lunedì 10 marzo 2008

Tizio è Caio

Una delle cose che mi danno più fastidio, soprattutto dopo che magari ho passato anni e anni a scrivere un romanzo, e a pesare una parola dopo l’altra e a spostare virgole e a calibrare capoversi, è quando il tizio che lo legge viene a chiedervi: “Ma chi è questo?” – dove “questo” è un personaggio di fantasia. Si presuppone automaticamente che tutto ciò che è stato messo per iscritto, e che è stato reso verosimile allo scopo unico di metterlo per iscritto, sia necessariamente vero; e quindi, se l’io narrante dice che il suo parroco un giorno è svenuto durante la predica, ci sarà sicuramente da qualche parte qualcuno che verrà a dirmi che conosce benissimo il mio parroco, e che questi non è mai svenuto durante nessuna predica. Peggio ancora sono quelli che leggono – e magari leggono un’onesta storia narrata in terza persona – per poi venire a chiedermi com’è andata a finire. Non c’è modo di spiegare che la fine della storia è l’ultima pagina, loro sono talmente convinti dell’identità fra autore e narratore e protagonista da ritenere immediatamente logico che l’esistenza dei personaggi continui nella vita privata dell’autore. Pirandello, che pure su autori e personaggi ha scritto da par suo, non ha lasciato nulla (che io ricordi) su personaggi mai esistiti per l’autore ma vivi e vegeti per i lettori ingenui.

Queste persone non capiscono niente, e meglio sarebbe se fossero analfabete. Si parva licet, la stessa faccenda era capitata a Proust quando aveva iniziato a pubblicare Alla Ricerca del Tempo Perduto; e meno male che la morte l’ha colto prima che venisse pubblicato il finale, altrimenti avrebbe trascorso il resto della vita a rispondere a interviste radiotelevisive su cosa succeda al narratore dopo l’ultima delle tremila pagine. All’uscita del primo volume, è certo che la Recherche venne relegata nel novero dei romanzi a chiave, in cui a ogni personaggio corrisponde una persona reale; e questo, svilendo oltremodo il lavoraccio di Proust, diventò presumibilmente il gioco preferito dell’alta società nel faubourg Saint-Germain. Poi ci si annoiò, e si passò ad altro.

Ora che ho da poco finito di rileggere il Jean Santeuil (parentesi storico-letteraria: dovete sapere che prima di scrivere la Recerche Proust aveva ideato un romanzaccione teoricamente infinito e narrato in terza persona; dopo qualche anno, accumulate già circa mille pagine, decise che la narrazione in prima persona era di maggior effetto e quindi ricominciò da capo scrivendo tutt’altro: c’è chi può permetterselo) – dicevo: ora che ho da poco finito di rileggere il Jean Santeuil mi rendo conto di come un giochino molto più interessante consista nello scoprire quale dei suoi personaggi corrisponda a un personaggio della Recherche, considerando quest’ultima come un mondo reale e il suo corposo predecessore incompiuto, appunto, come mera realtà romanzesca. In fin dei conti, i personaggi sopravvivono alle persone.

Evidentemente, Jean Santeuil è “Io”, il pronome che un lungo equivoco ha fatto identificare continuamente con Proust stesso: e così il signor e la signora Santeuil sono evidentemente il padre e la madre di “Io”, questo è pacifico. Più ardito, e divertente, è identificare i personaggi secondari – o che quanto meno non occupano la scena dalla prima all’ultima pagina; si noterà che meno il personaggio è definito, più è difficile identificarlo. Henri de Reveillon è quasi in toto Robert de Saint-Loup. Il signor di Lomperolles, che ama i giovanotti, è con ogni probabilità Charlus, ma non ha nulla della sua levità dandystica, anzi è poco più che una macchietta relegata in poche pagine. La signora Marmet, che gestisce il suo milieu tanto snobisticamente da restarne isolata, è l’imbarazzante Madame Verdurin. Il pianista Loisel è il violinista Morel, o viceversa. Perrotin ha qualcosa di Charles Swann, ma in comune hanno soprattutto la morte (mentre non mi risulta che sia scritto da nessuna parte che Perrotin è ebreo). Come riprova del fatto che sto scrivendo a memoria, non ricordo come si chiami nella Recherche il correlativo oggettivo di Marie Kossichef, l’amore infantile di Jean [nota di Gurrado: e invece, poiché contrariamente a quanto scrive mia madre rileggo sempre prima di chiudere, alla seconda passata mi sono ricordato che nella Recherche Marie è Gilberte]; mentre è curioso notare come la vedova Françoise S., che ne tormenta la giovinezza, sia un ircocervo tumultuoso che riunisce due personaggi della Recherche, Odette de Crécy amata da Swann e Albertine amata da Io, sotto il nome della domestica di Proust stesso, ossia dell’unica donna che in fin dei conti gli sia rimasta di fianco fino alla morte.

Quand’ero più giovane avevo spinto il giochino più in là, isolando Un Amore di Swann dal resto della Recherche e rinvenendo nel triangolo scaleno Io-Swann-Odette la stessa relazione con cui nel pressoché contemporaneo Ulisse Joyce lega Stephen Dedalus, Leopold Bloom e sua moglie Molly. Io/Dedalus è il giovane intellettuale, un po’ svenevole, che si pone come osservatore esterno nei confronti della vita, salvo venir travolto dagli eventi. Swann/Bloom è l’uomo di mondo che circonda Io/Dedalus di virile affetto ma che si sdilinquisce di fronte all’impossibilità di cristallizzare i sentimenti dell’amata. Odette/Molly, infine, non è propriamente infedele, quanto piuttosto sfuggente, incomprensibile, rinserrata in un segreto inaccessibile e purtuttavia facile a intuirsi: diciamo che, in maniera molto politically correct, è diversamente fedele.

Questi sono giochi che lasciano il tempo che trovano, e mi sono limitato a esporli per far vedere che nonostante le apparenze ho dei contenuti letterari seri, mica pizza e fichi. Altrimenti avreste potuto immaginarmi come un giovanotto che, seduto con sulle ginocchia l’enorme volume che raccoglie tutto Proust, lo legga pagina dopo pagina con estrema pazienza invecchiando progressivamente e crescendo al passo del Tempo perduto, progressivamente maturando e invecchiando e incanutendo fino al momento in cui, giunto vegliardo all’ultima pagina, legga accigliato la riga conclusiva e poi chiuda il volumone sentenziando: “Frocio”.

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