domenica 20 luglio 2008

Scarti e rimanenze: La coscienza di Zündel

[Ora, non è che Gurrado sia un re Mida che trasforma in oro tutto quello che scrive. Può capitare, ci mancherebbe, che qualche articoletto o recensione si perda nei recessi virtuali o cartacei della testata per cui era stato scritto e che alla fine non venga pubblicato per mancanza di spaziotempo, o perché fra una cosa e l'altra è passato il momento buono e perde di senso. D'estate la tv manda le repliche, io ripesco fra le frattaglie qualche recensione ancora vergine.]

Avrebbe agevolmente potuto, lo svizzero Markus Werner, intitolare il suo primo romanzo De Ructari Eloquentia; invece ha optato per un più neutro, più descrittivo e più malinconico Zündel se ne va. Neri Pozza, che com’è noto sa scegliere le copertine tanto bene quanto i testi, l’ha illustrato con un giovane invecchiato, mestamente ripreso di spalle, che a testa china costeggia una riva tenendo un indecifrabile libro fra le mani. Il passo del giovane è abbastanza ampio da suggerire che cammini di fretta, senza lasciarsi trasportare dal romanticismo del luogo, dal cielo brumoso e dal mare appena appena increspato in superficie. Mi rendo conto che, se invece Markus Werner avesse scelto di intitolare il suo primo romanzo secondo il mio suggerimento, trovare un’adeguata copertina sarebbe risultato più difficoltoso – ma in Neri Pozza ho illimitata fiducia, pertanto chissà.

Zündel se ne va avrebbe anche potuto chiamarsi De Ructari Eloquentia perché con tre parolette latine avrebbe inchiodato il lettore al ritratto del protagonista Zündel: colto, snob, terreno e disincantato, che quando sua moglie gli annuncia di voler andare in vacanza da sola, sentendosi preso da un improvviso ma più che comprensibile afflato di antifemminismo, piglia e se ne va iniziando a vagare senza meta, con l’unica compagnia dell’insistente voce della coscienza (nel duplice senso di lume interiore e di consciousness) il cui continuo referto costituisce di fatto il romanzo che leggiamo. Allora Zündel rutta.

Alla prima colazione da solo, infatti, Zündel si rende conto dei latenti vantaggi dell’improvvisa libertà: “Finalmente posso bermi il caffé come mi pare. Per anni ho rinunciato a fare rutti. Per anni ho dovuto sopportare quelle stupide chiacchiere di prima mattina”. Il rutto, gesto di per sé ignobile se compiuto in presenza altrui, diviene una sorta di autoriconoscimento hegeliano grazie al quale il servo si fa padrone (Kojève sarebbe stato fiero di me, mannaggia). Un po’ come quando Tarzan il selvaggio si risveglia e, per prima cosa, lancia urla terrificanti percotendosi il petto leopardato.

Il rutto, in sé, è la rivincita dello stomaco sul cervello, ovvero la sostituzione dell’apparato digerente alla faticosa articolazione linguistica. Se consideriamo il contenuto, con lo scorrere delle pagine l’offesa che peggio ferisce il pensoso Zündel è di essere ritenuto un intellettuale, ossia un anti-uomo, un tizio che mette il cervello al centro di tutto e che – secondo l’accusa che Feuerbach moveva a Hegel – si pregia di camminare sulla testa. Il che porta Zündel a vibranti proteste e a sentite rivendicazioni di effettiva umanità: “E allora? Quale sarebbe la differenza tra me e un qualsiasi altro lavoratore? La sera sono stanco morto anch’io e il fine settimana anch’io mi lascio andare ai miei istinti. Faccio rutti, scorregge, bestemmio e bevo birra. Al lotto ci gioco anch’io. E anch’io sono infelice”. Il ritorno del rutto, nella circostanza, non è assolutamente casuale; filosoficamente parlando il rutto, proprio in quanto forma pura senza contenuto, così come il suo sfinteriale cugino germano è la certificazione della vita senza testa, di un temporaneo strappo al controllo razionale. Zündel sa benissimo che “l’intelletto uccide ogni gioia di vivere” e commenta: “il fatto che la femmina del pregadio (Manits religiosa) all’inizio dell’accoppiamento stacchi la testa al maschio con un morso, migliorando così le potenzialità sessuali di lui (nella testa sono infatti localizzati dei centri nervosi che inibiscono la copulazione), è tutt’altro che sorprendente. Senza testa si vive più spontaneamente”.

Se invece consideriamo la forma, la ructari eloquentia di Zündel si manifesta nello stile borborigmico mediante il quale la trama viene portata avanti, a singulti peristaltici e squarcianti lampi d’intuizione. Forse un po’ discontinuo, forse talvolta difficile a seguirsi per il lettore distratto, il breve esordio di Markus Werner risente dell’essere stato originariamente pubblicato nel 1984, quando certe acrobazie sperimentali erano pressoché d’obbligo. Ora non lo sono più, e il pubblico che vuole storie potrà lamentarsi nei confronti degli autori dai quali vent’anni fa egli stesso pretendeva piroette. Io non so quale possa essere al riguardo la reazione di Werner (il quale nel frattempo ha pubblicato vari altri romanzi, fra i quali Quando la Vita Chiama tradotto da Neri Pozza un paio d’anni fa); ma, persistendo nella capitale distinzione fra autore e personaggio, posso intuire piuttosto facilmente quale sarebbe la plausibile reazione di Zündel di fronte alle esigenze del pubblico. Sarebbe piuttosto rumorosa, scommetto.

Hegeliano e anti-hegeliano senza forse nemmeno saperlo, alla fine Zündel se ne va anche rispetto ai razionali canoni che reggono il mondo; la lenta destrutturazione del suo cervello, il venir meno dell’autoconsapevolezza e lo sfaldarsi della sua coscienza interiore sono le inevitabili conseguenze di una scelta paradossalmente razionalissima: rinunziare alla ragione, ai doveri coniugali, alle aspettative altrui e alle buone maniere faticosamente conseguite, sapendo qual è il momento in cui smettere di parlare e parlare per spiegarsi faticosamente e iniziare invece a rendere noto con coraggio prearticolato il proprio travaglio interiore, e intestinale.

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