martedì 25 marzo 2008

L'errore anagrafico

(Gurrado per Books Brothers)

Dante Virgili ha un nome che sembra uno pseudonimo, ma non lo è, e una fama che ormai lo precede, ma che curiosamente ha seguito la sua morte. La scarna biografia in terza di copertina informa che è nato a Bologna nel 1928 ed è morto a Milano nel 1992, forse contravvenendo all’esplicita indicazione che aveva lasciato in Metodo della Sopravvivenza (peQuod, 2008): “Bisogna cercare di non morire in un ospedale a Milano”. Curiosamente, Dante Virgili è stato famoso in vita sotto altri nomi, pseudonimi meno surreali di quello vero, quale autore di libri per ragazzi e western. Nel 1970 ha pubblicato il suo primo romanzo eccessivo e filo-hitleriano, La Distruzione, il quale pur essendo edito da Mondadori – testuali parole della terza di copertina – “passò inosservato, cadde nell’oblio”; finché non è stato ripubblicato nel 2003 da peQuod, scatenando un caso editoriale.

Volendo essere estremamente sintetici, il caso editoriale in questione può essere così riassunto: vale la pena di pubblicare un autore dichiaratamente affascinato dal nazismo? Ora, se consideriamo la questione da un punto di vista politico, un ipotetico nazista potrà obiettare che lo stesso criterio potrebbe essere applicato ai sostenitori di qualsiasi altra ideologia che possa aver portato a risultati più o meno assimilabili, ragionamento che ci condurrebbe in un vicolo cieco e molto probabilmente in un circolo vizioso di controrecriminazioni, quindi meglio lasciar perdere. Se invece consideriamo la questione da un punto di vista etico, dobbiamo dedurne che essendo il nazismo un male oggettivo, chi lo propugna dev’essere ridotto a tacere; questo però comporta che bisognerebbe a priori definire la quantità minima di male necessaria alla censura, ponendo un’asticella sopra la quale si deve imporre il silenzio. È troppo complicato e soprattutto inutile: per fortuna la letteratura non è filosofia, quindi deve occuparsi della forma e non dei contenuti. Altrimenti, si finisce per proibire la lettura di Delitto e Castigo allo scopo di salvaguardare la cervice delle vecchiette affittacamere, o Moby Dick per combattere l’estinzione delle balene bianche. Chi ama la letteratura non bada troppo a cosa c’è scritto.

Per questo ritengo che l’unica domanda da porsi riguardo a Dante Virgili debba essere: scrive bene o no, ovvero vale la pena di pubblicarlo? Per rispondere adeguatamente, credo che aiuti leggere il suo ultimo romanzo, pubblicato postumo pochi mesi fa da peQuod. Metodo della Sopravvivenza è la storia della disperata estate di un professore di tedesco, che nel 1990 vede i suoi ideali (nazisticheggianti) di supremazia germanica ridotti al trionfo calcistico di Matthäus e soci alla fine dei mondiali di calcio. Il lettore avveduto, che sappia della vita di Virgili quel minimo che è scritto in terza di copertina, potrà notare una notevole consonanza fra l’autore e il protagonista anonimo: non tanto nella rispondenza fra i loro discutibili ideali quanto nell’essere entrambi nati fuori tempo massimo, ed essere quindi immersi in ambienti a loro del tutto estranei. Così come Virgili pare vittima di un errore anagrafico, per essere vissuto sfasato rispetto alla diversa gloria letteraria che lo ha atteso e per essere morto una decina d’anni prima che s’iniziasse a parlare insistentemente di lui, il professore di tedesco che vagola per la Milano semideserta dell’estate 1990 è consapevole della propria tragedia storica: vive nel continuo scacco di veder ruotare attorno a sé un mondo che, prima ancora di rifiutare l’ideale nazista non si pone in realtà minimamente il problema di prenderlo in considerazione. Questo scacco, quest’ottusa indifferenza, si realizza principalmente su tre campi che coincidono grossomodo con le tre sezioni del romanzo di Virgili.

Innanzitutto, come ho già detto, il calcio. L’estraneità del protagonista alla passione nazionalpopolare è enorme, oltre che decisamente indicativa. Il fatto che nemmeno sappia chi sia Schillaci, l’uomo che ha fatto impazzire tutta Italia per un mese, non poteva essere più icastico al proposito; e così la distante notazione della tragedia nazionale, l’eliminazione ai rigori contro l’Argentina di Maradona. Ciò che emerge è la creazione generalizzata e supinamente accettata di un nemico fasullo (l’Argentina in questo caso) per tacitare gli istinti bellici; che allo stesso modo rende di plastica il dominio della Germania sul mondo, concepito da Hitler coi carri armati e realizzato da Matthäus coi palloni di cuoio.

Questa sperequazione fra le proiezioni del professore e la realtà effettiva si verifica anche quando, con una mossa a sorpresa, l’Iraq occupa il Kwait nell’agosto dello stesso 1990. L’istinto bellico parrebbe spostarsi dalla sublimazione calcistica al secondo campo d’interesse che circonda l’anonimo professore, e che potremmo definire col generico nome di politica. Se non che la politica stessa, a fronte dell’alzata d’ingegno di Saddam Hussein, in Italia si riduce a politichetta, si accartoccia su sé stessa: estremamente indicativo al riguardo è l’attrito semantico fra il titolo del Corriere della Sera che annuncia roboante la “guerra” all’imbocco della penisola araba e quello, più modesto, che riferisce della “battaglia” al Senato sulla legge Mammì (liquidata dal professore, e da Virgili, con una considerazione nazi-snob: “Donnerwetter, non ascolto i programmi di Berlusconi”). Stesso discorso vale per l’ondata di melassa che ha investito la caduta del muro di Berlino, e la considerazione – ovviamente sgradita al professore – che una Germania unita deve necessariamente accettare a priori di essere una Germania debole.

Resta il sesso. Se il calcio, stando a una diffusa definizione progressista, è un sedativo reazionario, al contrario il sesso diventa per il professore da un lato l’unico possibile esercizio del proprio dominio sulla vita altrui, dall’altro anche l’unico possibile contatto con gli esseri umani di là dai fugaci saluti con giornalaio e barbiere. Negli spericolati e acrobatici rapporti erotici del professore con donne e uomini (ma niente animali, va specificato), Dante Virgili pare rifarsi a due modelli: sia a Sade, con la catalogazione di una serie crescente di perversioni atte non tanto a provare un piacere sempre superiore quanto a gestirlo sapientemente e razionarlo, risparmiandolo quasi grazie all’avveduta escalation; sia, più ironicamente, a Belli (“Bast’a sapé ch’ogni donna è puttana / e l’ommini una manica de ladri”), facendo leva sull’avidità delle signore, alle quali offre denaro che poi loro, per puttanesimo intrinseco, finiscono per rifiutare dopo aver compiuto il relativo misfatto, così come su quella dei signorini, per comprare i quali basta la promessa di poter sfogliare o prendere in prestito qualcosina dall’ampia collezione di giornaletti sadomaso che il professore non si perita nemmanco di nascondere a dovere.

Il secondo e ultimo romanzo che Virgili ha firmato col proprio nome supera, a mio modo di vedere, la dicotomia fra romanzo paranazista o filonazista sulla quale ci si è a lungo esercitati cinque anni fa per La Distruzione: ne emerge, invece, un diffuso scetticismo riguardo all’uomo tout court che – questo è il punto – si rivela tanto aggressivo quanto autodistruttivo. L’istinto del professore è fare del male agli altri sia perché se lo meritano, incontestabilmente, sia perché non riesce a spingersi oltre i confini un po’ consolatori del tentato suicidio: e infatti il romanzo, che si chiude con l’immagine dell’universale sterminio di Hiroshima (così come preventivato dal finale de La Coscienza di Zeno), per il suo stesso titolo e ambizione di porsi come Metodo della Sopravvivenza di fatto funge da contraltare della Tecnica del Suicidio di Claude Guillon. I risultati grossomodo combaciano.

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