di votare se il Pdl non ci fosse e non si potesse inventarlo.

giovedì 27 marzo 2008

Io sono qui

Le elezioni si avvicinano, i giochini abbondano, il tempo da perdere non manca, quindi:




Tradotto, mi trovo esattamente a mezza strada fra la faccina di Casini e il faccione di Ferrara. Trattandosi di un grafico desunto dal sito de La Repubblica, non è assolutamente attendibile.

martedì 25 marzo 2008

L'errore anagrafico

(Gurrado per Books Brothers)

Dante Virgili ha un nome che sembra uno pseudonimo, ma non lo è, e una fama che ormai lo precede, ma che curiosamente ha seguito la sua morte. La scarna biografia in terza di copertina informa che è nato a Bologna nel 1928 ed è morto a Milano nel 1992, forse contravvenendo all’esplicita indicazione che aveva lasciato in Metodo della Sopravvivenza (peQuod, 2008): “Bisogna cercare di non morire in un ospedale a Milano”. Curiosamente, Dante Virgili è stato famoso in vita sotto altri nomi, pseudonimi meno surreali di quello vero, quale autore di libri per ragazzi e western. Nel 1970 ha pubblicato il suo primo romanzo eccessivo e filo-hitleriano, La Distruzione, il quale pur essendo edito da Mondadori – testuali parole della terza di copertina – “passò inosservato, cadde nell’oblio”; finché non è stato ripubblicato nel 2003 da peQuod, scatenando un caso editoriale.

Volendo essere estremamente sintetici, il caso editoriale in questione può essere così riassunto: vale la pena di pubblicare un autore dichiaratamente affascinato dal nazismo? Ora, se consideriamo la questione da un punto di vista politico, un ipotetico nazista potrà obiettare che lo stesso criterio potrebbe essere applicato ai sostenitori di qualsiasi altra ideologia che possa aver portato a risultati più o meno assimilabili, ragionamento che ci condurrebbe in un vicolo cieco e molto probabilmente in un circolo vizioso di controrecriminazioni, quindi meglio lasciar perdere. Se invece consideriamo la questione da un punto di vista etico, dobbiamo dedurne che essendo il nazismo un male oggettivo, chi lo propugna dev’essere ridotto a tacere; questo però comporta che bisognerebbe a priori definire la quantità minima di male necessaria alla censura, ponendo un’asticella sopra la quale si deve imporre il silenzio. È troppo complicato e soprattutto inutile: per fortuna la letteratura non è filosofia, quindi deve occuparsi della forma e non dei contenuti. Altrimenti, si finisce per proibire la lettura di Delitto e Castigo allo scopo di salvaguardare la cervice delle vecchiette affittacamere, o Moby Dick per combattere l’estinzione delle balene bianche. Chi ama la letteratura non bada troppo a cosa c’è scritto.

Per questo ritengo che l’unica domanda da porsi riguardo a Dante Virgili debba essere: scrive bene o no, ovvero vale la pena di pubblicarlo? Per rispondere adeguatamente, credo che aiuti leggere il suo ultimo romanzo, pubblicato postumo pochi mesi fa da peQuod. Metodo della Sopravvivenza è la storia della disperata estate di un professore di tedesco, che nel 1990 vede i suoi ideali (nazisticheggianti) di supremazia germanica ridotti al trionfo calcistico di Matthäus e soci alla fine dei mondiali di calcio. Il lettore avveduto, che sappia della vita di Virgili quel minimo che è scritto in terza di copertina, potrà notare una notevole consonanza fra l’autore e il protagonista anonimo: non tanto nella rispondenza fra i loro discutibili ideali quanto nell’essere entrambi nati fuori tempo massimo, ed essere quindi immersi in ambienti a loro del tutto estranei. Così come Virgili pare vittima di un errore anagrafico, per essere vissuto sfasato rispetto alla diversa gloria letteraria che lo ha atteso e per essere morto una decina d’anni prima che s’iniziasse a parlare insistentemente di lui, il professore di tedesco che vagola per la Milano semideserta dell’estate 1990 è consapevole della propria tragedia storica: vive nel continuo scacco di veder ruotare attorno a sé un mondo che, prima ancora di rifiutare l’ideale nazista non si pone in realtà minimamente il problema di prenderlo in considerazione. Questo scacco, quest’ottusa indifferenza, si realizza principalmente su tre campi che coincidono grossomodo con le tre sezioni del romanzo di Virgili.

Innanzitutto, come ho già detto, il calcio. L’estraneità del protagonista alla passione nazionalpopolare è enorme, oltre che decisamente indicativa. Il fatto che nemmeno sappia chi sia Schillaci, l’uomo che ha fatto impazzire tutta Italia per un mese, non poteva essere più icastico al proposito; e così la distante notazione della tragedia nazionale, l’eliminazione ai rigori contro l’Argentina di Maradona. Ciò che emerge è la creazione generalizzata e supinamente accettata di un nemico fasullo (l’Argentina in questo caso) per tacitare gli istinti bellici; che allo stesso modo rende di plastica il dominio della Germania sul mondo, concepito da Hitler coi carri armati e realizzato da Matthäus coi palloni di cuoio.

Questa sperequazione fra le proiezioni del professore e la realtà effettiva si verifica anche quando, con una mossa a sorpresa, l’Iraq occupa il Kwait nell’agosto dello stesso 1990. L’istinto bellico parrebbe spostarsi dalla sublimazione calcistica al secondo campo d’interesse che circonda l’anonimo professore, e che potremmo definire col generico nome di politica. Se non che la politica stessa, a fronte dell’alzata d’ingegno di Saddam Hussein, in Italia si riduce a politichetta, si accartoccia su sé stessa: estremamente indicativo al riguardo è l’attrito semantico fra il titolo del Corriere della Sera che annuncia roboante la “guerra” all’imbocco della penisola araba e quello, più modesto, che riferisce della “battaglia” al Senato sulla legge Mammì (liquidata dal professore, e da Virgili, con una considerazione nazi-snob: “Donnerwetter, non ascolto i programmi di Berlusconi”). Stesso discorso vale per l’ondata di melassa che ha investito la caduta del muro di Berlino, e la considerazione – ovviamente sgradita al professore – che una Germania unita deve necessariamente accettare a priori di essere una Germania debole.

Resta il sesso. Se il calcio, stando a una diffusa definizione progressista, è un sedativo reazionario, al contrario il sesso diventa per il professore da un lato l’unico possibile esercizio del proprio dominio sulla vita altrui, dall’altro anche l’unico possibile contatto con gli esseri umani di là dai fugaci saluti con giornalaio e barbiere. Negli spericolati e acrobatici rapporti erotici del professore con donne e uomini (ma niente animali, va specificato), Dante Virgili pare rifarsi a due modelli: sia a Sade, con la catalogazione di una serie crescente di perversioni atte non tanto a provare un piacere sempre superiore quanto a gestirlo sapientemente e razionarlo, risparmiandolo quasi grazie all’avveduta escalation; sia, più ironicamente, a Belli (“Bast’a sapé ch’ogni donna è puttana / e l’ommini una manica de ladri”), facendo leva sull’avidità delle signore, alle quali offre denaro che poi loro, per puttanesimo intrinseco, finiscono per rifiutare dopo aver compiuto il relativo misfatto, così come su quella dei signorini, per comprare i quali basta la promessa di poter sfogliare o prendere in prestito qualcosina dall’ampia collezione di giornaletti sadomaso che il professore non si perita nemmanco di nascondere a dovere.

Il secondo e ultimo romanzo che Virgili ha firmato col proprio nome supera, a mio modo di vedere, la dicotomia fra romanzo paranazista o filonazista sulla quale ci si è a lungo esercitati cinque anni fa per La Distruzione: ne emerge, invece, un diffuso scetticismo riguardo all’uomo tout court che – questo è il punto – si rivela tanto aggressivo quanto autodistruttivo. L’istinto del professore è fare del male agli altri sia perché se lo meritano, incontestabilmente, sia perché non riesce a spingersi oltre i confini un po’ consolatori del tentato suicidio: e infatti il romanzo, che si chiude con l’immagine dell’universale sterminio di Hiroshima (così come preventivato dal finale de La Coscienza di Zeno), per il suo stesso titolo e ambizione di porsi come Metodo della Sopravvivenza di fatto funge da contraltare della Tecnica del Suicidio di Claude Guillon. I risultati grossomodo combaciano.

venerdì 14 marzo 2008

Silenzio

Visto che, nonostante le uova di Pasqua,
la Settimana Santa è una cosa seria
- dai primi vespri della Domenica delle Palme
a tutto il Lunedì dell'Angelo -
il blog tacerà fino a martedì 25.


(Risurrezione, Romanino)

Ad allora.

Lo Stato dei Licei, 14: la lotta di classe

[Zitti, zitti, Gurrado lavora, Gurrado ragiona, Gurrado prepara i bagagli per andarsene a Modena e a Gravina in rigoroso ordine cronologico. Silvia G, invece, ha del tempo da perdere, e quindi:]

Gurrado, oltre ad essere magistra vitae la storia condiziona sensibilmente il tempo presente; il liceo classico, col suo studio del passato, col suo recupero dell’antico, con la sua capacità di far risorgere ciò che da vari secoli è morto, ne è un esempio lampante. Tuttavia, nei licei odierni non si trovano tracce del solo passato remoto, ma anche di quello più prossimo: i cosiddetti collettivi (o assemblee di classe, che dir si voglia) altro non sono che residui delle lotte studentesche degli anni di piombo, che al Voltaire si sono trasformati in ghiotte occasioni per inscenare dibattiti che ruotano intorno agli argomenti più svariati, dalle lamentele per l’eccessivo carico di studio ai risultati dell’ultima partita di calcetto, dal rincaro del costo delle merendine alla penuria di gesso da lavagna.

Poco prima delle vacanze di Natale, il sommo dirigente esige che tutte le classi del liceo Voltaire indicano un collettivo per decidere la meta dell’annuale gita scolastica (o viaggio d’istruzione, che dir si voglia) di primavera, ragion per cui in Terzaddì è stato necessario toccare l’argomento, con conseguenze a dir poco catastrofiche. Si dà infatti il caso che la sezione, alquanto predisposta alla polemica interna, non perda mai occasione per dividersi in due opposti schieramenti, formati quasi sempre dalle stesse persone, che si scontrano puntualmente su qualsivoglia argomento. Il primo e più numeroso schieramento, composto da dieci individui, è solito mantenere posizioni anarchiche e rivoluzionarie; il secondo, che conta invece nove militanti, preferisce definirsi moderato e conservatore.

Al momento di decidere la meta della gita scolastica, dunque, sono state avanzate in Terzaddì due differenti proposte: il partito rivoluzionario, formato evidentemente da cittadini del mondo, suggeriva di recarsi all’estero, preferibilmente in Francia; il partito conservatore riteneva invece vergognoso visitare Paesi stranieri quando non si conosce approfonditamente la propria nazione, e consigliava dunque di rimanere entro i confini del territorio italiano, propendendo per qualche regione lontana e ignota ai più.

-Sciocchezze!-, controbattevano i rivoluzionari, -I contributi provinciali ci danno la possibilità di espatriare, di entrare in contatto con culture e lingue differenti, di assaporare nuove gastronomie! Come possiamo rinunciare a una simile occasione?

-Stupidaggini!-, obbiettavano i conservatori, -Le regioni italiane sono tante ed estremamente varie! Spostandosi di pochi chilometri ci si può trovare davanti a realtà completamente diverse! E, soprattutto, quale gastronomia straniera è migliore della nostra?

-Bestialità!
-Scempiaggini!
-Ottusità!
-Scimunitaggini!
-Eresie!

Le stesse rappresentanti di classe, ovvero Eleonora F e la sottoscritta Silvia G, si trovavano per la prima volta in forte disaccordo tra loro, desiderando l’una recarsi all’estero per esercitare la propria padronanza della lingua francese a spese della provincia, l’altra spostarsi in una nota città del Nord Est italiano per andare a trovare il fidanzato (sempre a spese della provincia). Esse dunque, che unite riuscivano ad esercitare la loro grande autorevolezza con facilità, non furono in grado di gestire la situazione, e provvidero a discutere animatamente assieme ai compagni:

-Esimia collega, la tua trovata di espatriare in Francia non mi trova d’accordo.
-Esimia collega, non ti trovi d’accordo solo perché vuoi portare avanti il tuo mero interesse personale.
-Perché, tu forse non fai altrettanto?
-Io voglio arricchire il mio bagaglio culturale!

Si passò presto dalla vivace discussione all’insulto pesante, e dall’insulto pesante alle minacce, e dalle minacce agli sberleffi, e dagli sberleffi alla rissa: i conservatori tentavano di lapidare gli avversari col consueto gesso da lavagna; i rivoluzionari, barricati dietro la bancata di sinistra, rispondevano al fuoco con tubetti di colla, moncherini di matita e tappi di penne a biro.

-Patria!-, gridavano gli uni.
-Espatrio!-, ribadivano gli altri.

Gli scontri proseguirono per diversi minuti, e il pavimento della Terzaddì si era trasformato in un vero e proprio campo di battaglia. Date le urla selvagge degli studenti, tuttavia, il sommo dirigente scolastico, il quale passava per caso tra i corridoi, irruppe clamorosamente in aula, con gran spavento di tutti, e colse l’alunno Alberto I intento a sbattere il naso contro il ginocchio dell’alunno Giovanni T, Susanna L che trafiggeva con una matita il palmo della mano di Emanuele T procurandogli una sorta di solitaria stigmate, e infine Eleonora F e la sottoscritta che si tiravano reciprocamente i lunghi capelli, contorcendo nel contempo i loro volti in smorfie che avevano invero ben poco di umano.

Dopo varie minacce di sospensione e di annullamento della gita scolastica, è stato stabilito all’unanimità che la classe Terzaddì, nel mese di maggio, poco prima dell’esame di maturità (o di Stato, che dir si voglia) si recherà con un pullman nella Repubblica di S. Marino, luogo che certo ha il merito di accontentare sia i rivoluzionari che ambiscono all’espatrio, sia i conservatori che si vogliono mantenere su suolo nazionale. E, alla fine dei conti, né gli uni né gli alt[Nota di Gurrado: Silvia G, colpita proditoriamente al cuore da un cancellino sporco lanciato da Eleonora F, si accascia al suolo e il manoscritto termina qui]

L'antianniversario

(Gurrado per Quasi Rete/Em Bycicleta)

Ho in uggia tutti i compleanni, le ricorrenze, gli anniversari – e non solo quelli dell’Inter. Nei momenti di particolare sconforto, o livore dell’animo, me ne esco dicendo che i compleanni sono il ricamo intessuto dalla morte sul tempo: e questo mi aliena le simpatie di molti festeggiati nonché buona parte degli auguri ogni volta che anno dopo anno il mio turno si presenta. In particolare, non tollero le celebrazioni calcistiche ufficiali: esposizione di trofei su palchetti prefabbricati, apoteosi in pullman turistico, anniversari con gran ripescaggio di campioni del passato costretti a indossare la maglia del giorno corrente, poco gloriosa e poco poetica, su panze rimpinguate e muscoli sfilacciati, finendo per sembrar ridicoli come un nonno in calzoni corti.

Per questo sabato non ho degnato di uno sguardo i festeggiamenti nerazzurri: e, sia chiaro in principio, medesimo trattamento avrei destinato a festeggiamenti rossoneri, o giallorossi, o bianconeri, o – che ne so – arancione e viola a pois. Nel calcio la storia è quotidiana, e festeggiare il compleanno di una squadra è discutibile come voler trarne gli oroscopi. Poiché nel mio intimo tuttavia riconosco una notevole grandezza alla storia dell’Inter, ho voluto celebrare il centenario guardando Inter-Reggina dopo aver detto un Eterno Riposo all’avvocato Prisco.

Così, mentre mi sforzavo di oltrepassare con lo sguardo i sostegni alla festa successiva, che intralciavano lo spettro visivo delle millecinquecento telecamere di Sky; mentre l’atteggiamento degli interisti tutti, dall’ottimo Massimo all’ultimo dei raccattapalle, dava la netta sensazione che l’eroe di giornata non fosse un calciatore purchessia bensì Adriano Celentano; mentre infine l’Inter ribadiva la propria indiscussa superiorità sulla Reggina, io pensavo che il tarlo che mi rovina la visione dei festeggiamenti autocelebrativi sopra o intorno a un campo da calcio è la presunzione di poter fare a meno degli avversari. L’Inter centenaria (come il Milan, e la Juve, e la Roma, e il Torino) può schierare dopopartita a centrocampo Mario Corso e Roberto Baggio, Walter Zenga e Materazzi, Luisito Suarez e Vampeta, ma tutto questo schieramento di forze non ha senso se a fronteggiarli non c’è uno straccio di Trapattoni o Salsano o Savicevic o Palanca. Una squadra in tanto è squadra – una storia in tanto è storia – in quanto le si contrappongono altre squadre e altre storie: per il compleanno dell’Inter, dunque, onore alla Reggina.

Così nell’intervallo sono andato a ripescare un volumetto edito qualche tempo fa dall’editore Laruffa e opera dell’avvocato Giusva Branca, già responsabile della comunicazione per il presidente Foti e al momento della stesura team manager della Viola Reggio Calabria. Idoli di Carta ha una curiosa struttura che ripercorre capricciosamente la storia della Reggina, seguendo una formazione ideale che non è – né potrebbe essere – una all stars. Persico, Bagnato, Poli, Bumbaca, Gallusi, Mariotto, Rigotto, Krostelev, Bortot, Pianca, Giacchetta (con Maestrelli allenatore) è una squadra legata a doppio filo dalla sfortuna, dall’incompiutezza, dal grido che resta strozzato in gola ai tifosi.

Basti pensare alla mesta fine di Maestrelli, ennesima riprova che muore presto colui che dagli uomini è tanto amato. O al beffardo rigore segnato da Giuseppe Bagnato, terzino che non ne tirava da dodici anni, reso inutile dall’errore finale di Armenise che nel 1989 promosse la Cremonese e lasciò la Reggina immobile in serie B. O ancora alle sventure di Piero Persico, portiere alter Christus che cadde tre volte nel vano tentativo di fermare la palla inzuccata da Jorge Toro che pian pianino se ne rotolava in porta complicando irrimediabilmente il maggio del ’66, in cui per la prima volta a Reggio Calabria si iniziava a sentire aria di quartieri alti (forse per inconscia vendetta l’editore ha dimenticato il nome di Persico nel sommario). E così via, compagnia perdendo.

La Reggina ha tante date di nascita, e chissà quando celebrerà il suo centenario. Forse nel 2014, in onore della fondazione dell’Unione Sportiva Reggio Calabria. Forse nel 2022, in memoria della fugace apparizione del Reggio Foot Ball Club; forse nel 2028, pensando a quando prese nome A.S. Reggina e soprattutto maglia amaranto, forse nel 2044, vista la ripresa delle attività tristemente cessate qualche anno prima, forse addirittura (e in tal caso avrò qualche remora a garantire la mia amichevole presenza) nel 2086, stante la data che oggigiorno campeggia sullo stemma a seguito del battesimo quale Reggina Calcio. Quando sarà, speriamo che un calendario complice piazzi la rivincita contro l’Inter – perché la Reggina sarà relativamente giovane e avrà anche molto poco da celebrare, però un pezzettino dei festeggiamenti nerazzurri è suo: nel calcio come nell’amore bisogna essere (almeno) in due.

giovedì 13 marzo 2008

Escatologia per minorenni

Ieri avevo voglia di fare cose mai fatte prima, per cui ho approfittato dell’incontro casuale con un’amica per darmi alla trasgressione: siamo andati a prendere sua figlia da scuola.

Ho così imparato che prendere una bambina da scuola non consiste, come si potrebbe immaginare nell’aspettare davanti all’uscita della scuola, prendere per mano la bambina e riportarla dritta davanti alla porta di casa. Macchè. Prendere una bambina da scuola significa aspettare davanti all’uscita della scuola, distribuire a bambini sconosciuti delle costosissime carte dei Pokemon che la bambina aveva promesso loro con leggerezza, attendere infine che la medesima bambina trascorra un buon quarto d’ora rincorrendo tutti i maschietti che le capitano a tiro (mi sono trattenuto dal chiedere a sua madre: “Ma da chi ha preso?”).

Ci tengo a specificare incidentalmente che la bambina non è mia.

Una volta che la corsa della bambina viene intercettata, si può afferrarla a viva forza e portarla a mangiare un gelato. Per spirito d’indipendenza, la bambina chiederà solo panna montata. Nel corso della degustazione, si ha modo di apprendere che la bambina è fidanzata con Pietro, o con Alberto, o con chissà chi, per sua stessa ammissione “da quattro o cinque anni” – cosa invero sorprendente se si considera che la bambina ne ha sei. Il buongiorno si vede dal mattino: è vero che la medesima bambina ha ammesso di essere recentemente stata innamorata di un nuovo compagno delle elementari, che non l’ha corrisposta, ma tutti noi in gioventù abbiamo avuto i nostri scheletri nell’armadio e l’importante è che Pietro, o Alberto, o chissà chi non sia mai venuto a saperlo.

Questa vocazione al matrimonio non esclude istinti più alti e infatti, passando davanti alla chiesa del Carmine, la bambina ha visto che all’interno c’era il catechismo per altri bambini più grandicelli e ha voluto entrare. Io, che come dice Silvia G ho la pericolosa tendenza a convertire tutto ciò che si muove, ho voluto accompagnarla mentre la madre restava fuori. Avendo notato che non si faceva il Segno della Croce, sono stato assalito da atroci dubbi e, una volta insegnatole a farlo, le ho chiesto se sapesse perché a Pasqua era vacanza.

“Perché la scuola è chiusa”.
“Indubbiamente, ma sai il motivo per cui a Pasqua si festeggia?”
“No.”
“Perché a Pasqua Gesù è risorto.”
“Cosa vuol dire che è risorto?”
“Che era morto, e poi era vivo di nuovo.”
“Quindi si può vivere dopo essere morti?”
“Dipende. Lo sai che se fai la brava la tua anima va in Paradiso?”
“Sì.”
“Ecco, quando tutti gli uomini saranno morti le anime ritroveranno i loro corpi di nuovo vivi.”
“E saranno molto vecchi?”
“No, penso che saranno più belli del solito.”
“Quindi anche noi risorgeremo?”
“Sì.”
“E quando risorgeremo vivremo di nuovo a Pavia?”
“Oddio, spero di no.”

Intanto, per cautelarsi nel remoto caso, questo pomeriggio accompagnerà sua madre all’Ikea.

lunedì 10 marzo 2008

Tizio è Caio

Una delle cose che mi danno più fastidio, soprattutto dopo che magari ho passato anni e anni a scrivere un romanzo, e a pesare una parola dopo l’altra e a spostare virgole e a calibrare capoversi, è quando il tizio che lo legge viene a chiedervi: “Ma chi è questo?” – dove “questo” è un personaggio di fantasia. Si presuppone automaticamente che tutto ciò che è stato messo per iscritto, e che è stato reso verosimile allo scopo unico di metterlo per iscritto, sia necessariamente vero; e quindi, se l’io narrante dice che il suo parroco un giorno è svenuto durante la predica, ci sarà sicuramente da qualche parte qualcuno che verrà a dirmi che conosce benissimo il mio parroco, e che questi non è mai svenuto durante nessuna predica. Peggio ancora sono quelli che leggono – e magari leggono un’onesta storia narrata in terza persona – per poi venire a chiedermi com’è andata a finire. Non c’è modo di spiegare che la fine della storia è l’ultima pagina, loro sono talmente convinti dell’identità fra autore e narratore e protagonista da ritenere immediatamente logico che l’esistenza dei personaggi continui nella vita privata dell’autore. Pirandello, che pure su autori e personaggi ha scritto da par suo, non ha lasciato nulla (che io ricordi) su personaggi mai esistiti per l’autore ma vivi e vegeti per i lettori ingenui.

Queste persone non capiscono niente, e meglio sarebbe se fossero analfabete. Si parva licet, la stessa faccenda era capitata a Proust quando aveva iniziato a pubblicare Alla Ricerca del Tempo Perduto; e meno male che la morte l’ha colto prima che venisse pubblicato il finale, altrimenti avrebbe trascorso il resto della vita a rispondere a interviste radiotelevisive su cosa succeda al narratore dopo l’ultima delle tremila pagine. All’uscita del primo volume, è certo che la Recherche venne relegata nel novero dei romanzi a chiave, in cui a ogni personaggio corrisponde una persona reale; e questo, svilendo oltremodo il lavoraccio di Proust, diventò presumibilmente il gioco preferito dell’alta società nel faubourg Saint-Germain. Poi ci si annoiò, e si passò ad altro.

Ora che ho da poco finito di rileggere il Jean Santeuil (parentesi storico-letteraria: dovete sapere che prima di scrivere la Recerche Proust aveva ideato un romanzaccione teoricamente infinito e narrato in terza persona; dopo qualche anno, accumulate già circa mille pagine, decise che la narrazione in prima persona era di maggior effetto e quindi ricominciò da capo scrivendo tutt’altro: c’è chi può permetterselo) – dicevo: ora che ho da poco finito di rileggere il Jean Santeuil mi rendo conto di come un giochino molto più interessante consista nello scoprire quale dei suoi personaggi corrisponda a un personaggio della Recherche, considerando quest’ultima come un mondo reale e il suo corposo predecessore incompiuto, appunto, come mera realtà romanzesca. In fin dei conti, i personaggi sopravvivono alle persone.

Evidentemente, Jean Santeuil è “Io”, il pronome che un lungo equivoco ha fatto identificare continuamente con Proust stesso: e così il signor e la signora Santeuil sono evidentemente il padre e la madre di “Io”, questo è pacifico. Più ardito, e divertente, è identificare i personaggi secondari – o che quanto meno non occupano la scena dalla prima all’ultima pagina; si noterà che meno il personaggio è definito, più è difficile identificarlo. Henri de Reveillon è quasi in toto Robert de Saint-Loup. Il signor di Lomperolles, che ama i giovanotti, è con ogni probabilità Charlus, ma non ha nulla della sua levità dandystica, anzi è poco più che una macchietta relegata in poche pagine. La signora Marmet, che gestisce il suo milieu tanto snobisticamente da restarne isolata, è l’imbarazzante Madame Verdurin. Il pianista Loisel è il violinista Morel, o viceversa. Perrotin ha qualcosa di Charles Swann, ma in comune hanno soprattutto la morte (mentre non mi risulta che sia scritto da nessuna parte che Perrotin è ebreo). Come riprova del fatto che sto scrivendo a memoria, non ricordo come si chiami nella Recherche il correlativo oggettivo di Marie Kossichef, l’amore infantile di Jean [nota di Gurrado: e invece, poiché contrariamente a quanto scrive mia madre rileggo sempre prima di chiudere, alla seconda passata mi sono ricordato che nella Recherche Marie è Gilberte]; mentre è curioso notare come la vedova Françoise S., che ne tormenta la giovinezza, sia un ircocervo tumultuoso che riunisce due personaggi della Recherche, Odette de Crécy amata da Swann e Albertine amata da Io, sotto il nome della domestica di Proust stesso, ossia dell’unica donna che in fin dei conti gli sia rimasta di fianco fino alla morte.

Quand’ero più giovane avevo spinto il giochino più in là, isolando Un Amore di Swann dal resto della Recherche e rinvenendo nel triangolo scaleno Io-Swann-Odette la stessa relazione con cui nel pressoché contemporaneo Ulisse Joyce lega Stephen Dedalus, Leopold Bloom e sua moglie Molly. Io/Dedalus è il giovane intellettuale, un po’ svenevole, che si pone come osservatore esterno nei confronti della vita, salvo venir travolto dagli eventi. Swann/Bloom è l’uomo di mondo che circonda Io/Dedalus di virile affetto ma che si sdilinquisce di fronte all’impossibilità di cristallizzare i sentimenti dell’amata. Odette/Molly, infine, non è propriamente infedele, quanto piuttosto sfuggente, incomprensibile, rinserrata in un segreto inaccessibile e purtuttavia facile a intuirsi: diciamo che, in maniera molto politically correct, è diversamente fedele.

Questi sono giochi che lasciano il tempo che trovano, e mi sono limitato a esporli per far vedere che nonostante le apparenze ho dei contenuti letterari seri, mica pizza e fichi. Altrimenti avreste potuto immaginarmi come un giovanotto che, seduto con sulle ginocchia l’enorme volume che raccoglie tutto Proust, lo legga pagina dopo pagina con estrema pazienza invecchiando progressivamente e crescendo al passo del Tempo perduto, progressivamente maturando e invecchiando e incanutendo fino al momento in cui, giunto vegliardo all’ultima pagina, legga accigliato la riga conclusiva e poi chiuda il volumone sentenziando: “Frocio”.

sabato 8 marzo 2008

Serata anarchica per Bianciardi


Rivendico il diritto alla cazzata.
(Ugo Tognazzi)


Non erano nove – giovedì sera c’erano una ventina di persone e un centinaio di sedie vuote ad ascoltare Luciana Bianciardi che parlava di suo padre. Peggio per loro (per le sedie vuote, intendo: ché i venti presenti se ne sono andati entusiasti, quasi a mezzanotte) in quanto si sono persi un discorso arguto, la lettura di passi notevoli e rari (le tre pagine di Rivoluzione a Milano, da sole, valgono più di tutto Pasolini) e la proiezione di reperti dell’archivio Rai. Quando parlo di Bianciardi io sono sempre lievemente di parte (ho salutato lo scarso pubblico dicendo: “Oggi parliamo di uno scrittore sensazionale”), ma aprire la serata con un servizio di Silori in cui Bianciardi stesso, fisso lo sguardo in camera dietro la macchina per scrivere, spiega la rinnegata genesi latina del termine tradurre, o in cui sale le scale della casa editrice per annuire inane sentendosi ripetere dalla segretaria la tiritera che gli scrittori, quando fanno i traduttori, tendono sempre a inventare e a tradire lo spirito dell’originale e bla bla bla, o in cui accumula pagine dattiloscritte a bizzeffe e simultaneamente conta le lenzuolate di soldi guadagnati, con la voce fuori campo della compagna che scandisce: “Questi per l’affitto, questi per la benzina, questi per il caffé, questi per i giornali, questi per…” – già solo i primi dieci minuti di filmato sono stati sufficienti a inchiodare le venti-persone-venti sulle rispettive sedie, e a far compiangere universalmente le restanti vuote (vuote anche perché da qualche parte di Pavia, in contemporanea, c’era Maria Latella nientemeno). Ovviamente il lettore dvd funzionava a meraviglia nelle prove audio-video fatte prima di cena; ovviamente il lettore dvd ha iniziato a rifiutarsi di fare il suo dovere dopo la proiezione dei primi due o tre tesori filmati portati da Luciana Bianciardi, e allora ha risolto tutto Alvaro Bertani (che di Bianciardi ha pubblicato una biografia per ExCogita, Da Grosseto a Milano) leggendo dall’Antimeridiano come se Bianciardi fosse lì a scrivere in diretta. Nulla di preparato, pubblico latente e tecnologie funzionanti a singhiozzo hanno consentito di portare avanti una serata anarchica che – di solito è retorica ma stavolta è nuda verità – a Bianciardi sarebbe piaciuta più di mille convegni grigi.

Stamattina a Milano c’erano Berlusconi e Fini, ma non ci si va perché piove (e quando piove mi restringo). Sono rimasto in camera a leggere (e a scrivere), tanto più che ieri sera ho finalmente trovato il tempo e la forza di sedermi e dar fondo alle mie forze consumando un centinaio di pagine di Jean Santeuil. Questo da un lato mi ha consentito di superare (spero) la crisi momentanea che mi impediva di aprir libro senza provare un’istintiva ripulsa, dall’altro mi ha restituito un po’ di percezione del ritmo stilistico, un po’ di senso della pagina. A proposito, l’altro giorno m’è capitato sotto gli occhi un brano del Meriggio di d’Annunzio: E la mia forza supina si stampa nella rena, diffondesi nel mare; e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è la mia pube, la nube è il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pina, nella bacca del ginepro; io son nel fuco, nella paglia marina, in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane. Ardo, riluco. E non ho più nome. E l'alpi e l'isole e i golfi e i capi e i fari e i boschi e le foci ch'io nomai non han più l'usato nome che suona in labbra umane. Non ho più nome né sorte tra gli uomini; ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo tacito come la Morte. E la mia vita è divina. L’ho riportato intero e senza scansioni perché è una poesia talmente bella da sembrare un brano di prosa.

Massimo Moratti, celebrando il centenario dell’Inter, ha dichiarato che la beneamata è l’unica squadra importante di Milano. In seguito, durante la cena, ha sostenuto che in famiglia quello intelligente è sempre stato lui.

Lo Stato dei Licei, 13: il fantasma del laboratorio


[Quando ho dei dubbi di qualsivoglia genere, ricorro al mio manuale di Storia del Liceo: Popoli e Civiltà di Antonio Brancati. Esso, per definizione, è la risposta a ogni possibile quesito, il detentore delle verità di fatto e come tale è un interlocutore vivo e presente nella mia vita, più ancora di qualsiasi persona mi passi davanti al naso: non per niente è definito, impersonato, ipostatizzato quale “il Brancati”.
Se non che qualche giorno fa ho avuto dei dubbi e, trovandomi a mille km di distanza dalla mia unica e vera copia del Brancati, ho dovuto ripiegare su un succedaneo. Ho costretto infatti un mio amico a prestarmi il suo vecchio manuale di Liceo – vecchio ma comunque più recente del Brancati, così come testimonia l’orrenda dicitura “nuova periodizzazione” stampata in grassetto poco sotto il luogo dove il mio amico aveva ritenuto opportuno appiccicare uno stemma bislucido dell’Ambrosiana Inter. La periodizzazione sarà nuova ma la storia è vecchia: perché a me non interessano le pagine ultime, in cui si denigra Berlusconi o si esaltano gli attentatori dell’11 Settembre, ma mi soffermo nei secoli che precedono il Novecento e che, per l’indebita attenzione a quest’ultimo, vengono via via compressi man mano che i manuali si stampano.
Oggi è sabato, come ogni sabato sono stanchissimo e quindi non ho voglia né tempo di indire una polemica. Voglio solamente testimoniare che ci vedo sempre meno ahimé per il concorso di vecchiaia e sfiga, quindi più leggo più mi stanco, più mi stanco meno ci vedo, meno ci vedo più mi avvicino al libro, più mi avvicino al libro più non mi limito a guardarlo ma lo odoro – anzi, se tirassi fuori la lingua, tanto poca è la distanza che mi separa dalla pagina, potrei agevolmente leccarlo e sottolineare con la saliva le date più significative (il mio amico sarà poco contento di leggere queste paginette virtuali, me lo sento). Il fatto è che, odorando il manuale del mio amico, ho avuto una reminiscenza proustiana: l’odore del suo diversissimo manuale è lo stesso odore del Brancati. Da ragazzi ci si vede bene e si studia tenendo il naso abbastanza distante da non annusare i libri; ma i successivi e più o meno necessari ripassi dei decenni seguenti rivelano l’odore invecchiato della carta. Così ho capito che nuova o vecchia perodizzazione nulla cambia, i ragazzi italiani continueranno a studiare la stessa Storia da manuali con lo stesso odore, assumendo per via olfattiva una coscienza nazionale contagiosa. E ora Silvia G, che è sicuramente meglio di queste fantasticherie sinestetiche:]

Gurrado, scienza e superstizione non sono certo due termini che vanno a braccetto: se l’uno richiama alla mente idee di conoscenza concreta, acquisita tramite esperimenti che hanno lo scopo di giungere ad una descrizione precisa della realtà, l’altro indica invece credenze irrazionali che influenzano i comportamenti umani e il pensiero senza una precisa relazione causale. Paradossalmente però, al liceo Voltaire le due cose hanno finito col confondersi tra loro, e le conseguenze di tale fusione affollano tuttora gli incubi dei più sensibili membri della Terzaddì.

Si dà infatti il caso che il liceo Voltaire, in origine, fosse un convento di padri Gesuiti, le cui ossa tutt’ora giacciono negli scantinati della scuola, luoghi accessibili unicamente al personale autorizzato (e giammai agli studenti o ai bidelli). Quest’insolita caratteristica del liceo Voltaire ha sempre inquietato e incuriosito moltissimo i suoi iscritti, al punto che sono nate numerose leggende legate ad essa, tra i corridoi. Taluni mormorano di aver sentito echeggiare delle pareti dell’edificio voci che recitavano preghiere in latino, taluni altri di aver veduto ombre incappucciate aggirarsi la mattina presto nella tromba delle scale. Tuttavia, nessuno ha mai potuto provare la presenza di fantasmi o mummie all’interno della scuola, fatta eccezione per alcuni professori.

Bisogna inoltre precisare che, varcando le porte del laboratorio di scienze del liceo Voltaire, si ha la gioia di imbattersi in un magnifico scheletro in plastica a grandezza naturale, il quale è stato chiamato Battista, in onore di un antico e illustre alunno del liceo Voltaire. Col passare degli anni e degli studenti, il povero Battista ha subìto una notevole quantità di molestie: le sue falangi sono tutte disarticolate, ha perso molti denti e la sua mandibola è legata al cranio solo grazie al nastro adesivo.

In una mattinata buia e tempestosa di metà autunno, la professoressa Selli, insegnante di chimica biologia e geografia astronomica, disperata a causa dell’inspiegabile frattura del femore sinistro del povero Battista (imputabile in verità agli alunni Ruggero F e Alberto I, due tra i più discoli membri della Terzaddì), decise di prelevare dai sotterranei del liceo Voltaire qualche antico osso di Gesuita ancora in buone condizioni e di sostituirlo col femore in plastica spezzato dello scheletro, per poter tenere la sua lezione di scienze. Presa dalla foga, portò via anche una bellissima tibia e qualche costola perfettamente conservata, e appose il tutto in mezzo alle altre ossa di poliestere.

Saputa la notizia, molti alunni si mostrarono turbati e schifati dinnanzi all’ibrido scheletro Battista. Il disgusto e la paura per quelle ossa un tempo vive crebbero col passare del tempo, e solo pochi impavidi osavano ancora molestare l’oggetto del loro orrore, il quale, ignaro di tutto, seguitava a rivolgere a chiunque gli passasse accanto cordialissimi sorrisi a trentadue denti (o, nel suo caso, a venticinque). La professoressa Selli, seppur a malincuore, si vide costretta a rinchiudere Battista in un armadio del laboratorio di scienze.

Accadde tuttavia che, durante l’esercitazione di laboratorio del trentuno di ottobre, al Voltaire saltò improvvisamente la corrente elettrica. I membri della Terzaddì, nient’affatto spaventati dalla cosa, corsero a cercare candele e pile nei cassetti e negli scaffali del laboratorio. Avvicinandosi all’armadio dov’era contenuto lo scheletro Battista, l’alunna Eleonora F udì all’improvviso sinistri scricchiolii provenire dall’interno del mobile; pareva che numerose unghie graffiassero le ante di legno, nel tentativo di aprirle. Eleonora F accese una torcia e illuminò la scena: lo scheletro Battista, vestito di un vecchio sacco di patate rattoppato, era uscito dall’armadio e fissava grottescamente nella sua direzione, col consueto sorriso stampato il faccia. Eleonora F diede a quel punto prova di mirabili doti canore, intonando un acuto altissimo e penetrante, che impressionò tutti i suoi compagni di classe più ancora dello stesso Battista, il quale nel frattempo si era mosso, e girava per il laboratorio grazie alle rotelline poste sotto agli scheletrici piedi.

I membri della Terzaddì, che avevano da poco concluso la lettura di alcuni racconti di Edgar Allan Poe (propinati dall’insegnante di letteratura inglese) ed erano dunque facilmente impressionabili, spalancarono le porte del laboratorio e uscirono di corsa, illuminando i bui corridoi della scuola con le loro torce elettriche e creando gran scompiglio tra le classi vicine. Il ritorno della corrente vide uno scheletro incappucciato aggirarsi sorridendo tra le bancate del laboratorio di scienze, finché uno spavaldo bidello, allarmato da tanto chiasso, irruppe nella stanza, intercettò il macabro responsabile dei disordini, lo bloccò e lo spogliò con decisione.

Fece dunque capolino da sotto il sacco l’alunno Ruggero F, il quale, abbracciato al povero Battista, ne coordinava i movimenti, con gran divertimento. Il resto della classe Terzaddì, presa coscienza che non si trattava di un fantasma, si armò di gesso da lavagna e, con rabbioso trasporto, prese a lapidare il mattacchione, che fu salvato dal linciaggio soltanto grazie all’intervento del sommo dirigente scolastico.

Come punizione per l’orrendo misfatto, l’alunno Ruggero F è stato costretto ad accompagnare la professoressa Selli negli scantinati del liceo Voltaire per rimettere le ossa profanate al loro posto; ha inoltre trascorso gran parte dei suoi pomeriggi autunnali a ricostruire assieme all’inquietante professoressa i pezzi mancanti dello scheletro Battista, che ora sorride felice sfoggiando un bellissimo femore di cartapesta e sette nuovi magnifici mol[NdG: piove a dirotto, il blog viene sospeso per impraticabilità di campo, per cui il manoscritto termina qui]

giovedì 6 marzo 2008

TuttoCoppe 3

L’impresa della Roma, ieri sera, mi ha talmente emozionato che stamattina mi sono svegliato col singhiozzo, e prima di poter farmi la barba ho dovuto adoperare svariati accorgimenti per farlo passare – fra i quali sistemarmi a testa in giù e recitare a mo’ di mantra l’intera formazione del Milan campione d’Italia nel 1988 (Giovanni Galli, Tassotti, Maldini; Colombo, Filippo Galli, Baresi; Donadoni, Ancelotti, Van Basten, Gullit, Virdis).

Passato il singhiozzo, ho potuto radermi e fare qualche considerazione onesta riguardo al turno di Champions. Da quando è iniziato il nuovo anno, la pochezza del Real è preoccupante. La Roma ha i suoi indubbi meriti, ma la Real casa sta pagando l’immane minchiata di aver mandato via Capello vincente alla fine della scorsa stagione. Se il mese di aprile le dice bene, potremmo trovarci di fronte alla Roma più forte di sempre (per farlo, dovrebbe vincere il campionato, rivincere la Coppa Italia e arrivare in finale di Coppa dei Campioni: delle tre, la cosa più facile è la prima).

Ieri c’è stato fra l’altro un tragico fraintendimento che mi ha impedito di guardare la partita in diretta: mi sono imprudentemente allontanato dall’abbonamento a Sky grazie al quale santifico le feste, sicuro che Rai1 trasmettesse la partita dal Bernabeu. Con estrema sorpresa, mi sono ritrovato a vedere Pretty Woman, onta e beffa tanto più che detesto Julia Roberts e la sua bocca ranesca. Compulsando più accuratamente i quotidiani, mi sono accorto che la Rai ha dovuto oscurare la Roma perché ha in programma Inter-Liverpool di mercoledì prossimo: ennesima conferma che la tv pubblica trasmette per lo più roba inutile.

Non l’ho vista ma, in compenso, ho sentito l’eroico finale alla radio mentre venivo accompagnato alla stazione di Rogoredo. Coincidenza significativa: quando Vucinic ha segnato l’1-2, avevo un minuto e venti secondi per raggiungere Rogoredo e saltare sul treno delle 22:38, ossia possibilmente quello per Pavia. Idem, quando Vucinic ha segnato l’1-2, il Real Madrid aveva un minuto e venti secondi per fare tre goal e vincere 4-2: ma non ci sarebbe riuscito nemmeno Di Stefano, credo, nemmeno con tre palloni contemporaneamente.

Poiché immagino che i malintenzionati interisti staranno pensando che io tergiversi, parlo del Milan – anche se non ho moltissimo da dire: come avevo scritto qualche settimana fa su queste stesse pagine virtuali, (mi permetto l’autocitazione) “il Milan, fra una cosa e l’altra, può permettersi di perdere” poiché “la legge dei grandi numeri previene dal vincere la Champions due volte di fila”. Poiché sono un signore, non starò a puntare l’indice contro squadre che parlano e parlano ma non vincono la Coppa Campioni dagli anni in cui i Beatles andavano ancora in tournée, tanto per rendere l’idea. Poiché amo il calcio inglese, è bene che il tramonto definitivo del Milan di Maldini sia avvenuto contro una squadra che ha fatto propria la bandiera della salutare gioventù vittoriana del dottor Arnold: l’Arsenal di Fabregas ricorda un po’ la Dinamo Kiev di Lobanovski per gli automatismi nei passaggi (ma è molto meno fisica, e alla lunga ha un minor ventaglio di soluzioni tattiche), un po’ l’Olanda di Cruyff (con la lieve differenza che non annovera un Cruyff, e neanche un decimo dell’Arancia Meccanica), un po’ la Roma di ieri sera. Pazienza. Perdere con l’Arsenal si può fare (ogni sottintesa propaganda elettorale è biecamente voluta). Perdere con il Fenerbahçe crea più problemi.

Il Siviglia, martedì, ha giocato la partita più emozionante del torneo a tutt’oggi. Si è trovato in largo vantaggio grazie alla preoccupante tendenza di Volkan, il portiere turco, a scansarsi ogni volta che un tiro lo riguardasse. A quel punto, il Siviglia ha creduto di aver completato la rimonta, e s’è dimenticata che i Turchi per definizione sono duri a morire. Maiuscola partita di Diego Lugano, che vestirei di rossonero già domani se rientrasse nelle mie facoltà. Deivid ha fatto il resto, non contento di aver già segnato contro l’Inter, e prima ancora dei rigori il calciomane intuiva che per il Siviglia non c’era più speranza: cambiata l’inerzia della partita, spenta la propulsione andalusa, esaurita con ogni probabilità la dose di fortuna che aveva consentito a una squadra buona ma non eccelsa di vincere cinque trofei in un paio d’anni, manco fosse il Milan dei tempi d’oro. Oltre che per il risultato, Fenerbahçe-Siviglia è stata la partita più emozionante dal versante dell’onomastica, rinfoltita com’era di nomi barocchi e fantasmagorici: da un lato Jesus Navas, Diego Capel, Ivica Dragutinovic – senza contare Duda che all’anagrafe risulta Sergio Paulo Barbosa Valente; dall’altro nientepopodimeno che Edu Dracena, Mehmet Aurelio, Can Arat, Alì Bilgin, Semih Senturk, Volkan Babacan, Claudio Andres Maldonado Rivera nonché, omaggio per i napoletani che rideranno cinque minuti di fila, Kazim Kazim, con gli accenti sulle i. Infine una notazione curiosa. Se andate sul sito del Siviglia, la prima cosa che vedrete è la pubblicità alle processioni della Settimana Santa. Urge adeguarsi.

Quanto al resto, potete controllare: alla fine dell’andata ho azzeccato in scioltezza le previsioni riguardo alle partite di martedì (qualificate Arsenal, Barcellona, Fenerbahçe e Manchester Utd), sbagliando miseramente quelle del mercoledì (Roma e non Real, Schalke e non Porto – ho previsto solo il Chelsea sull’Olympiacos, bella forza). Sperando di non aver sbagliato il pronostico rosso contro l’Inter, teniamoci visti.

martedì 4 marzo 2008

Bianciardiani di tutto il mondo, unitevi!

Giovedì 6 marzo alle ore 21
nell'Aula Goldoniana del Collegio Ghislieri di Pavia

Luciana Bianciardi e Maria Antonietta Grignani presentano

L'Antimeridiano (vol.II)
di Luciano Bianciardi (edizioni ISBN)


Serata ghiotta: verranno proiettati spezzoni di interventi televisivi di Bianciardi, mentre Alvaro Bertani, già suo biografo (Da Grosseto a Milano: la vita breve di Luciano Bianciardi, ExCogita editore), leggerà passi dell'opera omnia bianciardiana, o bianciardesca che dir si voglia.

Gurrado seguirà la serata in prima fila
(sempre in giacca e cravatta)
orgoglioso di averla organizzata lui.

Cercate di essere più di nove.

lunedì 3 marzo 2008

Autore, autore!

C’è il sole, è lunedì, sono a Pavia. Vado in giro per piazza Vittoria e tutti mi fermano chiedendomi se ho sentito Abraham B. Yehoshua da Fazio – il quale Yehoshua, a quanto pare, si è sperticato in elogi per la città: su una rete nazionale! in prima serata! L’entusiasmo dei passanti è incontenibile e cozza con la mia relativa indifferenza che nasce dalla triste ammissione che io no, domenica sera non ho guardato Yehoshua che parlava da Fazio perché stavo guardando l’Inter che vede Napoli e poi muore.

Avantieri la giornata pavese di Yehoshua è riuscita più che bene. Alla presentazione di Fuoco Amico in Ghislieri c’erano duecentosessantasei persone sedute (fra le quali Silvia G) e un centinaio in piedi, tutte peraltro piuttosto comode. Fonti fededegne mi hanno riferito che all’incontro immediatamente precedente alla Mondadori di Milano c’era posto per una novantina di persone tutt’al più, mentre gran parte del pubblico spingeva per entrare ed era costretto a guardare l’autore su un monitor, tanto valeva aspettare di vederlo su Rai3. Se aggiungiamo il bel tempo e il fatto che un paio di giorni all’anno (tipo sabato) Pavia sembra bellina, è logico che Yehoshua sia rimasto colpito e ne abbia parlato da Fazio – su una rete nazionale! in prima serata!

Un capoverso d’omaggio doveroso va dedicato alla libreria Delfino, che ha organizzato l’incontro per celebrare la sua sede rinnovata. L’intervento di Yehoshua è stato il compimento, il coronamento superlativo di sedici anni di lavoro basato sull’unico comandamento che non si può vender libri come se si vendessero scatole di fagioli. L’impressione è che alla Delfino si conosca ciò che si vende, e di conseguenza si rifugge dal generico caravanserraglio promozionale (pile di bestseller, sagome dell’autore in cartone, promozioni un tanto al chilo). La prossima volta che passate in piazza Vittoria, invece di fermarmi e chiedermi se ho guardato Fazio (tanto lo sapete che guardo solo partite, specialmente se l’Inter perde), fate un salto lì dentro, uscirete probabilmente con un bel libro e sicuramente con un buon consiglio. Fine del messaggio promozionale.

Inizio del messaggio spromozionale: sarà che ho il dente avvelenato, sarà che sono prevenuto, sarà che porto scritta in fronte la mia avversione ma domenica mattina io e Silvia G nell’atto di entrare in una Feltrinelli siamo stati istantaneamente bloccati e immediatamente scacciati: “Stiamo chiudendo”. Ora, che i lombardi siano mediamente scortesi è cosa nota, che i commessi della Feltrinelli siano sempre un po’ scontrosi o quanto meno sbrigativi è ancor più noto – ne consegue che entrando in una Feltrinelli lombarda è già tanto se non si viene presi a ceffoni. Certo che ci abbiamo messo del nostro: abbiamo visto una libreria aperta e volevamo entrarci. Ogni tanto abbiamo certe pretese…

Inoltre la mitologia prevede che i commessi delle Feltrinelli non siano commessi qualsiasi, ma per lo meno laureati (in lettere e filosofia: sarebbe a dire, gente che altrimenti sarebbe disoccupata). Mi viene in mente il lontano giorno del 1997 in cui mi presentai alla Feltrinelli di Bari appositamente per acquistare Finnegans Wake di James Joyce (tenete a mente questo nome, tornerà utile). Non trovandolo sullo scaffale disordinatissimo, mi avvicino alla commessa laureata e gliene chiedo ragione. Lei, terrorizzata dalla mia richiesta, la gira al computer informativo scrivendo nel campo dell’autore: James Joice, e poi si dice spiacente che non risultino volumi dell’autore in questione. Le spiego che Joyce si scrive con la ypsilon. La commessa laureata appare dapprima scioccata, quindi progressivamente e illuministicamente perplessa; solo dopo mie reiterate insistenze accetta di tentare la ricerca di volumi di Joyce scritto con la ypsilon, e digita: James Yoice. Erano altri tempi, facevo ancora soltanto il liceo e non potevo capire che non si trovava lì per sbaglio.

La sera zanardelliana

Questa sera alle 21
nell'Aula Goldoniana del Collegio Ghislieri di Pavia
Arianna Arisi Rota e Laura Bosio presentano
La Carovana Zanardelli
di Giuseppe Lupo (Marsilio editori).



Sarà presente l'autore.
Sarò presente anch'io, in giacca e cravatta.