mercoledì 25 giugno 2008

Adversus Progressistas (bene bravo bis)

(Gurrado per Books Brothers)


Riassunto della puntata precedente: nel luglio del 2006, il secondo numero della rivista letteraria Ore Piccole ospitava un curioso confronto incentrato sulla figura di Pasolini. Sulla colonna sinistra delle pagine era possibile leggere la strenua difesa, opera di Alcide Pierantozzi, e sulla colonna destra la mia invettiva, baroccamente intitolata Adversus Progressistas: imperite considerazioni teocon sugli effetti del pasolinismo e incentrata sulla decostruzione del mito sorto intorno agli Scritti Corsari e al loro autore. Chi vuol leggere il mio intervento può cliccare qui. Chi vuol leggere l’intervento di Pierantozzi, fatti suoi. Nel frattempo è avvenuto che Pierantozzi abbia pubblicato un romanzo con Rizzoli, mentre io non son più nemmeno riuscito a far pubblicare la lista della spesa sulle pagine della stessa rivista che già mi aveva ospitato. Vabbe’, sic transit. Solo pochi giorni fa, tuttavia, ho finalmente potuto aver per le mani il pressoché introvabile correlativo oggettivo nonché teorico antagonista degli Scritti Corsari, a trent’anni dalla morte del suo autore e a dieci della sua ultima edizione: la Modesta Proposta per Prevenire di Giuseppe Berto. Mi è parsa occasione per rinverdire il discorso già fatto due anni fa, e completarlo in qualche modo.


A ridosso degli anni Settanta i Pink Floyd calarono a Roma per un concerto. La leggenda vuole che Antonia Berto, liceale contestatrice, si presentasse al botteghino per comprare un biglietto; richiestole nome e cognome, il venditore sentenziò: “Ah! La figlia del fascista!”

Il pamphlet politico di Giuseppe Berto doveva originariamente intitolarsi Strumento per la perfetta controrivoluzione: così testimonia Berto stesso in un libro-intervista di Corrado Piancastelli pubblicato da La Nuova Italia alla fine del 1970. Il testo che venne effettivamente scritto e pubblicato nell’anno successivo doveva con ogni probabilità essere differente nel metodo (se non nel contenuto) da quanto era stato pianificato. La scelta di un titolo apparentemente monco come Modesta Proposta per Prevenire era talmente carica di significato da finire per ricalibrare tutta la portata del volumetto: si trattava di una citazione pari pari dal 1729, quando Jonathan Swift, precursore di felice memoria, aveva pubblicato una Modesta Proposta per Prevenire che i Figli della Povera Gente Divengano un Fardello per i Loro Genitori.

Nelle vibranti pagine della sua Modest Proposal, il decano Swift nota come “un bambino appena deposto dalla madre possa essere mantenuto per un anno solare dal latte di lei e da poco altro nutrimento (…). Ed è esattamente a un anno d’età che io propongo di provvedere loro in modo tale che, invece di essere a carico dei loro genitori o della parrocchia, o di restare senza cibo né abiti per il resto della loro vita, essi al contrario contribuiscano a nutrire e, in parte, a vestire molte migliaia di persone. (…) Un americano molto competente, che ho conosciuto a Londra, mi ha assicurato che un bambino sano e ben nutrito è, all’età di un anno, un cibo quanto mai squisito, nutriente e salutare, sia che lo si faccia stufato, arrostito, al forno o bollito; e io non ho dubbi che sia egualmente buono per una fricassea o per il ragù (…). Un bambino basterà per due piatti in un banchetto per gli amici e, quando la famiglia cena da sola, il quarto anteriore o posteriore sarà una porzione sufficiente; condito con un po’ di pepe o di sale, sarà molto buono lesso al quarto giorno, specialmente d’inverno”.

Ho tradotto questo passo in una biblioteca di Oxford, dall’edizione corrente e pure economica delle opere di Swift. Sul medesimo volume, qualche anno prima di me, una mano anonima aveva tracciato a matita la nota: Questo vuole mangiare i bambini!, con tanto di punto esclamativo e infinito sottolineato. È plausibile che il commentatore meravigliato fosse un qualsiasi ottuso nerd coreano, dei tanti che ingolfano le università anglofone. È altrettanto plausibile che la mano priva degli strumenti minimi per leggere Swift capendolo, ossia ironia e cultura e modestia, appartenesse invece a uno studente progressista e contestatore. Pur ignorandone l’evenienza specifica, la Modesta Proposta di Berto ne spiega le ragioni.

La mano ignota che si schierava irrefragabilmente contro l’antropofagia settecentesca non coglieva, della proposta di Swift, la portata eminentemente paradossale e – nella sua abiezione – intrinsecamente morale. Sintetizzando e banalizzando, la Modest Proposal partiva dall’assunto chet tanto diffusa era l’immoralità dei tempi (nella sperequazione delle risorse, tanto per dire) da rendere accettabile come unica soluzione un suo superamento mediante l’intensificazione dell’immoralità stessa. Idem la Modesta Proposta di Berto. Questi auspica una novella borghesia pronta a “organizzarsi per esprimere volontà politica onde difendersi dai prepotenti, pagare le tasse, guastarsi coi preti, moralizzare la scuola, perdere i viaggi a tariffa ridotta, spostare i monumenti ai caduti, minimizzare il ministero degli esteri, perdere generali e corazzieri, andare contro se stessa pur di combattere la burocrazia, abolire il codice fascista, limitare le nascite, rimettere in piedi la Repubblica di Venezia e il Regno delle due Sicilie, e tutto questo giusto per dar retta a Mao”. Di fronte a passi del genere si possono trarre due possibili conclusioni con altrettante conseguenti reazioni. Quella del secchione coreano consisterebbe nel concludere che Berto è maoista. Quella del bigliettaio contestatore è stata di concludere che Berto è fascista.

Nel libro-intervista del 1970 che citavo poco fa, Berto dichiarava papale che la contestazione studentesca “ha poco a che fare con la letteratura, ma ha spazzato via parecchie cose, fra le quali (…) il romanzo come ero arrivato a concepirlo ultimamente”. Una scorsa alla biografia di Berto può chiarire dunque come il problema politico fosse per lui prima di tutto letterario, come si conviene a uno scrittore (ché si scrive per far letteratura, e tutto il resto è fumo del diavolo). Nel 1964 Berto aveva pubblicato Il Male Oscuro, vertice ineguagliato né da lui stesso né da altri finora; due anni dopo, con La Cosa Buffa, aveva seguitato sulla strada dello scandaglio linguistico-psicologico passando dalla prima alla terza persona, oggettivizzando così il suo personalissimo stile fiorente di virgole ossessive e superando mediante una soluzione non occasionale i primi esiti neorealistici della sua narrativa (da Il Cielo è Rosso del 1947 a Guerra in Camicia Nera del 1955). A questo punto, Berto si era fermato, in concomitanza con la contestazione. Il 1968 aveva presentato uno spartiacque che Berto riuscì a superare soltanto nel 1971, proprio con la Modesta Proposta; sarebbero seguiti Anonimo Veneziano nello stesso anno, Oh Serafina! nel 1973 e il magistrale romanzo cristologico La Gloria nel 1978, poco prima di morire. In definitiva, la Modesta Proposta per Prevenire rispondeva a un’esigenza letteraria e psicologica più che teorico-politica: Berto doveva passarci attraverso per esorcizzare il suo blocco sessantottesco e poter continuare a scrivere, e questo ne giustifica le ragioni in maniera più che sufficiente.

Altresì nel titolo il verbo infinito, restando in sospeso, doveva portare il lettore ingenuo a chiedersi: “Per prevenire che?”. Triste ammetterlo, nel 1971 Berto intendeva evitare quello che bene o male sta accadendo oggidì. Non c’è miglior prova che sottoporre il pamphlet a una rapida revisione sostituendo la data 1971 in 2008, aggiornando il nome del Presidente della Repubblica e derivati, cambiando l’Unione Sovietica in Al Quaeda e gli Stati Uniti d’America in Stati Uniti d’America. Ne sortisce che tutto ciò che Berto depreca e vitupera s’è pari pari conservato fino ai giorni nostri; e basta godere del discernimento minimo alla decenza intellettuale per rendersi conto che tutto ciò è stato accuratamente conservato dai rivoluzionari d’allora.

La Sacra Costituzione ne è un esempio lampante. Berto non solo ne critica le pecche note da decenni (è fumosa, è tronfia, non garantisce un’adeguata distinzione fra i poteri legislativo esecutivo e giudiziario, propaganda una tranquillizzante retorica marxista del lavoro e sostanzialmente stabilisce che gli Italiani sono davvero come vorrebbero fingere di essere); soprattutto, da scrittore Berto ne critica la forma, sottoponendola a un rigoroso esame filologico (e logico) che ne rivela l’imbarazzante nudità e la preoccupante fragilità. Esami simili nei metodi e negli esiti riguardano ogni aspetto dell’Italia di ieri e oggi: la proliferazione di iniziali maiuscole, la venerazione della Resistenza, la micragnosità dei parlamentari, il preoccupante (e mai passato di moda) “bordello magistratura”, il tutto prendendo le mosse dalle fondamenta filosofiche della contestazione studentesca, degenerata da Marcuse a Capanna.

Venendo pubblicata in volume quattro anni prima degli Scritti Corsari e vedendo chiaro il futuro per molti decenni in più, l’operetta di Berto è oggettivamente superiore, se si riesce a considerarla coi minimi criteri di onestà che per tanti decenni (e soprattutto in quei decenni) sono mancati alla critica italiana più o meno militante, che ha talvolta provveduto a esaltare gli esaltati per sminuire i meritevoli. L’aspetto principale sul quale Berto si concentra è la destrutturazione dell’antifascismo precotto, e non è peregrino immaginare che lo faccia appositamente in contrasto con l’ossessiva e un po’ isterica insistenza del contemporaneo Pasolini sul ritrito clericofascismo. Da un lato Berto elabora una nuova categoria, il “nonfascismo”, che a differenza dell’antifascismo evita di porsi sullo stesso piano di ciò che combatte e di rifiutare aprioristicamente tutto ciò in cui non si rispecchia. Dall’altro canto Berto – a pochissimi anni di distanza dal Concilio Vaticano II – individua il male peggiore della Chiesa non tanto nel calo di consensi sul quale batteva il miope Pasolini quanto nel progressivo sviluppo di un “clericomarxismo” che avrebbe condannato il Cattolicesimo ai gorghi del relativismo autodistruttivo.

Agli occhi di Berto il peggior esempio che si possa seguire è il tuttora alla moda don Milani, “il rivoltoso di Barbiana” che sulla base di una confusa e personalissima interpretazione di passi a caso del Vangelo aveva tratto la convinzione di dover rivoltare la dottrina sociale della Chiesa movendo dall’istruzione dei fanciulli. Don Milani morì nel 1966 e due anni dopo si manifestò la contestazione nelle sue peggiori incarnazioni, residui della quale troviamo ancor oggi ben presenti nei notiziari. È mirabile considerare come Berto insista sulla vacuità delle istituzioni politiche e culturali della Repubblica per mostrare il loro effetto sulla psicologia collettiva, e sul generale impazzimento degli studenti (a seguito del travisamento della psicanalisi operato da Marcuse in primis) per liberare il suo privato e insindacabile diritto alla bella prosa di fronte a una generazione, compresa sua figlia Antonia, che scriveva sui muri roba tipo l’intellettuale è morto, è nato l’uomo nuovo. Berto è uno scrittore e interpreta il mondo ai fini della sua scrittura, e ciò dà un senso superiore a tutto ciò che scrive.

D’altronde per scoprire che Berto scrive meglio di Pasolini basterebbe leggerlo. Alla macchina per scrivere di Berto si deve il più bel romanzo italiano del secondo Novecento, Il Male Oscuro, mentre Pasolini non risulta avere meriti equiparabili. Gli Scritti Corsari sono una cantilena che agogna la strumentalizzazione, mentre la Modesta Proposta per Prevenire di Berto è una replica letteraria a un problema politico e una reazione politica a un blocco letterario (e psicologico: nelle considerazioni di Berto c’è tantissima analisi delle masse che si sovrappone al basso continuo dell’analisi del sé). Pasolini ha creato una vacua retorica che sarebbe stata pungolo e fondamento per generazioni di epigoni più o meno malriusciti. Berto ha reagito alla sommossa vera o farlocca da conservatore col cervello, come lui stesso si augurava a fine 1970: “Meglio rifarsi a Machiavelli, Erasmo, Bacone, però vorrei farlo senza rinunciare all’umorismo. Mah. Quando sarà il momento, se verrà, vedrò.” Il momento è venuto poco dopo, quando Berto ha scritto la Modesta Proposta; il momento evidentemente è passato una decina d’anni fa, quando Marsilio ha pubblicato nei tascabili l’ultima edizione del testo in questione, che ho potuto trovare per caso nelle rimanenze della casa editrice dopo anni di ricerche sì blande ma infruttuose al punto da suggerirmi l’idea balzana che in Italia la libertà di stampa… lasciamo perdere.

domenica 22 giugno 2008

Se Joyce lavora al pub

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Volendo esagerare, si può dire che autore e titolo delle Cronache Dublinesi di Flann O’Brien sono veri ma non del tutto. L’autore viene indicato con il suo pseudonimo più celebre – se non altro quello sotto il quale è possibile rintracciare le sue opere in Italia – ma che non coincide né con il vero nome e cognome (Brian O’Nolan), né con la corrente grafia irlandese del nome stesso (Brian Ó Nualláin), né con il nom de plume con il quale ha effettivamente firmato i testi antologizzati da Neri Pozza (Myles na Gopaleen), né con l’effettiva grafia dello stesso: Myles na gCopaleen. Non è una distinzione fumosa, visto che in Irlanda Myles è più famoso di Flann O’Brien, mentre Brian O’Nolan non lo conosce nessuno. Allo stesso modo il titolo scelto per la traduzione italiana di questa raccolta antologica di articoli umoristici rende bene il senso dell’operazione editoriale, ma non collima con l’originale anglofono pubblicato già quarant’anni or sono (A selection from The Best of Myles) né con il titolo della rubrica che O’Brien ha tenuto sull’Irish Times dal 1940 alla sua morte avvenuta nel 1966.

Il titolo della rubrica era Cruiskeen Lawn (letteralmente “boccale traboccante”) e si trattava di una citazione in quanto – come segnala Daniele Benati nella sua dotta postfazione – la medesima perifrasi è un hapax dell’Ulisse di Joyce, apparendo soltanto all’inizio del dodicesimo capitolo. Il luogo preciso della citazione mi sembra particolarmente indicativo riguardo al procedimento e alle intenzioni di O’Brien: il dodicesimo capitolo dell’Ulisse è ambientato in un pub dove un gruppetto di dublinesi progressivamente alticci (alle cinque del pomeriggio, peraltro) sottostanno all’incombente presenza del più dublinese e più ubriaco di tutti, un ciclope postmoderno noto per antonomasia quale Il Cittadino. Il dodicesimo capitolo dell’Ulisse è quello che riversa il massimo di ironia sulla società irlandese, utilizzando il procedimento discorsivo proprio dei dublinesi stessi: una ritmata alternanza fra linguaggio triviale e tramortente magniloquenza.

Nelle Cronache Dublinesi selezionate da Neri Pozza, Flann O’Brien esercita lo stesso metodo: alle volte la sua prosa alle volte circonda con un braccio la spalla del lettore e lo rende complice di una sistematica e repentina diminuzione (“Vi piace la commedia, Miss Plug? Lo chiedo solo per educazione, perché una puttanella ignorante come te non credo proprio che possa presumere di avere un’opinione riguardo ad alcunché”); altre volte se ne distacca repentino procedendo a un vertiginoso innalzamento, talvolta rifugiandosi in più o meno appropriate citazioni latine.

Myles na gCopaleen, voce narrante e protagonista dei testi giornalistici di O’Brien, si candida così a diventare l’Irlandese assoluto. Dai brani antologizzati si evince che è stato membro della sovraffollata Associazione degli Scrittori, Attori, Artisti e Musicisti Irlandesi, che ha inventato un servizio di gualcitura libri per ignoranti ambiziosi e di accompagnatori ventriloqui per interlocutori noiosi, che ha escogitato un sistema per nuotare nudi con un cappello a cilindro senza bagnarlo, che ha inventato un inchiostro che ubriaca e una marmellata elettrica, che è stato accusato di “accattonaggio, offesa a pubblico ufficiale, linguaggio osceno e detenzione illegale di poltrona”; parrebbe anzi che il meglio sia stato lasciato fuori, visto che la postazione di Benati ci informa di come Myles sia stato fra l’altro anche professore di whisky al Trinity College, istruttore privato di Einstein e duca del Mondo. Sempre con la sua duplice tendenza a riversarsi completamente nella sbruffoneria irlandese e di poi uscirne indenne con un sovrappiù di faccia tosta, è possibile riconoscere Myles tanto nel generico carnefice (“il Fratello”) che sa tutto di tutti e ha una soluzione disastrosa per le evenienze più surreali quanto nella vittima dei pomposi seccatori che progressivamente gli si parano dinanzi: “Quello Che Non Dà Mai Una Lira Ai Mendicanti”, “Quello Che L’Aveva Già Letto Quando Era Ancora Un Manoscritto”, “Quello Che Sa Fare La Valigia”, etc.

I brani antologizzati nel volume tradotto da Neri Pozza costituiscono il grado zero del procedimento narrativo e umoristico che O’Brien aveva utilizzato sin dal suo esordio Una Pinta d’Inchiostro Irlandese (un complesso gioco di specchi in cui i personaggi di un romanzo si ribellano pretestuosamente contro l’autore), nonché ne La Miseria in Bocca (parodia estrema della rinascita della cultura gaelica in Irlanda) e ne L’Archivio di Dalkey (che fra i suoi personaggi annovera un Sant’Agostino piuttosto refrattario a confessare il vero colore della sua pelle e un James Joyce che, invece di accecarsi scrivendo, ha preferito lavorare in un pub e campare cent’anni). Così come sono, le Cronache Dublinesi sono spassosissime. Se bisogna individuarvi un difetto, è quello di aver dovuto operare una scelta forzata, sia per rientrare entro i limiti del singolo volume (la raccolta completa degli articoli a firma Myles na gCopaleen ne occupa sei), sia per evitare i non pochi brani basati su calembour di fatto intraducibili, che hanno sempre costituito la cifra stilistica di O’Brien e che forse hanno finito per danneggiare oltremodo la sua meritata diffusione fuori d’Irlanda.

È molto utile citare al riguardo il parere espresso da Gianni Celati sull’edizione originale delle Cronache Dublinesi: “Il volume antologizza pezzi distinguendoli per argomento, e così ci si trova a leggere dei raccontini separati dal flusso ininterrotto in cui nascevano”. Cruiskeen Lawn, il boccale traboccante di Flann O’Brien, si caratterizzava come dialogo incessante fra “la Semplice Gente d’Irlanda” e Myles na gCopaleen, l’uomo che ne era al contempo il ritratto sputato e la deformazione caricaturale. Se pure l’antologia tematica fa perdere il senso della continuità di questo cicaleccio, le Cronache Dublinesi possono essere un ottimo antipasto per avvicinarsi alla lettura dell’opera narrativa di Flann O’Brien, mai abbastanza tradotta. Neri Pozza ha avuto il merito di aver riproposto questo volume già edito da Giano nel 2005, e di aver promesso la prossima pubblicazione de L’Ardua Vita, ormai pressoché introvabile: ragione sufficiente ad attendere più che fiduciosi.

venerdì 20 giugno 2008

Le notti magiche sono un'altra cosa

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Sin dal titolo, il Metodo della sopravvivenza di Dante Virgili ricalca un libro pubblicato circa venticinque anni fa e destinato a far discutere (anzi, concepito nell’esplicito intento): Suicide, mode d’emploi di Claude Guillon, testo che Virgili stesso cita traducendolo in Tecnica del suicidio. Nel titolo di Guillon risuona forte e chiara l’eco parodistica de La Vie, mode d’emploi di Georges Perec, così che mentre quest’ultimo forniva un catalogo di ogni singola minuzia che testimoniasse l’esistenza altrui a un ideale occhio indifferente, per certi versi divino, specularmente lo scopo di Guillon è quello di addentrarsi in tutta una casistica di differenti e talvolta surreali metodi per porre fine alla propria vita. Virgili, a pagina 145, cita lo sconsigliato metodo di suicidarsi facendo saltare in aria il proprio palazzo: non già perché causerebbe la morte degli altri inquilini, quanto perché “non è detto che io resti coinvolto”.

Questo rapido esempio è tipico dell’atteggiamento del narratore autodiegetico del Metodo, nel quale si ha gioco facile a ravvisare ampi tratti di Virgili stesso. Questo spiega inoltre anche la scelta del peculiare titolo, in riferimento a quello di Guillon. Se Guillon intendeva fornire un prontuario di ogni possibile annullamento di qualsiasi vita, Virgili al contrario si auto-fornisce il faticoso resoconto dell’unica possibile maniera di sopravvivere a sé stesso. L’anonimo protagonista e narratore del Metodo, infatti, è un triste professore di tedesco di non velate simpatie naziste; la sua tragedia è di essere nato fuori tempo massimo, e di star vivendo un anno – il 1990 – in cui la principale gloria riconosciuta alla Germania è quella calcistica, in concomitanza coi mondiali d’Italia.

Le notti magiche, per il protagonista, sono tutt’altro. La sua estraneità alla cultura popolare è tale da fargli ammettere candidamente (p.35): “qui si parla di Schillaci, e non so chi sia”. Due pagine dopo la tragedia nazionale dell’eliminazione ai rigori in semifinale, per la mano diabolica dell’Argentina di Maradona, è ridotta a tre righe di notazione impassibile. La distanza fra il professore di tedesco e un’intera nazione pedatoria non poteva venire espressa più recisamente.

Nell’assolata cornice del luglio milanese, Virgili dà il meglio nell’ironia nera riguardo allo squilibrio fra le proiezioni del professore e la triste realtà. Un uomo che cura nel minimo dettaglio la pronunzia e l’inflessione tedesche, allo scopo di garantire alla Germania una gloria se non altro culturale benché per certi versi postuma, si ritrova a dover leggere sui giornali il grottesco titolo del Corriere della Sera, posto in esergo alla prima parte del romanzo: “Sotto il Duomo sventola la bandiera tedesca”. Il professore, che avrebbe preferito vederla sventolare in ben diversi anni e circostanze, non ha altra scelta che tracciare un recinto impenetrabile intorno alla propria vita e – fatti salvi i rapporti di cordialità minima con barbiere e giornalaio – convertirla a una sorta di nazismo privato.

Il suo nazismo su piccola scala si esercita pressoché esclusivamente nel sesso. È forse inevitabile, stante che il corpo è l’unico comun denominatore che lega l’avulso professore alle persone che lo circonda; e, al contempo, l’unica possibile comunicazione fra sé e l’altro da sé viene lasciata agli umori corporali.

Sarebbe stucchevole, tuttavia, che il professore si limitasse a una serie di bestiali accoppiamenti di varia soddisfazione. Il suo metodo, più sottile, consiste nell’imporsi innanzitutto un’altissima soglia del piacere, così da poter tenere saldo il controllo sminuendo l’atto del sesso in sé (è superfluo dire che non una sola briciola di amore appare lungo le duecento e più pagine del romanzo; e che, se fosse apparsa, avrebbe portato all’immediata e definitiva chiusura del libro per manifesta inverosimiglianza). La sua impassibilità gli consente di esercitare il dominio sulle donne e sugli uomini che si avvicendano nella sua casa-museo torturandoli con gli strumenti più variegati ma soprattutto ottenendo che costoro lo implorino per riceverne torture. Il dato di fatto, ciò che emerge incontestabile dalle pagine di Virgili, è la sfolgorante possibilità di assoggettare a sé le altre persone. Le donne sono corruttibili con la promessa di cospicue somme di denaro, che poi finiscono quasi sempre per non accettare. Quanto agli uomini, basta qualche giornaletto sconcio e la promessa di un piacere più intenso del solito. Nulla li differenza dalle bestie, se non un po’ d’ipocrisia.

In ciò si realizza l’ideale del professore; ma, lungi dal soddisfarlo, è foriero di nuovi interrogativi. La domanda chiave del romanzo è lasciata al tedesco (non tradotto) di Hitler, dove si ricorda che questi soleva chiedersi (p.178): “Wozu veiterleben?”, “perché sopravvivere?”. La risposta è chiara dal principio. Perfino l’ultimo sussulto d’interesse del professore, la vitalità della guerra rinfocolata nell’agosto 1990 dall’invasione irachena del Kwait, si spegne nella consapevolezza di star vivendo in un mondo ridotto a parodia, in cui l’energia vitale e bellica si accartoccia sulla “battaglia al Senato” per l’approvazione della legge Mammì.

Il professore, distante da tutto ciò, sopravvive per inerzia, per consapevole fedeltà alla stessa impossibilità di realizzare l’ideale che ne segna l’animo in profondo.

martedì 17 giugno 2008

Ancora su MAS

Chi per avventura dovesse dubitare che Maschio Adulto Solitario sia un capolavoro, o sospettare che io abbia lodato Cosimo Argentina perché incluso nel novero più o meno ristretto degli invitati al battesimo di sua figlia (senza riuscire ad andarci, peraltro), dovrebbe leggere la recensione di Sergio Pent uscita su TuttoLibri della Stampa sabato scorso, e poi non avere più dubbio di sorta.

lunedì 16 giugno 2008

Storia immaginaria di Mantarro

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Gli Imitatori di Marco Bellotto contiene, neanche tanto nascosta fra le righe, una verità insindacabile: i conservatori scrivono meglio dei rivoluzionari. Forse però le 215 pagine del romanzo non sono sufficienti a sviluppare appieno tutti i complessi temi che l’autore ha in mente e che si dipartono da questa apparentemente semplice e solare verità.

Bellotto ha scelto di raccontare la storia (immaginaria) di Livio Mantarro, uno dei più grandi autori (immaginari) del Novecento (reale) nonché lo scrittore preferito (immaginario) dello stesso Bellotto. Quest’ultimo figura nel proprio romanzo quale avvocato (reale: nella vita è penalista) della difesa di Mantarro nel corso di un processo (immaginario) per terrorismo rosso (reale), a seguito dell’accusa (plausibile) mossa a Mantarro riguardo al sequestro e all’uccisione (immaginari) di un industriale milanese nel 1979.

Mantarro è rinchiuso in una casa di cura dopo che, nello stesso anno, durante una conferenza s’è accasciato al suolo biascicando frasi poco lusinghiere riguardo all’opera propria e, più in generale, alla produzione letteraria militante e impegnata del periodo. L’inaudito coraggio nel denunziare ciò che molti pensano e nessuno dice è il sintomo irreversibile di una malattia mentale che lo costringe in un isolamento sempre più profondo, tanto da fargli seguire con indifferenza assoluta il processo che gli viene intentato. Più che combattere contro l’accusa, quindi, l’avvocato Bellotto (reale e immaginario) deve scardinare il silenzio e le divagazioni di Mantarro, più che mai restio a fornire indicazioni utili alla difesa.

Si è detto che la biografia è l’atto di riconoscenza e invidia che un autore minore rende a chi è più grande di lui. Per Bellotto scavare nella vita di Mantarro, dapprima loquacissima poi silenziosa, e progettare di scriverne la biografia non è soltanto un dovuto omaggio ma soprattutto un tentativo estremo di salvare un idolo, di fatto identificandosi con lui. Come spesso accade, gli ammiratori si appassionano all’opera di un autore più dell’autore stesso; Mantarro poi, a seguito dello strappo del 1979, insieme alla letteratura impegnata ha mollato del tutto anche l’attività che l’aveva reso celebre, discusso e amato nel secondo dopoguerra: ha deciso di non scrivere più, di lasciar perdere la politica e di parlare d’altro.

Mantarro è, per certi versi, il distillato dell’intellettuale di sinistra degli anni ’60 e ’70. Bellotto (reale) intercala nel proprio romanzo vari estratti (immaginari) dei romanzi più celebri di Mantarro, con tanto di luogo e data di pubblicazione: Sia fatta la Tua Volontà (1963), Stella D (1965), Mi chiamo Alfredo (1968), Sirene (1970), La Vita Assoluta (1973), Comunista, sono un Comunista (1974), La Seconda Occasione (1977) e Quello che oggi non farò (1978). Attorno a Mantarro, inoltre, si muove buona parte dell’intelligentsia editoriale (reale) del tempo, ben personificata dalla trinità Feltrinelli-Bianciardi-Arbasino.

Se il ritratto di Feltrinelli è troppo agiografico e quello di Arbasino un po’ stucchevole, Bianciardi (immaginario) è il personaggio più riuscito di tutto il romanzo. Ho il sospetto però che la riuscita derivi dall’essere Bianciardi (reale) un personaggio riuscito dalla nascita, uno che avrebbe meritato di essere stato scritto da sé stesso. Bellotto ha il merito di averlo descritto alla perfezione in poche pagine, da un’irruzione disinvolta (p.102: “Luciano Bianciardi aveva detto che quella scena non c’entrava un beato cazzo con il resto del romanzo”) a un distacco secco e risolutivo (p.168: “Per Mantarro il decennio terminò il 14 novembre 1971, il giorno della morte di Bianciardi”). Purtroppo la riuscita del personaggio Bianciardi, superiore a quella del personaggio Mantarro, introduce forse uno iato eccessivo fra la metà reale e quella immaginaria del romanzo, che Bellotto si propone invece di far combaciare perfettamente.

Una controprova è offerta proprio dagli otto inserti metanarrativi che riproducono le pagine (reali) dei romanzi (immaginari) di Mantarro. L’intento di Bellotto è indubbiamente pregevole ma non si avverte alcuno scarto stilistico fra la prosa (immaginaria) di Mantarro e quella (reale) di Bellotto; è come se una medesima penna, quella del Bellotto autore, stesse prestando la propria voce tanto al Bellotto narratore quanto al Mantarro apocrifo. Senza voler per questo rifugiarsi negli esercizi di stile, l’inserzione in un romanzo esistente di un brano inesistente dovrebbe lasciare il lettore con una sana insoddisfazione, col desiderio di continuare a leggere il romanzo di cui ha avuto un assaggio e con l’irragionevole frustrazione derivante dalla consapevolezza che il resto del romanzo non si trova da nessuna parte. Così ha fatto, tanto per dire, Calvino; mentre gli estratti dello pseudo-Mantarro fanno piuttosto venir voglia di andare avanti col romanzo vero e lasciano con l’atroce dubbio che, in fin dei conti, scriva meglio Bellotto (autore e narratore, reale e immaginario).

Gli Imitatori è un libro gradevole, di scorrevole lettura ma mai banale nelle soluzioni narrative. Quanto allo stile, avrebbe davvero avuto bisogno del doppio delle pagine (facciamo quattrocentocinquanta) per distendersi comodamente a discettare dei numerosi argomenti che Bellotto affastella con un po’ di fretta: il tema del doppio, la critica al Novecento, il tramonto della letteratura impegnata, la parodia espressiva, il ritratto memorialistico, il giallo politico, lo scandaglio umano degli attori del processo, la riflessione sul terrorismo e quant’altro. È un romanzo che si legge velocemente, e quando finisce lascia col rimpianto della lentezza.

venerdì 13 giugno 2008

E quindi vado a Padova

Contributi alla cultura americana

(Gurrado per Il Sottoscritto)


Mi era già capitato qualche volta di dover prendere delle misure prima di leggere un libro, ma si trattava di misure teoriche, cognitive, o eventualmente misure di ordine pubblico e volte a creare attorno a me un silenzio appena sufficiente alla minima concentrazione necessaria. Stavolta invece mi sono visto costretto a prendere le misure nel senso letterale del termine, con apposito righello, per pronunziarmi definitivamente sul bizzarro formato del primo volume in cui Massimo Coppola raccoglie un’antologia di scritti diversi per la rivista americana The Believer. In soldoni, il problema era: si tratta di volume quadrato o rettangolare? Accurati rilevamenti hanno certificato che la copertina si estende per venti centimetri in senso verticale e per venti centimetri e cinque millimetri in orizzontale. Ragion per cui è rettangolare ma sembra quadrato.

Tanto accanimento sulle dimensioni del libro, che schiferà chi tifa per il contenuto, si giustifica con l’attenzione che l’editore ISBN ha voluto dedicare alla forma estetica del volume in questione; che si giustifica ulteriormente con l’appartenenza di The Believer al gruppo editoriale McSweeney’s, fondato da Dave Eggers, la cui peculiarità consiste nel pubblicare una rivista di formato sempre diverso e come tale sfuggente agli occhi dell’acquirente abituale in cerca di conferme grafiche e no. Il comun denominatore, riproposto nell’edizione antologica italiana, è costituito dal layout e soprattutto dai disegni incongrui e surreali, talvolta in pieno stile-Jacovitti (ma gli americani non lo sanno).

Come l’originale americano, dunque, The Believer/1 è innanzitutto un libro da guardare. Prova ne sia il curioso inserto quadricromatico (comprensivo di due pagine di immagini avanzate ma che era un peccato buttar via) che fornisce una mappatura del superfluo e dell’implausubile, in qualche modo erede dell’inglesissima Miscellanea di Ben Schott – opera talmente inglese che, da un paio d’anni, s’è smesso di tradurla in Italiano mentre oltremanica continua imperterrita a uscire ogni Natale. Controprova ne è che il carattere scelto per i testi dell’inserto quadricromatico è talmente minuscolo che di tanto in tanto anche un lettore onnivoro come me s’è dovuto arrendere all’idea di limitarsi a guardare la grafica per un paio di minuti, apprezzarla più o meno a seconda dei casi, e poi girare pagina.

Abbastanza minuto è anche il carattere in cui è stampato il resto del volume, che raccoglie – come specifica il sottotitolo – una serie di “contributi interessanti dalla cultura americana”. Se non che anche qui la grafica è accattivante tanto quanto il corpo del carattere può risultare scoraggiante, e di conseguenza torna la tendenza a guardare il libro più di quanto si pensi a leggerlo. A ciò contribuisce il suo carattere antologico, che vive di necessari alti e bassi. Non si può perdere mezza parola, a costo di usare la lente d’ingrandimento, delle dodici pagine di dialogo forsennato fra Salman Rushdie e Terry Gilliam (alto); ma un’armatura della miglior volontà non è mi è stata sufficiente a superare la seconda pagina della recensione a W.G. Sebald che apre il volume (basso), e che fa correre il rischio di chiuderlo definitivamente e prematuramente. Per partito preso non leggo mai interviste ai musicisti, ritenendo paritariamente che gli scrittori dovrebbero evitare di esibirsi in concerto: ragion per cui ho saltato a pie’ pari le interviste a Jack White e a David Byrne (bassi aprioristici), così come solo per scrupolo ho letto solo le risposte delle interviste a Richard Rorty e David Dennet (bassi filosofici: avrei fatto meglio a leggere solo le domande).

Livelli altissimi sono invece raggiunti dal dialogo a due velocità fra Dave Eggers e David Forster Wallace, la cui alternanza fra celerità e lentezza è data dal fatto che Eggers poneva delle domande via mail a cui Wallace rispondeva via posta: di modo tale che, nel duplice gorgo della verbosità affabulatoria di Wallace e del narcisismo di Eggers diventa difficile distinguere l’intervistatore dall’intervistato, o entrambi da due giovanotti che chiacchierano oziosamente o, meglio ancora, da due autori che scrivono in parallelo su un canovaccio preordinato e ciò nondimeno friabile. Altresì sono alti i picchi delle note a pie’ di pagina (più ancora del testo) dell’interpretazione teologica di Superman fornita da Gustav Peebles; più alti ancora, per chi ha tempo sufficiente a immergersi in ventiquattro pagine di tre colonne ciascuna (scritte in piccolo, giova ricordarlo), quelli del monumentale reportage in cui Michelle Tea ci erudisce dall’interno riguardo alla molteplice evenienza: 1) che in Michigan esista un festival musicale femminista; 2) che le femministe declinino il plurale di woman in womyn invece di women, per evitare di inserirci men, che è il plurale di man; 3) che il festival in questione pulluli di signorine lesbiche; 4) che costoro siano particolarmente intolleranti nei confronti delle signorine transessuali (uomini diventati donne), le quali si ritengono femmine ma vengono ritenute maschi dalle femministe, e come tali allontanate dal festival; 5) che per protesta le signorine transessuali hanno edificato un campeggio di fronte alla sede del festival femminista; 6) che un buon numero di femministe lesbiche scappa nottetempo dalla sede del festival al campeggio antistante per garantirsi qualche storiella con dei signorini transessuali (donne diventati uomini), trattando mirabilmente da femmina chi si ritiene maschio e da maschio chi si ritiene femmina.

The Believer/1 prosegue nell’intendimento dell’editore ISBN, che già in precedenza (ad esempio pubblicando Bere caffé da un’altra parte di ZZ Packer) aveva inteso dar voce a una cultura americana nascosta non tanto all’America stessa quanto ai nostri occhi italiani e talvolta un po’ provinciali. Ci riesce senza dubbio, tanto più che la copertina stessa dell’antologia denunziava l’idea di stampare un libro che fosse più largo che lungo ma non troppo, rettangolare e quadrato al contempo; un antilibro gradevole a patto di non leggerlo tutto dall’inizio alla fine, parola per parola, ma di saltar pagine capricciosamente e poi magari fermarsi a guardare le figure. Un prodotto editoriale che anche dimensionalmente si rifà all’essere larger than life, come dicono gli americani stessi: ora eccessivo, ora trascinante, talvolta un po’ compiaciuto, sicuramente fuori misura con tutto quel che comporta di buono e di cattivo.

lunedì 9 giugno 2008

Intervista a Cosimo Argentina

(Gurrado per Il Sottoscritto, anno I, n.2, giugno 2008)

Cosimo Argentina ha scritto un romanzo sorprendente soprattutto per chi conosce la sua precedente produzione, ormai decennale. Può sembrare un paradosso, ma la novità diventa più evidente se si considera che Maschio Adulto Solitario racchiude e riassume in circa trecento pagine gli stessi temi – e in alcuni casi addirittura gli stessi personaggi – dei suoi tre principali romanzi precedenti: Il Cadetto, Bar Blu Seves (entrambi Marsilio) e Cuore di Cuoio (Sironi).
Innanzitutto i luoghi di MAS sembrano costituire un pellegrinaggio sul passato narrativo (e biografico) di Argentina: c’è Bari, c’è la Brianza, soprattutto c’è Taranto che accoglie e soffoca in sé il protagonista come una madre degenerata e crudele. Altrettanto, il protagonista di MAS sembra essere una parodia dell’autore stesso, a partire dal nome sdrucciolo (Dànilo invece di Cosimo) e dal cognome esotico (Colombia invece di Argentina).

Dànilo Colombia si muove in un mondo popolato esclusivamente da personaggi abietti e grotteschi. Le donne, prima fra tutte sua madre, si muovono soltanto se richiamate da sesso, denaro e soprattutto da un istinto irrefrenabile di autodistruzione: è come se usassero Dànilo al solo scopo di punirsi di qualcosa che non è dato conoscere, come se la colpa non fosse solo stata biblicamente introdotta nel mondo da una donna ma di fatto coincidesse con l’essenza stessa dell’essere femmina. Gli uomini, al contrario, vivono di un’aggressività rutilante e senza eguali, priva della minima dignità; di volta in volta Dànilo si trova di fronte un capobranco selvaggio e prevaricatore al quale rifiuta di prestare il minimo ossequio, venendo così progressivamente cacciato dall’ambiente in cui si trova e costretto a scendere un ulteriore gradino nella descensio ad inferos che – con esplicito riferimento dantesco – MAS intende raccontare. Argentina accomuna con ironia questi vessatori dando loro identità diverse ma nomi simili: Corva, Carva, Corve e Corvo, per culminare in Vorca che, sposandone la madre vedova, di fatto spodesta Dànilo dal suo ruolo di naturale capofamiglia ereditato dal padre.

Da questo sfacelo si salvano due sole persone, un uomo e una donna. L’uomo è Anselmo, l’unico amico di Dànilo nonché l’unico maschio che sembri esprimere rare tracce d’umanità, e che per questo è punito nascendo albino e diventando cieco. La donna è Sara, giovane amore felice di Dànilo, che dopo poche pagine di romanzo si suicida senza ragione apparente. Il destino tragico che incombe su chi lo circonda rende Dànilo un eroe nero: un maschio adulto solitario che rifiuta la legge del branco pur non potendo, per ragioni contingenti, affrancarsi da esso. MAS è la storia di questo continuo attrito fra individuo e società, e sembra quasi essere una riproposizione romanzata del disagio della civiltà che tutti noi ci portiamo dentro.

Merita un’attenzione particolare la lingua di Cosimo Argentina. Chi ne ha letto i romanzi precedenti sa che spesso a ottime soluzioni lessicali si alternavano momenti di raccordo che lasciavano un po’ cadere la tensione sintattica e fabulatoria. In MAS non succede mai: il romanzo è dalla prima alla trecentesima pagina teso e vibrante come una corda di violino, e Argentina dimostra di essersi liberato completamente del pur ragionevole timore di essere giudicato per la scelta di una parola in luogo di un’altra. Dietro lo slang tarentino alternato con prosa alta e brani apertamente parodistici, è evidente una ricerca maniacale della parola giusta, come se ogni capoverso e, soprattutto, ogni riga di dialogo costituisse un verso poetico nel quale una scelta inadeguata sarebbe sufficiente a far crollare la metrica.

Maschio Adulto Solitario
è un romanzo sorprendente perché rivela la raggiunta maturità narrativa e stilistica di Argentina, che lo colloca su un piano del tutto diverso dalla costumanza seriale di molta narrativa italiana: una scelta originale e personale (da maschio adulto solitario, appunto) che deriva dalla piena consapevolezza delle proprie capacità di scrittore. Il Sottoscritto ha intervistato Cosimo Argentina.

MAS è un romanzo complesso e, si vede, estremamente curato nella forma. Quanto tempo hai impiegato a scriverlo, anzi, quante volte l’hai riscritto? Hai cambiato la trama in corso d’opera?
Ho impiegato moltissimo rispetto al mio standard (massimo un anno per romanzo, addirittura tre mesi per Cuore di Cuoio): stavolta ci sono voluti circa quattro anni. In questi quattro anni ho ristrutturato il testo circa una decina di volte; l’ultima, poi, è stata una vera rifondazione. La trama invece era quella che si era insinuata nel mio cervello dapprincipio. Si sa come succede, no? C’è già tutto nella testa e l’autore deve semplicemente tirar fuori quello che aveva già masticato e rielaborato nel suo cervello. Solo un’azione di estrazione, insomma. Lo scrittore è il dentista di sé stesso.

Il titolo mi sembra perfetto, sia per il suono, sia per la metrica (è un ottonario), sia per i significati espliciti e reconditi (l’acronimo MAS è molto significativo per un romanzo militare). Ti era già chiaro in mente prima della stesura?
Sì, anzi no. All’inizio c’era il provvisorio Torneranno gli orchi a mangiare i bambini?, ma poco dopo è diventato Maschio Adulto Solitario. Per gli ultimi quattro anni quest’ottonario, come dici tu, è stato il mio tormentone personale, pronto a rimbalzarmi nel cervello nel corso della lunga ed elaborata fase di gestazione.

Descrivendo nei dettagli una storia così eccessiva ed efferata non hai pensato che potessero riemergere in qualche modo i sospetti di autobiografia che, in maniera più o meno giustificata, aleggiano da dieci anni su tutti i tuoi precedenti romanzi?
Indubbiamente, tanto che ho dovuto convincere mia madre che lei è una persona molto migliore della madre del protagonista e che eviterò di farle fare una fine altrettanto atroce. Però, sempre, un vero narratore mette in gioco la propria persona: se non attraverso l’autobiografia – che probabilmente alla fine non interessa a nessuno –, attraverso ferite e sentimenti che offre al pubblico ludibrio. Il romanziere è un giullare malefico che parla solo di ciò che conosce, direttamente o indirettamente… Quando lesse il manoscritto, in tempi non sospetti, Agnese Manni mi disse una cosa che mi lasciò senza parole ma che condivido appieno. Disse che MAS è il mio libro meno autobiografico ed è quello che mi rappresenta di più. Sono d’accordo con lei.

E sono d’accordo anch’io. MAS inoltre racchiude i temi dei tuoi tre principali romanzi, ma al contempo li supera. È stata un’operazione studiata o istintiva? Ti senti giunto a una nuova e superiore consapevolezza narrativa?
Secondo me, il punto di non ritorno è Cuore di Cuoio, del 2004. Lì ho capito che la mia prosa doveva essere un crogiuolo di sensazioni, codici, linguaggi incrociati… Circa i temi: sì, scrivo più o meno sempre delle stesse cose, tanto che MAS potrebbe risultare un Cadetto riveduto e corretto. Eppure non lo è. Io non faccio nulla a tavolino, amo l’istintività e sono convinto che il narratore troppo razionale finisca per irreggimentarsi, per scivolare nella letteratura appiattita. Io sto con Van Basten, non con Sacchi: voglio usare solo quello che si può chiamare talento, dono, sicuramente nulla di calcolato.

MAS è una discesa agli inferi, topos fin troppo usato nella letteratura. Come ti sei organizzato, tecnicamente, per fare i conti con questo passato di tue letture personali che però è sedimentato nell’inconscio letterario collettivo?
Per me vale il principio “leggi e dimentica”. Tutto quello che si legge scende e sedimenta, quindi un narratore puro non ha i gravami che può collezionare invece un intellettuale prestato alla narrativa. Un narratore scrive: punto. Per dirla con Hemingway, non ha nessuna coscienza tranne in quello che scrive. Tanto più che io sono sempre più interessato ai romanzi e sempre meno ai narratori; quindi in MAS non c’è Céline ma Viaggio al Termine della Notte, non Dante ma l’Inferno, non Dick ma Ubik e così via. In fin dei conti scrivo cose tutto sommato trite e ritrite, però secondo una sensibilità che cerco di affinare libro dopo libro per avvicinarmi alla mia scrittura. Mia.

Stai scrivendo qualcos’altro al momento?
E certo, non potrei farne a meno. Ma non dico nulla per scaramanzia. Mi limito a godermi la soddisfazione per aver incontrato un ottimo editore come Manni.

venerdì 6 giugno 2008

Lo Stato dei Licei, 20: la moderna maturità

[La scuola finisce. Gli esami minacciano. Gurrado si drappeggia in un tricolore bisunto quale preparazione ai prossimi tragici Europei, e non aggiorna il blog da una settimana. Silvia G piglia e scrive:]

Gurrado, forse non tutti sanno come gli studenti liceali spendono realmente il loro tempo subito prima degli Esami: si pensa a grandi ripassi generali, a studio matto e disperatissimo, a notti insonni, a lacrime e preghiere. Eppure così non è. Si dà infatti il caso che i maturandi della mia sezione altro non cerchino che dei diversivi: c’è chi si dedica agli sport estremi, chi prenota vacanze in luoghi esotici, chi si finge pazzo, chi scrive romanzi, chi riscopre i grandi cantautori degli anni ’70, chi va a Gardaland, chi, più banalmente, si ubriaca con gli amici nelle birrerie. Per quale motivo questi giovani incoscienti sono tanto tranquilli? È molto semplice: perché essi confidano ottimisticamente nella moderna tecnologia. Nessuno si prepara agli Esami in maniera normale, bensì consultando siti internet che promettono soffiate e anticipazioni; serpeggia tra i corridoi la leggenda di istituti classici australiani che svolgerebbero le prove scritte con svariate ore di anticipo rispetto a quelli italiani, permettendo così ai coetanei di conoscere prima le tracce, grazie a telefonate ed e-mail. La nostra infatti è una generazione che affida buona parte della propria sopravvivenza scolastica al computer e al cellulare: si scaricano le versioni da internet; si consulta Wikipedia per le ricerche; durante i compiti in classe, si suggerisce fotografando col telefonino il proprio foglio protocollo e poi spedendo l’immagine ai compagni con un mms. Può capitare che, trovandosi nell’incapacità di tradurre un testo greco in lingua italiana, lo studente moderno, vero figlio del tempo nostro, si connetta a internet tramite cellulare e riesca a leggere la versione lì riportata. Non di rado, controllando nascostamente lo schermetto del telefonino, si scopre che amici compiacenti hanno spedito interi brani di Tacito o di Demostene già tradotti. Tradotti, tuttavia, in linguaggio da sms.
Il linguaggio da sms degli studenti odierni richiede una digressione particolare; è infatti semplice intuire cosa spinga un adolescente sano e normale a trasformare la parola perché in xké: innanzi tutto, il notevole risparmio di caratteri, e quindi di spazio, e quindi di denaro; in secondo luogo, il risparmio di tempo, dal momento che il pollice opponibile di cui noi tutti siamo forniti impiega certo meno secondi a digitare tre lettere piuttosto che sei; in terzo luogo, il risparmio di energie, poiché lo stesso pollice brucia meno calorie spostandosi dal tasto 9 al tasto 5 al tasto 3, anziché dal tasto 7 al tasto 3 al tasto 7 al tasto 2 al tasto 4 e ancora al tasto 3. Fondamentalmente, dunque, ciò che porta un adolescente medio a trasformare perché in xké è il risparmio. La totale assenza di punteggiatura che caratterizza il linguaggio degli sms può essere giustificata con le medesime argomentazioni. Da un’analisi più approfondita si possono cogliere però alcune inspiegabili contraddizioni. Prendiamo un modello: qst pome nn c sno xké dvo study…… sorry!!! :’( :@. Il messaggio manifesta l’evidente dispetto del mittente, che si trova nell’impossibilità di trascorrere le ore pomeridiane bighellonando in giro con gli amici per impegni scolastici; tuttavia, all’assenza quasi totale di vocali è contrapposto un esubero di punti esclamativi e di segni d’interpunzione a scopo decorativo. Cosa spinge l’adolescente medio a risparmiare sulla grammatica e a sperperare apostrofi, punti e virgole, due punti, parentesi tonde e puntini di sospensione, come se nulla fosse? Siamo forse i veri eredi della letteratura futurista? Il caos dell’era contemporanea ci ha trasformati tutti in inconsapevoli dadaisti? Mistero.
Certo è che, oggi come oggi, le versioni di latino e greco, prima di venire tradotte in italiano, devono passare dall’essemmessese. Per fare un esempio, la riduzione in sms dell’esordio del De Bello Civili di Cesare (Litteris Cai Caesaris consulibus redditis aegre ab his impetratum est summa tribunorum plebis contentione, ut in senatu recitarentu, come chiunque sa a memoria) potrebbe corrispondere a: Cnsegnta la lttra d Cesare ai knsoli a stent s ottenne da qlli x le vive instenze d tribuni dla plebe, ke s leggS in snato… È evidente che appuntare una simile traduzione sul foglio protocollo potrebbe destare qualche sospetto nell’insegnante e risultare almeno controproducente, ragion per cui il maturando moderno dovrà fare molta attenzione, quando riceverà il messaggino in sede d’esame, a non confondersi.
È inoltre probabile che Cicerone, nel leggere una simile resa dei suoi scritti, avrebbe immediatamente smesso di lagnarsi dei tempi e dei costumi suo[Gurrado ha appena ricevuto un essemmesse che testualmente e integralmente recita: %. Ora ha bisogno di una diciannovenne per capirlo, e quindi il manoscritto termina qui]