domenica 22 giugno 2008

Se Joyce lavora al pub

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Volendo esagerare, si può dire che autore e titolo delle Cronache Dublinesi di Flann O’Brien sono veri ma non del tutto. L’autore viene indicato con il suo pseudonimo più celebre – se non altro quello sotto il quale è possibile rintracciare le sue opere in Italia – ma che non coincide né con il vero nome e cognome (Brian O’Nolan), né con la corrente grafia irlandese del nome stesso (Brian Ó Nualláin), né con il nom de plume con il quale ha effettivamente firmato i testi antologizzati da Neri Pozza (Myles na Gopaleen), né con l’effettiva grafia dello stesso: Myles na gCopaleen. Non è una distinzione fumosa, visto che in Irlanda Myles è più famoso di Flann O’Brien, mentre Brian O’Nolan non lo conosce nessuno. Allo stesso modo il titolo scelto per la traduzione italiana di questa raccolta antologica di articoli umoristici rende bene il senso dell’operazione editoriale, ma non collima con l’originale anglofono pubblicato già quarant’anni or sono (A selection from The Best of Myles) né con il titolo della rubrica che O’Brien ha tenuto sull’Irish Times dal 1940 alla sua morte avvenuta nel 1966.

Il titolo della rubrica era Cruiskeen Lawn (letteralmente “boccale traboccante”) e si trattava di una citazione in quanto – come segnala Daniele Benati nella sua dotta postfazione – la medesima perifrasi è un hapax dell’Ulisse di Joyce, apparendo soltanto all’inizio del dodicesimo capitolo. Il luogo preciso della citazione mi sembra particolarmente indicativo riguardo al procedimento e alle intenzioni di O’Brien: il dodicesimo capitolo dell’Ulisse è ambientato in un pub dove un gruppetto di dublinesi progressivamente alticci (alle cinque del pomeriggio, peraltro) sottostanno all’incombente presenza del più dublinese e più ubriaco di tutti, un ciclope postmoderno noto per antonomasia quale Il Cittadino. Il dodicesimo capitolo dell’Ulisse è quello che riversa il massimo di ironia sulla società irlandese, utilizzando il procedimento discorsivo proprio dei dublinesi stessi: una ritmata alternanza fra linguaggio triviale e tramortente magniloquenza.

Nelle Cronache Dublinesi selezionate da Neri Pozza, Flann O’Brien esercita lo stesso metodo: alle volte la sua prosa alle volte circonda con un braccio la spalla del lettore e lo rende complice di una sistematica e repentina diminuzione (“Vi piace la commedia, Miss Plug? Lo chiedo solo per educazione, perché una puttanella ignorante come te non credo proprio che possa presumere di avere un’opinione riguardo ad alcunché”); altre volte se ne distacca repentino procedendo a un vertiginoso innalzamento, talvolta rifugiandosi in più o meno appropriate citazioni latine.

Myles na gCopaleen, voce narrante e protagonista dei testi giornalistici di O’Brien, si candida così a diventare l’Irlandese assoluto. Dai brani antologizzati si evince che è stato membro della sovraffollata Associazione degli Scrittori, Attori, Artisti e Musicisti Irlandesi, che ha inventato un servizio di gualcitura libri per ignoranti ambiziosi e di accompagnatori ventriloqui per interlocutori noiosi, che ha escogitato un sistema per nuotare nudi con un cappello a cilindro senza bagnarlo, che ha inventato un inchiostro che ubriaca e una marmellata elettrica, che è stato accusato di “accattonaggio, offesa a pubblico ufficiale, linguaggio osceno e detenzione illegale di poltrona”; parrebbe anzi che il meglio sia stato lasciato fuori, visto che la postazione di Benati ci informa di come Myles sia stato fra l’altro anche professore di whisky al Trinity College, istruttore privato di Einstein e duca del Mondo. Sempre con la sua duplice tendenza a riversarsi completamente nella sbruffoneria irlandese e di poi uscirne indenne con un sovrappiù di faccia tosta, è possibile riconoscere Myles tanto nel generico carnefice (“il Fratello”) che sa tutto di tutti e ha una soluzione disastrosa per le evenienze più surreali quanto nella vittima dei pomposi seccatori che progressivamente gli si parano dinanzi: “Quello Che Non Dà Mai Una Lira Ai Mendicanti”, “Quello Che L’Aveva Già Letto Quando Era Ancora Un Manoscritto”, “Quello Che Sa Fare La Valigia”, etc.

I brani antologizzati nel volume tradotto da Neri Pozza costituiscono il grado zero del procedimento narrativo e umoristico che O’Brien aveva utilizzato sin dal suo esordio Una Pinta d’Inchiostro Irlandese (un complesso gioco di specchi in cui i personaggi di un romanzo si ribellano pretestuosamente contro l’autore), nonché ne La Miseria in Bocca (parodia estrema della rinascita della cultura gaelica in Irlanda) e ne L’Archivio di Dalkey (che fra i suoi personaggi annovera un Sant’Agostino piuttosto refrattario a confessare il vero colore della sua pelle e un James Joyce che, invece di accecarsi scrivendo, ha preferito lavorare in un pub e campare cent’anni). Così come sono, le Cronache Dublinesi sono spassosissime. Se bisogna individuarvi un difetto, è quello di aver dovuto operare una scelta forzata, sia per rientrare entro i limiti del singolo volume (la raccolta completa degli articoli a firma Myles na gCopaleen ne occupa sei), sia per evitare i non pochi brani basati su calembour di fatto intraducibili, che hanno sempre costituito la cifra stilistica di O’Brien e che forse hanno finito per danneggiare oltremodo la sua meritata diffusione fuori d’Irlanda.

È molto utile citare al riguardo il parere espresso da Gianni Celati sull’edizione originale delle Cronache Dublinesi: “Il volume antologizza pezzi distinguendoli per argomento, e così ci si trova a leggere dei raccontini separati dal flusso ininterrotto in cui nascevano”. Cruiskeen Lawn, il boccale traboccante di Flann O’Brien, si caratterizzava come dialogo incessante fra “la Semplice Gente d’Irlanda” e Myles na gCopaleen, l’uomo che ne era al contempo il ritratto sputato e la deformazione caricaturale. Se pure l’antologia tematica fa perdere il senso della continuità di questo cicaleccio, le Cronache Dublinesi possono essere un ottimo antipasto per avvicinarsi alla lettura dell’opera narrativa di Flann O’Brien, mai abbastanza tradotta. Neri Pozza ha avuto il merito di aver riproposto questo volume già edito da Giano nel 2005, e di aver promesso la prossima pubblicazione de L’Ardua Vita, ormai pressoché introvabile: ragione sufficiente ad attendere più che fiduciosi.

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