venerdì 29 agosto 2008

Domani accadrà

Ora che ha un allenatore, l’Inter può giocarsi sul serio la Champions League. José Mourinho, lo Specialone, ha una certa confidenza col trofeo e con le vittorie in generale: nel 2003 allenava il Porto e vinse campionato portoghese (vabbe’) e Coppa Uefa; l’anno dopo rivinse il campionato e appunto la Champions League; nel 2005 fece vincere la Premiership al Chelsea che ne aveva vinta una sola cinquant’anni prima; nel 2006, tanto per, la rivinse; nel 2007 arrivò secondo in campionato ma vinse la FA Cup, che è non solo più bella ma fors’anche più importante. Notoriamente pensa innanzitutto alla difesa, che è il fondamento di qualsiasi vittoria, le sue squadre prendono pochi goal e lui sa benissimo che, con l’attacco che si ritrova, prima o poi segnare segna. A differenza di Mancini non finge di dare indicazioni alla squadra durante la partita, sbracciandosi per venire ripreso da telecamere compiacenti; ai calciatori spiega tutto prima, poi resta seduto e aspetta; quando fa entrare un sostituto, due volte su tre si rivela decisivo per l’andamento della gara. Domandina facile facile: se l’Inter ha già vinto lo scudetto con in panchina un agitato indossatore, lo rivincerà a maggior ragione quest’altr’anno? Risposta complicata: non credo, sia perché tutte le energie della squadra e della società saranno concentrate sull’Europa (e l’Europa è una sanguisuga che in Italia toglie punti e sicurezza), sia perché la squadra è pressoché identica all’anno scorso e presumibilmente sazia di scudetti veri o presunti, sia perché le squadre di Mourinho passano alla storia come squadre di Mourinho – nel senso che in campo non vuole eroi, vuole comprimari – e a occhio e croce questo mal suonerà alle dive orecchie di, ad esempio, Ibrahimovic. Chi ha visto la Supercoppa domenica scorsa si sarà accorto degli urlacci con cui lo Specialone richiamava Ibrahimovic in difesa, per liberare sui calci d’angolo avversari; e conoscendo Ibrahimovic, prima o poi fingerà di non aver sentito e sarà la fine.

Sempre la Supercoppa ci ha rivelato – dietro il concitato paravento dei quattro goal – che non è tanto l’Inter a essersi rafforzata quest’estate, quanto la Roma a essersi indebolita. Sarà che Totti non c’era, sarà che De Rossi è già stanco, sarà che Aquilani preferirebbe essere altrove ma la rapida creazione di gioco nella quale eccelleva s’è trasformata in tristo melinare in attesa di venir presa a ceffoni. Non mi preoccupa tanto la partenza di Amantino Mancini quanto l’arrivo di Julio Baptista: c’era bisogno di una punta centrale e domenica Baptista, inizialmente schierato al centro, s’è riscattato solo quando è passato sul lato della tre quarti, dove c’è già fin troppa abbondanza. Siamo punto e a capo? In più, a pelle, nello spogliatoio mi sembra diffusa la sensazione che l’anno buono fosse quello scorso e che il treno sia già passato. Non mi sorprenderebbe che la Roma lottasse massimo per il quarto posto, acchiappandolo per un pelo o finendo magari subito sotto.

Se il calcio conserva un briciolo di razionalità, la Juventus dovrebbe ristabilire l’ordine costituito e vincere il suo trentesimo scudetto, il ventottesimo per Guido Rossi. Ha un parco attaccanti imponente e soprattutto ben integrato, in cui è possibile ogni combinazione fra i quattro titolari (Trezeguet-Del Piero, Del Piero-Amauri, Amauri-Iaquinta, Iaquinta-Trezeguet, etc.), come in un continuo gioco del domino. L’agognata Champions League e gli inevitabili infortuni stabiliranno di volta in volta le gerarchie. Il vero grande acquisto, decisivo per imporre il proprio ritmo al campionato, è sicuramente Poulsen: simpatico non sarà, ma corre per tre, lancia con sorprendente precisione e insieme a Sissoko forma una mediana titolare difficilmente scavalcabile. Qualora dovesse avvenire, dietro ci sono l’ottimo Chiellini e Legrottaglie tornato a mantenere le promesse di qualche anno fa. Casomai, ancora dietro c’è Gigi Buffon – basta la parola.

Con Inzaghi, Ronaldinho e Shevchenko il Milan è indiscutibilmente il grande favorito per lo scudetto del 2002. Di là dalla facezia che il mio milanismo masochista inevitabilmente m’impone, nottetempo penso con terrore alla sindrome da Harlem Globetrotters che prima o poi s’impadronirà di un attacco formato da Seedorf, Kakà, Ronaldinho, Shevchenko, Pato, Inzaghi e Borriello (e in difesa chi sta? Jankulowski?). Mi addormento solo con la magra consolazione che non c’è da rivincere la Coppa dei Campioni, e quindi si potranno concentrare le energie di tre Palloni d’oro passati e un paio futuri esclusivamente sul campionato. Mi piacerebbe vincere finalmente la Coppa Uefa, ma temo che verrà considerata per lo più un dente da cavarsi quanto prima, facendosi eliminare da qualche imbarazzante squadra rumena subito dopo la ridicola fase a gironcini.

Tutti si aspettano un gran bene dalla Fiorentina, e ciò è più che sufficiente a candidarla al ruolo di grande delusione del campionato. Mi intriga Felipe Melo, mentre la coppia Mutu-Gilardino potrebbe metterci un po’ a ingranare (notoriamente, Gilardino si astiene religiosamente dal segnare nelle prime sei-sette giornate, questo anche quand’era in auge a Parma). La piazza è impaziente e la Champions League, come sempre, sarà spietata nel levar punti alle sue frequentatrici d'eccezione (controprova le recenti magre figure negli ultimi campionati di Lazio, Chievo e Udinese in versione europea). La Lazio sembra quadrata, e quest’anno addirittura dotata di portiere: il quarto posto non dovrebbe sfuggirle. Mi entusiasmano il Genoa, la Sampdoria e soprattutto il Napoli, che insieme all’Udinese lotteranno per i tre posti-Uefa; una di loro potrebbe anche vincere a sorpresa la Coppa Italia, finalmente sul modello inglese a esclusione delle incongrue semifinali andata-e-ritorno. Ho letto numerose volte la formazione del Torino, ma non vi ho mai trovato un senso. Il Bologna dovrebbe salvarsi e così anche (purtroppo) il Lecce. Il Chievo non credo.

In definitiva resto con l’impressione che 20 squadre (ossia 38 partite) siano troppe: si abbassa il livello medio del campionato, si apre la Serie A a piazze indegne, si permette alle squadre più forti di avere otto domeniche in più per rimediare a eventuali scivolate contro avversarie più deboli. L’ideale sarebbe 16, ma so che non accadrà mai più.

Pertanto quest’anno Gurrado prevede: 1. Juventus, 2. Milan, 3. Inter, 4. Lazio, 5. Roma, 6. Udinese, 7. Sampdoria, 8. Genoa. (Amici interisti, ricordate che da quest'anno con il terzo posto si viene ammessi alla Champions League senza più passare dai preliminari). Retrocesse Chievo, Reggina e Siena; dalla B salgono Brescia, Parma e Bari. Coppa Italia al Napoli, Champions League al Real Madrid (in finale sull’Inter); quanto alla Coppa Uefa non si capisce nemmeno bene chi partecipi, figuriamoci chi vincerà (di sicuro non il Milan).

Ultima questione, i diritti televisivi. A quanto pare noialtri, che non siamo abbonati né a Sky né a Mediaset Premium né a La7 Carta Più né a Dio sa cos’altro, questo campionato non potremo vederlo. Vorrà dire che ce lo immagineremo, sarà più bello.

giovedì 28 agosto 2008

L'ebreo gesuita

Si legga due volte La Montagna Incantata.
(Thomas Mann)

Purtroppo frequento quasi esclusivamente persone intelligenti, le quali di tanto in tanto se n’escono con giochini odiosi del tipo: “In quale personaggio letterario t’identifichi?” “Paperino”, rispondo di solito, e posso addurre numerosi riscontri di tale identità a esclusione, ovviamente, della divisa da marinaretto, che solitamente non porto e della quale – nel caso in cui mi decidessi a portarla – procurerei d’indossare anche la metà inferiore, così da non lasciare al vento la coda e le pudenda.

Dovendo proprio rispondere, scavando nella memoria, potrei arrivare all’eccesso di ricordarmi come nel lontano e felice 2004 – quando vivevo a Napoli e mi pagavano fior di quattrini per prendere il caffè in piazza San Domenico nonché sovrabbondanti ricce dal dirimpettaio Scaturchio – qualche bell’ingegno aveva preso a soprannominarmi Naphta (no "nafta"; col ph, come phon); cosa che sinceramente avevo rimosso fino al giorno in cui, questa settimana, mi sono messo a rileggere La Montagna Incantata.

Leo Naphta è un personaggio secondario del romanzo, se vogliamo limitarci a prendere in considerazione la sua tardiva comparsa (dopo circa 400 pagine) e lo spazio limitato che il massiccio volumone gli dedica. Se invece consideriamo dall’alto l’economia complessiva della trama appare evidente, soprattutto a una seconda lettura (come suggeriva lo stesso autore), che il romanzo ruota forse più attorno a Naphta che al pallido protagonista Hans Castorp. Da che appare Naphta, muta l’inerzia de La Montagna Incantata: gli avvenimenti si accavallano più pressanti, il tempo stesso accelera, finendo per comprimere anni interi di vita monotona al sanatorio di Davos in circa un centinaio di pagine, forse anche meno. Sotto quest’aspetto, essere soprannominati Naphta è senz’altro un complimento.

Leo Naphta nasce da famiglia ebraica, e sviluppa dal padre macellaio una passione duplice – tanto per la sanguinarietà del culto religioso (ben simboleggiata dalla macellazione kosher, che fa morire l’animale dissanguato prima di procedere al taglio) quanto per la rigida osservanza delle regole più minuziose. Col tempo, Naphta trova la più vera incarnazione delle sue passioni nel cattolicesimo e, più precisamente, nella sequela dei Gesuiti, dai quali viene educato secondo i principii di Sant’Ignazio. Ragionatore capzioso, esaminatore inflessibile, Naphta è ossessionato dalla morte, nemico del progresso, ostile alla forma di governo repubblicana e – soprattutto – considera con malcelata commiserazione i progressisti che al suo tempo (come al mio) sovrabbondavano. Uno di loro, Lodovico Settembrini, è un vitalista carducciano che, stufo di sentirsi sempre provocare e sbertucciare, finisce per offendere Naphta il quale lo sfida a un duello con pistola, quale reazione leggermente spropositata. Settembrini è un pavido pacifista e, dopo aver cercato di dissuadere Naphta, all’atto del duello spara in aria; Naphta è una persona seria quindi, atteso che Settembrini l’ha volutamente mancato, estrae la pistola carica, se la punta alla tempia e spara.

Per fortuna frequento quasi esclusivamente persone intelligenti, ma poche di loro hanno letto davvero La Montagna Incantata (e quasi nessuno due volte): così il soprannome è stato dimenticato con alquanta rapidità.

mercoledì 27 agosto 2008

Very important chi?

L’altro giorno, apparecchiando il pranzo, non ho trovato miglior distrazione che lo Studio Aperto di Italia1. Vi si mostrava un servizio in cui una giornalista d’assalto s’incuneava in una nave da crociera mostrandone la bellezze diverse e intervistando i suoi vari utenti – una sedicenne catarrosa, una coppia in viaggio di nozze, il solito stronzacchione brianzolo, etc. – i quali tutti magnificavano la dolce vita a bordo certificata particolarmente dall’emozione di poter incontrare di quando in quando, de visu, dei vip che usufruivano dei medesimi servizi della gente comune. Infatti la giornalista, scava scava, dietro una porta cosa non ti trova se non – annunzia trionfante – Debora Salvalaggio che su un lettino sta subendo professionali massaggi e che le concede lì per lì una breve intervista a dorso nudo (dorso, non torso)?

Io non ho nulla da contestare a tutto questo, fatta salva la singolare domanda: chi minchia è Debora Salvalaggio? Conscio della mia ignoranza, l’ho cercata sull’enciclopedia e non c’era. Certo di trovarmi di fronte a una lacuna dell’enciclopedista, l’ho altresì cercata sul Dizionario Illustrato Peruzzo Larousse, sul Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi, sul Calendario Atlante De Agostini, sulla Letteratura Italiana Zanichelli, sul Grande libro dei Perché, sulla Storia d’Italia a Fumetti, nell’indice dei nomi delle Letters from Oxford di Hugh Trevor-Roper, sul Martirologio Romano, nell’elenco telefonico di Bari e Provincia 2006, nell’Atlante Storico Garzanti, nel Penguin Dictionary of Quotations, sul Voltaire Électronique, nelle dramatis personae di tutto il teatro shakespeariano, sulla mia rubrica del telefono, sulle Guide del Touring Club Italiano, nelle Notizie Storiche intorno alla Città di Gravina, nel Catalogo dei Manuali Hoepli, sul Dizionario dei Termini Scientifici, nell’indice degli argomenti dell’Antico Testamento, sull’Almanacco Illustrato del Calcio Panini 1991, sullo Student’s Dictionary Collins Cobuild, sull’Annuario Comboniano 1996, sul Dizionario Ragionato dei Sinonimi e dei Contrari Sansoni, sulle Vite di Benvenuto Cellini, sulla raccolta completa del Foglio e su Televideo. Niente.

Allora ho avuto un’illuminazione: dovevo cercarla sulla Garzantina della Televisione! Ma non c’era neanche lì.

martedì 26 agosto 2008

Minuziosa descrizione di cose non viste

(Gurrado per Il Sottoscritto)

La più grande sorpresa che Aleksandar Gatalica riserva al lettore è di fargli scoprire come all’atto di ultimare Secolo, e quindi nel 1998, avesse solamente 34 anni. La cosa è indubbiamente rimarchevole se si considera la non comune perizia narrativa necessaria a comporre un libro intimamente coerente e multiforme, formato da centouno racconti fulminei – di lunghezza variabile fra le tre e le sei pagine – che ripercorrono anno per anno la storia del XX secolo, dal 1900 (prologo) al 2000 (epilogo).

La vera sorpresa, tuttavia, risiede nello scoprire la giovinezza di Gatalica solo dopo aver letto per intero il libro, quando ci si è fatti persuasi che la voce narrante – mutevole nelle incarnazioni e uniforme nel tono – appartenga a un diretto testimone del Novecento, a qualcuno insomma che se lo sia visto sgranare davanti, in buona parte se non interamente. Un curioso esperimento, considerata la natura cronologica del testo, potrebbe essere cercare la pagina in cui inizia il racconto dedicato al 1964, anno di nascita dell’autore, e scoprire che per le precedenti duecentosessantotto pagine (su quattrocentoquindici) Gatalica s’è dedicato a una minuziosa descrizione di cose non viste.

La solidità dell’analisi temporale e l’accurata ricostruzione di un secolo per buona parte sfuggito agli occhi dell’autore sono giustificabili, credo, con l’idea che gli Slavi siano il popolo sul quale il Novecento ha lasciato il maggior numero di ferite, molte delle quali ancora lontane dal rimarginarsi. Per noi Italiani, sovente troppo presi dal tramestio delle contingenze, riesce difficile immaginare come uno sguardo gettato indietro di sbieco dalla fine di un’epoca possa riuscire a racchiudere in uno scorcio complessivo l’intero secolo precedente; a un figlio della sottile linea di confine fra Mitteleuropa e Mediterraneo, evidentemente, l’operazione riesce più naturale (se si cerca una conferma basti pensare alla barocca cavalcata di cinquant’anni compiuta da Emir Kusturica in Underground).

Agli occhi di un lettore appena imbevuto di cultura storica, il maggior pregio del testo di Gatalica è da cercarsi nell’indifferenza – appena appena accigliata – con la quale fornisce il resoconto delle molteplici storie secondarie che si accavallano lungo il Novecento; la medesima indifferenza, c’è da intuire, con la quale il tempo fluisce e travolge ogni cosa, incurante dei destini di individui e masse. Al riguardo è significativa – in tempi in cui la storiografia cerca di superare definitivamente la schiavitù nei confronti degli anni dalle cifre tonde – la scelta di delimitare il secolo con l’accetta, scegliendo come confini gli anni con lo zero (1900-2000) e contravvenendo al suggerimento di Hobsbawm riguardo al secolo breve (1914-1991), ormai assurto a suggestione collettiva.

Il testo di Gatalica resta però del tutto letterario, nonostante la rigida impostazione storica. La ridda di personaggi (all’incirca cinquecento) che si affolla nelle sue pagine si infila nelle pieghe più segrete del Novecento: non di rado i grandi avvenimenti vengono del tutto tralasciati o comunque presentati da un punto di vista radicalmente marginale. Ancor più frequente è la scelta di illustrare una storia capovolta, dove si fa labilissimo il confine fra realtà e fantasia, fra verità e finzione, con una vena surreale che va dritta al nucleo del problema sociologico che caratterizza un determinato anno (un po’ come i sogni più assurdi, talvolta, rivelano ciò a cui giorni interi di ragionamenti non riescono ad arrivare). Nell’impossibilità di citare tutti i racconti e nemmeno quelli che meriterebbero spazio in una futura antologia (sarebbero almeno una trentina), trovo splendidamente indicativi dello stile di Gatalica quello del 1911, in cui Heinrich Mann torna da Venezia e scopre che il suo ignaro fratello ha scritto un resoconto letterario della sua vacanza, e quello brevissimo del 1970, in cui un giovanotto e una signorina s’innamorano dei manichini che rispettivamente li ritraggono.

Secolo è un gran libro, immaginifico e ambizioso. L’accuratezza storica di Gatalica è sorprendente, nel suo tentativo di fornire non un’enciclopedia ma un apocalittico inventario del secolo trascorso: esempio stupido ma calzante, il racconto del 1994 fa dettagliato riferimento a “Luna Park”, una trasmissione della Rai che fu effettivamente trasmessa quell’anno e che probabilmente è stata dimenticata anche dai suoi conduttori (Pippo Baudo, Mara Venier, Fabrizio Frizzi, Milly Carlucci e Rosanna Lambertucci, nientemeno). Proprio considerato il carattere paraenciclopedico del volume, è un peccato che ci sia qua e là qualche imprecisione (Samuel Beckett che perde una t, un fantomatico film con Marylin Monroe che s’intitola Sette anni di fedeltà e che plausibilmente è The seven year itch, ossia Quando la moglie è in vacanza), ragionevolmente ascrivibile alla traduzione italiana e pertanto facilmente emendabile.

Gli antenati letterari di Gatalica sono facilmente riscontrabili: lui stesso fa reiterato riferimento a Thomas Mann per taluni contenuti (la riflessione sul male eterno nell’uomo, ad esempio), ma non è difficile scorgere fra le sue righe più di qualcosa di Borges e Canetti. E inoltre sarebbe bene che il coraggioso editore Diabasis, oltre a tradurre qualcun altro dei libri di Gatalica citati in seconda di copertina, trovasse modo di ripescare l’ormai introvabile Dizionario Cazaro di Milorad Pavic – un testo mitico, enciclopedico, complesso e sfuggente del quale Secolo è discendente diretto.

lunedì 25 agosto 2008

Colpirne uno per educarne un miliardo

Dai cinesi non comprerei un telo da mare, figuriamoci un’Olimpiade.

D’altra parte bisogna considerare che – per quel che concerne lo svolgimento delle gare – non fa estrema differenza che l’agone sia a Pechino o ad Atene o a Londra o a Campobasso (la situazione muta radicalmente solo nel caso di discipline che vedano la presenza determinante di giudici, come hanno dimostrato gli smaccati favori ad atleti cinesi nei tuffi, nella ginnastica e soprattutto nella ritmica, dove i fidanzati delle nostre signorinelle avrebbero fatto bene a utilizzare palla, cerchio e nastro per seviziare dapprima e dipoi impiccare i giurati, difendendo in un sol colpo l’onore della Patria e della donna, due cose indissolubilmente connesse che purtroppo nessuno fa più). Dal punto di vista geosportivo boicottare l’Olimpiade cinese non avrebbe avuto senso, se non quello di far perdere quattro anni di lavoro soprattutto ad atleti di discipline che di solito devono alla parentesi olimpica le loro due uniche settimane di gloria, se pure va bene. Per loro in realtà non conta tanto l’organizzatore contingente, quanto l’organizzazione generica e sovranazionale – ossia il Comitato Olimpico Internazionale. Il Cio, dal suo canto, mai come quest’anno ha confuso spirito olimpico e imbecillità, dapprima precipitandosi ciecamente verso un’Olimpiade erroneamente assegnata a una nazione che non aveva il minimo diritto di ospitarla; quindi tentando di escludere dalle competizioni, a mo’ di bue che dice cornuto al ciuccio, l’Iraq (punto esclamativo!) per ingerenza politica nelle manifestazioni sportive (ri-punto esclamativo!), cosa mai avvenuta nemmeno negli anni in cui Uday Hussein torturava gli atleti protagonisti di prestazioni deludenti (tri-punto esclamativo!); infine proibendo agli Spagnoli di indossare il lutto per la sciagura all’aeroporto di Madrid. Diciamo che Jacques Rogge ha voluto onorare i costumi del paese ospitante, e la sua civiltà. Durante i suoi discorsi d’apertura e chiusura, nessuno s’è levato per dirgli che stava facendo la figura del coglione.

Personalmente, fossi stato il Governo, avrei consentito agli atleti di partecipare pur senza usare il Tricolore, ma soltanto il gonfalone del Coni. Sia chiaro, del Tibet me ne frega poco e niente – né ammiro il buddismo d’accatto dei vari manifestanti stagionali (compresa Carla Bruni in Sarkozy, che resta estremamente affascinante nel momento in cui si fa infilare la sciarpa al collo dal Dalai Lama, ma manca di ricambiare con un bel crocifissone ligneo, forse immemore dell’evenienza che la Francia debba la propria grandezza ai cardinali e non ai sanculotti, a Carlo Magno e non a Robespierre). Da Italiano, motivi per boicottare le Olimpiadi ne avrei trovati a bizzeffe: questi cinesi avranno pur inventato gli occhiali, i fuochi d’artificio e la carta igienica, ma costituiscono un’ottusa dittatura paracomunista e anticattolica, vietano l’introduzione entro i propri confini di simboli religiosi, difettano di sindacati e pertanto possono esercitare una concorrenza sleale che svantaggia e devasta i nostri commercianti, praticano sovente l’immigrazione clandestina, gestiscono a casa nostra una criminalità sotterranea e – se qualcuno l’ha dimenticato – nello scorso giugno hanno organizzato a Milano una sommossa contro la polizia (che il governo Prodi ha bonariamente scambiato per manifestazione preolimpica). Rispedire di corsa l’invito a Pechino sarebbe stato il minimo; invece noi preferiamo essere uno Stato senza religione, senza simboli, senza dogane né forze dell’ordine: poi un bel dì ci risvegliamo e auspichiamo, da parte di giovanotti e giovanotte che hanno trascorso quattro innocenti anni in palestra, un gesto di responsabilità che li porti a rinunciare nobilmente a stipendi, rimborsi spese, sponsorizzazioni e gloria.

Per questo motivo il momento più bello dell’Olimpiade, quello in cui ho provato uno spontaneo sollievo nell’animo, è stato ieri pomeriggio – quando sono risuonate le prime note di God Save the Queen e il nostro eroe Boris Johnson (sindaco conservatore di Londra del quale ho sempre parlato più che bene in tempi non sospetti, a giugno 2007 e a maggio di quest’anno) è arrivato giacca sbottonata e capelli al vento a riprendersi i cinque cerchi variopinti per riportarli su latitudini più civili, dove non a caso sono stati inventati e da dove sarebbe meglio non esportarli più di tanto.
Indubbiamente il miglior boicottaggio possibile è stato quello applicato sempre ieri dal pugilatore patrio Roberto Cammarelle, il quale prima di congedarsi ha preso un cinese e l’ha sfasciato di mazzate.

domenica 24 agosto 2008

Bentornato a casa


Da milanista conservatore mi compiaccio del ritorno di Shevchenko. Ora, per avere un parco attaccanti veramente completo, ci basta ricomprare Altafini e Nordahl.

Corre voce che a sentir tutto questo gran parlare di ritorno del figliol prodigo e, soprattutto, uccisione del vitello grasso, Ronaldinho abbia stimato più prudente defilarsi per qualche tempo.

venerdì 22 agosto 2008

Tutti i libri che non ho letto (6) - ovvero Nessun libro per l'estate

(Gurrado per Books Brothers)
Voglio cantare una canzone,
senza pensare alle parole.
(Uccio De Santis)

La prassi vuole che si vada in libreria, dal giornalaio, al supermercato o addirittura in Feltrinelli per comprare uno, due, cinquanta libri da leggere durante la villeggiatura. La consuetudine è che si faccia spazio fra i bagagli non solo per il secchiello e la picozza (o per il bicarbonato e i preservativi, se si è più cresciutelli), ma anche per – come minimo – un freschissimo bestseller, e poi un bestseller di vent’anni prima che s’era perso nei meandri degli scaffali domestici, e poi inevitabilmente un grande classico da rileggere (con la tacita convenzione che nel novanta per cento dei casi i grandi classici da rileggere non sono mai stati aperti prima). È costume (da bagno, in questo caso) che al mattino presto si guardi con commiserazione i poveracci che leggono tutt’al più Repubblica o il Corriere dello Sport e si sguaini, mezz’unto di crema solare fuoriuscita dalla confezione che si credeva di aver richiuso il pomeriggio prima, il volume col quale ripararsi la faccia dal sole girando le pagine con l’estrema voluttà di chi deliberatamente ignora il circostante rintocco dei racchettoni, il patio del baretto della spiaggia, i preziosi consigli per le vacanze trasmessi a volume hitleriano dalla radio litoranea a circuito chiuso. È buona educazione, infine, bullarsi con parenti amici e sconosciuti assumendo un falso tono afflitto: “Meno male che arriva l’estate, solo in vacanza ho tempo di leggere qualcosa”.

Balle. Dire che solo durante l’estate si ha tempo di leggere è offensivo come dire che solo di domenica si ha tempo di andare in chiesa. Dire che durante l’anno non si ha tempo di leggere, all’inverso, è come raccontare che non si ha tempo di fare sport – un elegante vezzo per togliersi di torno un fastidio potenzialmente assassino. Se uno, foss’anche l’uomo più impegnato del mondo, ritagliasse dall’anno precedente il tempo sprecato in telefonate vane o code dal dottore o sonni fuori contesto o filmati su YouTube con bebè che si fanno la pipì addosso, si renderebbe agevolmente conto che avrebbe avuto modo di – se ne avesse avuto voglia – mettere insieme un paio d’ore di corsa ogni settimana nonché – sempre se ne avesse avuto voglia – di leggere qua e là una decina di romanzi. In un anno non è molto, significa circa duecento pagine al mese per undici mesi, significa sei (virgola sei periodico) pagine al giorno, che con un po’ di applicazione ce la fa pure un analfabeta cieco.

Per protesta contro questo modus legendi (e subordinatamente per evitare il tracollo psicofisico del bibliomane che legge legge e a un certo punto non ce la fa più) quest’estate ho deciso di non portare in vacanza con me nemmeno un libro che fosse uno. In fin dei conti, pensa uno (cioè io), d’estate al mare ci sono più cose da fare che a casa nel resto dell’anno, visto che (tanto per dire) si può prendere il sole, fare il bagno, correre all’alba o al tramonto, imparare il Tedesco dalle turiste, dar due calci al pallone, mulinare il calciobalilla, ammirare quelli che giocano a bocce senz’aver raggiunto l’età legale di sessantacinque anni, rafforzarsi nella convinzione che i bikini bianchi qualora si bagnino diventano trasparenti, parlare di politica col vicino di ombrellone fingendo di essere comunista mentre lui finge di essere berlusconiano, mangiare come un porco, eventualmente uscire a bere qualcosa o andare addirittura in discoteca – tutte attività che non prevedono (anzi aborrono) l’eventualità di leggere o scrivere, la sola presenza teorico-ipotetica di un libro qualsiasi, compreso il manuale di tresette.

Decidere di smettere di leggere, foss’anche per un periodo misero come quindici giorni, è un po’ come far fioretto di non fumarne una per tutto il mese mariano, far Quaresima di digiuno e astinenza dalle carni animali e femminili o decidere di non mangiare più dolci fino a che non verrà sancito il trionfale ritorno al di sotto degli ottanta chili arrotondati per difetto. È, soprattutto, un rostro gettato per saltare al volo dalla barca dei lettori a quella delle persone normali, quelle che non mi regalerebbero mai un libro perché sanno che ne ho già almeno uno. Si fa presto a proporselo e a convincersi della bontà delle intenzioni, meno facile è realizzarle: una forza di gravità inversa ti incatena all’abitudine nel momento esatto in cui devi chiudere la valigia facendo scientemente a meno dell’oggetto-libro, il rassicurante parallelepipedo in cui tante volte ti sei riparato dalle persone noiose, dalle serate noiose, dai pensieri noiosi – da tutto insomma, tranne che dai libri noiosi.

Io medesimo, ad esempio, quindici giorni senza libri non ho potuto prepararli senza portare con me volumi atipici ma necessari come la Bibbia, da leggere appena sveglio e prima di addormentarmi, e il Salterio per seguire la liturgia delle ore. Per maggior sicurezza ho aggiunto l’edizione integrale del Catechismo (nel timore di finire la Bibbia), ma libri veri – romanzi, saggi, cose scritte e rilegate senza evidenti soccorsi sovrumani – nemmeno parlarne.

Così, forte dell’assenza del libro, sono arrivato a Miramare di Rimini e ho potuto considerare con muto disprezzo la tizia dell’ombrellone dietro che si stravaccava sotto un saggio divulgativo sui Templari, e che di sicuro considerava con muto disprezzo la mia palese ignoranza – stante che non facevo mostra di leggere nemmeno un saggio divulgativo sui Templari. La tattica della contrapposizione netta (ossia: loro leggono d’estate perché sono ignoranti, quindi io che sono colto non devo prendere un libro in mano nemmeno se è l’istruzione per l’apertura dell’ombrellone) funziona fino a un certo punto, diciamo quattro o cinque giorni. A essere sinceri, per arrivare fino a quattro o cinque giorni ho dovuto concedermi un quotidiano al dì che sulle prime era la Gazzetta dello Sport, ma poi s’è rapidamente trasformato nel Foglio – essendo il quotidiano più simile a un volume: perché ha i caratteri più fitti e i congiuntivi più ragionevoli. Ma per il resto della giornata, le restanti ventitre ore e mezza, nisba: piuttosto che leggere un libro ero in grado di andare a piedi fino a Riccione. A piedi nudi. Sul bagnasciuga punteggiato di vongole aguzze.

Queste lunghe passeggiate, a posteriori, penso che siano state controproducenti. Iniziavo per sbirciare sempre più centimetri di pelle disposti e scoperti più o meno gradevolmente, o per sorprendermi sempre meno che bambini di due anni fossero in grado di scandire parole irriferibili mentre battevano con la paletta sulla sabbia compattata, e finivo per vergare un censimento a volo d’uccello delle letture altrui. Il signore con la panza sotto il collo legge un’antologia di racconti romantici dell’Einaudi. La signora col cappellino bianco a funghetto legge Yehoshua. La ragazzetta che ha appena finito la terza media legge l’Antologia di Spoon River, esagerata. Il bambino di due anni ha smesso di inveire fisicamente e verbalmente sulla sabbia e ora morde le pagine cartonate de Il trattore del fattore. Un vecchietto con un moncone penzoloni reca sotto braccio Lo zen e l’arte di scopare. Ottantasei tizi di ogni sesso ordine e grado leggono Faletti. Da una borsa abbandonata nella sabbia spunta lo spigolo della Fallaci postuma. Le giovani turiste inglesi leggono tutte in schiera, ma indossano un abbondante topless e con questo vile sotterfugio mi impediscono di concentrarmi sui titoli. La madre di una bambina che rotola giù dalla sdraio legge la normativa urbanistica di non si capisce che regione. Il bagnino chiude a metà Smettere di fumare per sempre e si accende una sigaretta.

Io non leggo niente: passeggio, rimugino, ricerco ulteriori attività estive ma, sopravvissuto alla prima settimana, va a finire che ne scarto sempre più. In fin dei conti se sto sotto il sole mi cuocio, se sto in mare muoio di stanchezza dopo tre bracciate e mezza, a pallone non gioco dai tardi anni novanta, a calciobalilla perdo irrimediabilmente, le bocce non le muove più nessuno (saranno tutti morti di vecchiaia, ora che ci penso), bikini bianchi nemmeno a pagarli, il vicino di ombrellone mi dà pedissequamente ragione qualsiasi sproposito gli esponga, le turiste tedesche in fin dei conti è meglio se se ne tornano in Germania, ogni volta che mi siedo a tavola ingrasso a vista d’occhio, ciò nondimeno programmo di andare a correre sempre la mattina dopo, non reggo più nemmeno l’acqua frizzante e andare in discoteca figuriamoci. Al pomeriggio del decimo giorno entro nell’unica libreria di Miramare dove – nascosto sotto una pletora di Harmony Passion, quaderni da colorare, guide al bricolage e libri di Marco Travaglio – rinvengo una copia de Il Giro del Mondo in 80 giorni.

Lo compro, lo apro, lo leggo. Un’altra estate sprecata.

giovedì 21 agosto 2008

Minoritaria

Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti.
(Colossesi 3, 18)

Mary Wollstonecraft (e basta, da non confondersi con Mary Wollstonecraft Godwin, sua figlia, successivamente maritata Mary Shelley e autrice di Frankenstein) passò buona parte della propria vita a rivendicare i diritti altrui, così come sempre avviene a chi non è soddisfatto dei propri.

Nel 1790 Mary Wollstonecraft compose A Vindication of the Rights of Men, in immediata risposta al breve testo di Edmund Burke (Reflections on the Revolution in France) che costituisce tuttora uno dei massimi esempi di eloquenza inglese, nonché di bella prosa e di buon senso. Per citare una sola delle varie idee che si avanzano nel saggio di Burke, questi sottolinea come l'idea repubblicana base - ossia che tutti gli uomini siano uguali - faccia sì che "l'uccisione di un re, o di una regina, o di un vescovo, o di un padre di famiglia finiscano per essere tutti comuni omicidi; e che, se il popolo ha in una qualche circostanza o maniera da guadagnarci, costituisca il tipo di omicidio più facile a perdonarsi". A Vindication of the Rights of Men, in forma di "lettera al molto onorevole Edmund Burke", è una isterica giaculatoria che inizia bollando i ragionamenti dell'avversario come "fiori di retorica" e finisce in un deliquio romantico da tre penny: "l'amore non è frutto che dell'amore; condiscendenza e autorità potranno magari produrre l'obbedienza alla quale levate il vostro plauso; ma ha invero perduto il suo cuore di carne colui che regge la visione di una creatura sua pari umiliata di fronte a sé".

Non paga, nel 1792 Mary Wollstonecraft allunga la brodaglia con A Vindication of the Rights of Woman, un'ancor più lunga e ancor più isterica giaculatoria il cui nucleo fondante è che le donne non debbano curarsi di apparire eleganti, gradevoli, servizievoli - in una parola femminili. Non è un caso che i ritratti dell'autrice (a parte uno che la fa certo più bella di quanto effettivamente fosse, considerata anche la faccia della figlia la quale, per quanto potesse aver preso dal padre...) ce la tramandino sciatta e ingrugnata, più simile al vecchio Beethoven che ad altro, del tutto dissimile dall'ideale femminino dal quale riteneva fosse necessario allontanarsi quanto più possibile - né la cosa doveva costarle grossa fatica, a colpo d'occhio.

Non è compito della donna, sentenzia la nonna di Frankenstein, "salvare il maschio dall'affogare nella brutalità più assoluta". Curioso notare come - a due anni di distanza - Mary Wollstonecraft non sia in grado di usare altro artificio polemico che quello già usato contro Burke: ossia dichiarare all'inizio che l'urgenza e la serietà del tema non le consentiranno di curare la propria prosa ("I shall disdain to cull my phrases or polish my style"), e che quindi i suoi avversari magari scrivono in un miglior stile perché non avvertono né l'urgenza né la serietà del tema, e che i loro sono fiori di retorica, e che come tale la bella pagina in elogio della donna elegante e gradevole ha la stessa offensiva banalità di una donna elegante e gradevole.

Bisogna compatirla, Mary Wollstonecraft: era figlia di un fallito (un alcolizzato che, avendo perduto l'intero patrimonio, si rifaceva picchiando sua moglie) e un altro ne avrebbe sposato a fine secolo - William Godwin, utopista radicale che la satira ridicolizzò soprattutto per la sua decisione di sposarla. Inoltre nel 1794 aveva già avuto una figlia da tale Gilbert Imlay, il quale poco dopo abbandonò l'una e l'altra svanendo nel nulla. "Senza apparente motivo", riportano le più documentate biografie; ma, per trovarne uno, basta leggere Mary Wollstonecraft con un po' di cervello.

mercoledì 20 agosto 2008

Un romanzo erotico, anzi un saggio libertino

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il libro di Étienne Liebig sarebbe stato senz’altro migliore se fosse stato più romanzo e meno saggio. A ben pensare la storia di Étienne, omonimo dell’autore, che se ne va a spasso (ma più spesso in corriera) lungo il Cammino di Santiago per attaccar bottone con le più disparate pellegrine cattoliche, nonché per farci l’amore in luoghi di fortuna, poteva funzionare per ottenere una briosa sequela di scene erotiche più o meno satiriche e più o meno paradossali. Il libro si sarebbe così collocato nel novero dei pruriginosi cataloghi narrativi in cui la Francia è sempre stata maestra (si pensi all’enciclopedico Sade o al più lieve Pierre Louÿs), sarebbe stato letto con un misto di curiosità e simpatia, e magari l’autore avrebbe meglio raggiunto il suo intento anticattolico: coprendolo, non dichiarandosi, procedendo nascosto.

Anche la trovata del manuale – scanzonato, goliardico e falsamente esaustivo – avrebbe avuto una buona riuscita sul materiale che Liebig accumula nel corso dei suoi dieci giorni di cammino interrotto: non a caso la parte più godibile del libro, in fin dei conti, è il prontuario su dove sedurre la cattolica, cammino a parte. Peccato che duri solo quattro pagine su duecento e più. Si fosse esteso a tutto il resto del libro, disegnando mappe di luoghi più o meno sacri in cui trovare diverse tipologie di cattoliche più o meno lascive, avrebbe sicuramente colto nel segno e – con ogni probabilità – avrebbe continuato a vendere per qualche decennio, grazie a debiti aggiornamenti.

Invece il libro di Liebig pende volentieri verso il saggio, e questo lo rovina irrimediabilmente. Innanzitutto il protagonista e l’autore non sono solo omonimi ma dichiaratamente la stessa persona, e l’autore/protagonista esordisce con un sermoncino contro la “forma di pensiero totalitaria che rende gli uomini schiavi”. Questa schiavitù è il Cattolicesimo, spiega, perché rende palese “che l’Uomo e la Donna sono inferiori per Natura”; ne consegue che lui stesso, seducendo “fanatiche religiose” su e giù per i Pirenei, provvederà a ristabilire la superiorità assoluta dell’uomo e della donna facendo “trionfare la Ragione”.

Ora, se un libro del genere fosse stato scritto nel secolo in cui avrebbe dovuto essere scritto, ossia il Settecento, i contemporanei l’avrebbero giudicato per quello che è, ossia un’opera di retroguardia libertina, un po’ superficiale e un po’ ottusa, che ripete concetti ritriti nella speranza di farli apparire elaborazioni originali. Per quanto il titolo sia promettente, le argomentazioni di Liebig sono più grossolane di quelle degli ultimi stanchi epigoni del barone d’Holbach, e la sua tematizzazione del sesso all’interno di un più generale contenitore filosofico ha solo da perdere in confronto ai grandi pornografi del secolo XVIII. Dettaglio infine non trascurabile, col suo culto (orgiastico) della Dea Ragione Liebig sembra essersi dimenticato sia che la Rivoluzione Francese è finita, sia com’è finita.

Liebig è impreciso: ora si dichiara ateo, ora agnostico, ora meramente diabolico. Liebig è confuso: ritiene che la lussuria sia un “peccato mortale” mentre è notoriamente un peccato capitale. Liebig è poco informato: sostiene che “dopo duemila anni, il primo bersaglio della Chiesa è la sessualità”; dimenticando non solo che i precetti evangelici sul sesso sono una percentuale irrisoria, ma anche che perfino l’arcigno San Paolo relegava la morale sessuale nelle faccende di secondo piano (con un certo indifferentismo: in 1Corinzi 7,38 si lascia sfuggire che “chi sposa la sua vergine fa bene, chi non la sposa fa meglio”), e che dopo duemila anni l’edizione corrente del Catechismo dedica alla vita sessuale la bellezza di quindici pagine su settecentocinquanta. Liebig gioca sporco: poco dopo essersi staccato soddisfatto dalla pelle di una pellegrina, conclude sillogisticamente di non essere sorpreso che di conseguenza la Chiesa difenda i preti pedofili.

La cosa peggiore è che Liebig, come tutti i libertini irreligiosi, è un moralista. Il sospetto serpeggia per varie pagine e vari amplessi (pochini per la verità) e si palesa lì dove una cattolica conservatrice, già sedotta, propone a Étienne di unire ai loro giochi due sue amiche. Ebbene, qui Liebig – sempre senza alcuna distinzione fra autore e narratore – prima si scandalizza e poi si rifiuta perché sdegnato dall’ipocrisia delle pellegrine.

Liebig, infatti, non viene nemmeno sfiorato dall’idea che una cattolica possa peccare deliberatamente. Questo denota un certo ingenuo gallismo nel seduttore, che crede di esser lui a convincere le donne quando invece è solo bravo a trovarsi al posto giusto nell’attimo giusto, e soprattutto una sconfinata miseria teologica e umana, che non concede altrui la possibilità di sbagliare e di venir meno ai propri propositi. Fosse stato un coerente materialista, Liebig sarebbe giunto al (ragionevole) eccesso di sostenere che il cattolico gode due volte del suo peccato, quando lo commette e quando lo confessa; dal punto di vista del libertino, inoltre, è incontestabile che procuri maggior piacere compiere un atto vietato (ossia il peccato per il cattolico) che un atto consentito e ritenuto banalmente fisiologico (come il sesso per l’irreligioso). Leibig non se ne accorge.

Liebig arriva in ritardo di circa duecentocinquant’anni, dunque, e non contento lascia cadere spropositi come l’idea di una maggior tolleranza sessuale nell’Islam – è invece plausibile che, se si fosse lasciato andare a rapporti adulterini fra le pellegrine verso La Mecca, come minimo non avrebbe più avuto mani per scrivere il libro. Fosse stato un libertino professionista, Liebig avrebbe considerato tutto questo e avrebbe composto un grazioso romanzo erotico senza nessun proclama esplicito contro il Cattolicesimo; invece lui, da libertino dilettante, chiacchiera chiacchiera e poi finisce per innamorarsi come l’ultimo degli adolescenti.

martedì 19 agosto 2008

Nell'alto dei cieli

Yelena Isinbaeva, a cui tutto è possibile.
(Attilio Monetti, ieri)

Va bene Pehlps che primeggia nelle specialità di dorso, rana, farfalla, elefante, cavatappi, fritto misto, sarchiapone e tresette; va bene Bolt che quando parte è già arrivato ragion per cui agli ultimi cinquanta-sessanta metri invariabilmente rallenta, si ferma, cammina all'indietro, procede carponi, zompetta su una gamba sola e taglia il traguardo facendo capriole sul naso con le scarpe allacciate fra loro; va bene tutto, ma tutto è niente in confronto a - ancora una volta - Yelena Isinbaeva.

La quale si presenta all'unica finale che la veda in gara con l'aria di chi ha più urgenti affari da sbrigare, assiste con divertita commiserazione ai tentativi preliminari a 4 metri e 30 (4,30! ché lei li salterebbe senz'asta, volendo), vede le sue avversarie ascendere fino a misure pressoché decenti e poi, senza colpo ferire, per senso del dovere salta 4,70 al primo tentativo: lì già sono rimaste in poche a tenerle testa. Dopo di che lascia perdere quando le altre saltano 4,75, lascia perdere quando le ultime tre tentano i 4,80 e di nuovo - risollevandosi dal suo improvvisato giaciglio (stesa immobile sull'erba con un asciugamano in faccia) - provvede a punire l'americana Stuczynski, l'ultima sola che fosse sopravvissuta a quelle altezze, saltando senza apparente difficoltà cinque centimetri più su, 4,85.

E allora ha già vinto l'oro con due saltelli scarsi, perché con tutta la buona volontà la Stuczynski 4,90 non li salterà mai e poi mai, come volevasi dimostrare. Al che, per fare una cosa alla volta e rendere degna di memoria la medaglia salta 4,95 come antipasto (invero un po' difficoltoso, ché ai primi due tentativi le resta sullo stomaco), poi si fa alzare l'asticella a 5,05, dove nessuna mai, e lì ricomincia il suo meraviglioso limbo all'incontrario. Per due volte concede al cielo l'illusione di essere ancora lontano; cade, ride, si lamenta, si nasconde tutta sotto un telone, riemerge, si bisunge le manine, recita il suo segreto rosario e quindi raggiunge il cielo rincorrendolo all'ultimo secondo dell'ultimo tentativo - né si limita a lambirlo, ma ci passa dentro, lo trafigge, minacciando di continuare a portare l'asticella sempre più in alto di un centimetro, di qui all'eternità.

Sarà che - come dicono le mie amiche più moraliste - ci sarà qualcosa di freudiano nel mio infantile entusiasmo per una signorina che maneggia un'asta allo scopo di planare su un materasso; sarà. Se non che da ieri sera chiunque commenti la faccenda non fa che sottolineare quant'è bella 'sta Isinbaeva. Vulgo, non significa soltanto che ha un corpo nobile e un viso simpatico e occhi che uno potrebbe trascorrere il resto della vita sua a guardare senza sentirsi d'aver perso tempo - significa invece che così, d'impatto, il suo rendimento sportivo si distacca da ogni altro evento agonistico per diventare una parabola puramente estetica, una virgola di sublime, una solitaria sfida al cielo che renderebbe plausibile - toh - vedermela or ora saltare in casa attraverso la finestra aperta.

lunedì 18 agosto 2008

Scarti e rimanenze: La Storia sarà un altro


Non conformatevi alla mentalità di questo secolo.
(Lettera ai Romani 12, 2)

Da bambino ero molto ammirato da Chi ha incastrato Roger Rabbit?, il film che faceva coincidere la finzione cinematografica (di carne e, quindi, apparentemente reale) con la finzione animata (di cartone e, quindi, smaccatamente immaginaria). L’ultimo romanzo di Marco Bellotto (Gli Imitatori, Marsilio 2008) si propone un intento del genere, cercando di far combaciare la storia immaginaria dell’autore Livio Mantarro, intellettuale di sinistra inattivo dopo il 1979, con la storia reale di Bellotto stesso, della casa editrice Feltrinelli e del milieu intellettuale impegnato e comunista del secondo dopoguerra italiano.

Operazione riuscita fino a un certo punto. I tentativi di mischiare una storia culturale vera a una falsa non sono nuovi (due esempi per tutti: Vita e Morte di Ludovico Lauter di Alessandro De Roma e Gli Strumenti delle Tenebre di Anthony Burgess), così che ogni nuovo assalto debba qualcosa al precedente. Ogni tentativo è supportato però dalla consapevolezza che la fantacultura è più facile della fantastoria, in quanto la lettura di un libro (presumibilmente opera di un autore vero) costituisce comunque un atto creativo, rendendo il lettore partecipe di un mondo che gli resterebbe altrimenti sconosciuto e che potrebbe pertanto essere stato parimenti composto da un autore fasullo. Quando si legge un libro non ha importanza se l’autore esista veramente o meno, così come non ha molta importanza sapere se sia vivo o morto.

Nella trama de Gli Imitatori, Marco Bellotto e Livio Mantarro non sono gemelli: li separano la distanza d’età (Mantarro è più vecchio), la gloria (Mantarro è più famoso) e l’ambizione (Mantarro ha smesso di scrivere, beato lui). Soprattutto, esiste una ridda di personaggi dell’intelligentsia italiana, tutti realmente esistenti, che Mantarro ha conosciuto di persona e che Bellotto invece soltanto tramite i libri e i racconti del suo stesso mentore: così che per un curioso effetto i vari Feltrinelli, Bianciardi, Arbasino risultino personaggi reali per Mantarro (che è immaginario) e immaginari per Bellotto (che è reale).

Qui si crea l’attrito. L’algebra insegna che il prodotto di un numero positivo (personaggio reale) per uno negativo (personaggio immaginario) dà un risultato sempre negativo (immaginario); al contrario nel romanzo di Bellotto i personaggi reali raccontati dal personaggio immaginario danno un prodotto reale, non immaginario. Feltrinelli, Bianciardi e Arbasino, ritratti uno meglio dell’altro, risultano essere talmente veri da rovinare quasi il resto del romanzo, facendo sfigurare i personaggi immaginari che ruotano attorno alla misteriosa incriminazione di Mantarro per fiancheggiamento del terrorismo rosso. Va a finire che le sessantasette pagine in cui Bianciardi sorge e repentinamente tramonta lo rendano talmente adorabile, come effettivamente doveva essere, da far trascolorare l’aura di mitologica ammirazione che Bellotto ha con dettagliata perizia fatto sorgere attorno a Mantarro: per mezzo romanzo non si fa altro che dire che l’immaginario Mantarro è il miglior scrittore del dopoguerra italiano, poi appare un Bianciardi verissimo e la verosimiglianza dell’affermazione vacilla. In quel momento – nonostante l’impegno e il talento indiscutibili di Bellotto – ci si rende conto di chi è fatto di carne e chi invece è un cartone animato. Non per questo tuttavia si ripone il romanzo, non foss’altro per desiderio di sapere come va a finire il processo.

Gli Imitatori di Marco Bellotto si propone di trasportare la finzione narrativa nella realtà storica. La Storia Siamo Noi (AA VV, Neri Pozza 2008) punta all’esatto contrario: quindici autori italiani più o meno affermati trasportano di peso la realtà storica nella finzione narrativa, ciascuno con un diverso racconto ambientato in un diverso periodo storico, in ordine progressivo.

Operazione riuscita fino a un certo punto. Contrariamente alla scintillante tradizione di Neri Pozza, titolo e copertina non convincono di primo acchito; i nomi degli autori invece attraggono fatta salva qualche idiosincrasia che, essendo mia personale, non trasmetto altrui. Da storico, mi lascia un po’ perplesso notare che, ai fini dell’antologia, la nostra storia inizia nel 1848 (a Milano, Porta Vittoria) e termina oggigiorno (a Milano, Stazione Centrale), ma la scelta può essere spiegata con la faccenda dell’Italia “espressione geografica”, il che potrebbe giustificare il (discutibile) rifiuto di inserire in una Storia romanzata l’Italia del Caffé, della pax hispanica, dei Montefeltro, di Dante, di Giulio Cesare e della Magna Grecia. Meno giustificabile mi è parsa la concentrazione di eventi negli ultimi anni, a detrimento del periodo che va dal Risorgimento al Fascismo: di quindici racconti, uno riguarda le cinque giornate di Milano, uno Garibaldi, uno Caporetto e uno il Ventennio; i restanti undici sono ambientati dalla Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri, a conferma della consueta interpretazione miope della Storia che va molto di moda nei nostri paraggi, grazie alla quale si vede fin troppo nel dettaglio ciò che è vicino e si intuisce appena ciò che il tempo ha allontanato.

Trattandosi di una raccolta di racconti, la riuscita è discontinua. Entusiasma in primis la prosa di Nicola Lagioia, tornato alle forsennate serpentine narrative dell’originario Tre Sistemi per Sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi); tuttavia mi lascia perplesso la scelta di far diventare un capitale momento storico la vita di Indro Montanelli, soprattutto perché consustanziale alla scelta di focalizzare la vita di Montanelli nelle dimissioni da direttore de Il Giornale, così da rendere di fatto la letterina a Berlusconi un evento di dimensioni epocali – è un po’ eccessivo. Lagioia scrive talmente bene che la biografia immediatamente successiva, di Gianni Agnelli a opera di Leonardo Colombati, dovrebbe arrossire di vergogna nonostante sia brillante (più per le citazioni da Agnelli che per altro). Andrea Camilleri sembra piuttosto stanco, e solo a tratti il suo stile pare ricordarsi a chi appartenga – fermo restando che un Camilleri stanco riesce meglio di molti altri a mente fresca. Antonio Scurati, in ventisette pagine, fa testualmente “largo uso di ampi passaggi tratti da due miei precedenti romanzi storici”, sufficienti a sollevarmi dall’incombenza di leggere le restanti centinaia di pagine dei romanzi in questione. Sebastiano Vassalli mah.

I racconti più belli, quelli che da soli valgono il prezzo del libro, li hanno scritti (in ordine di bravura) Giosuè Calaciura, Marco Desiati e Giancarlo Liviano d’Arcangelo. Calaciura s’è inventato un enorme e inerme soldato borbonico che, passando inconsapevole dalla divisa gigliata alla camicia rossa, è un’ottima incarnazione della Sicilia neogaribaldina. Desiati tratteggia una delicata storia d’amore fra una tisica e un lebbroso in un sanatorio pugliese all’epoca del culto fascista della sanità corporale. Liviano d’Arcangelo miscela forse più sapientemente di tutti il racconto dell’io privato (i tormenti di un maresciallo in congedo, stretto fra una moglie troppo fedele e il ricordo di una copertina di Playman) e quello dell’io collettivo (il DC9 uccellato a Ustica).

Questi tre racconti maschili riequilibrano gli imbarazzanti esiti femminili della nostalgia delle rivolte studentesche (1968), dell’autocritica sul caso Moro (1978) e dell’affermazione mediatica del femminismo di massa (1979: prima trasmissione tv di un processo per stupro): le autrici sono tre ma potrebbero essere una soltanto, scrivendo tutte allo stesso modo.

Buon ultimo, Giuseppe Genna si lamenta per quarantaquattro pagine della noia dei lettori italiani, senza che lo sfiori il minimo sospetto di sentirsene correo. Colpisce infine il particolare che quasi tutti gli autori, per parlare della Storia d’Italia, non abbiano saputo trattenersi dal far esplicito riferimento a sé stessi in prima persona, confondendo sovente narrativa e autobiografia così come memorialistica e ricerca bibliografica. Segno evidente che in Italia la memoria e la ricerca storica godono di insospettabile buona salute. Il racconto, il romanzo storico chissà.

venerdì 15 agosto 2008

Postilla a Tutti i libri che non ho letto (5)

[E così è capitato che, fra i vari commenti all'articolo sui titoli per Books Brothers che trovate subito qui sotto, un tizio commentasse facendo riferimento a un libro che lui stesso aveva scritto - se non che, particolare non trascurabile, aveva fatto riferimento al suo libro con un titolo sbagliato. Al che io, diabolicamente:]

Stavo pensando quanto sarebbe interessante se improvvisamente tutti gli autori iniziassero a non ricordare i titoli dei propri romanzi - in fin dei conti il segreto della buona letteratura è l'understatement. Io potrei vantarmi di aver scritto Il cane che si morde la coda e 5 9 82. Thomas Mann, che è notoriamente più bravo di me e fors'anche di Felice Muolo, di aver scritto I Robinson e Lieve malore a Vicenza. Marcel Proust Alla ricerca del tempo libero. James Joyce Achille e Finnegan's wake. Luigi Pirandello Dieci, cento e mille e Gli gnomi del boschetto. Cesare Pavese La casa al mare. Raffaele Nigro Viaggio a Samarcanda. Roberto Saviano Sodoma. Flavio Soriga Sicilian Blues e Ottavio Cappellani Sardinian Tragedi. Cosimo Argentina Tizio Incognito Assoluto e Camillo Langone Il catechismo delle signorine. Livio Romano Poco da stare allegri; Gaetano Cappelli Zii acquisiti. Luciano Bianciardi Che vita agra, Giuseppe Berto Il male rosso e Il cielo è oscuro, Giovannino Guareschi Il destino si chiama Camillo. Stefano D'Arrigo Il delfino anzi La balena, Hermann Melville Moby Prince, l'orca assassina.

E così via - saremmo tutti più rilassati.

mercoledì 13 agosto 2008

Tutti i libri che non ho letto (5)

(Gurrado per Books Brothers)

Ma tu come t’antitoli?
(Carlo Verdone, Viaggi di Nozze)

Cos’è un nome?, chiedeva Giulietta Shakespeare a William Romeo – anzi, volendo attenerci alla traduzione letterale, cosa c’è in un nome? Seguiva l’argomentazione che la rosa, se non si fosse chiamata rosa, non sarebbe per questo diventata un altro fiore; argomentazione capziosa tuttavia, stante che è evidente a chiunque non stia parlando dal balcone all’innamorato che, se la rosa si chiamasse violacciocca, allora sì che sarebbe diventata un altro fiore e cioè appunto una violacciocca, e se si fosse chiamata zizzania sarebbe stata zizzania e se si fosse chiamata ombrello sarebbe stata un ombrello. Avrebbe dovuto rispondere Romeo a Giulietta, fosse stato più lucido di un quindicenne e avesse passato le notti a dormire invece che a zompar per muri altrui: in un nome c’è tutto, il nome è tutto.

Una considerazione spesso sfuggita al mercato editoriale è che il titolo è l’unica parte di un libro che venga letta da tutti. Il paradosso estremo è anzi che uno sa di non aver letto un libro solo se ne conosce il titolo, e quindi di conseguenza tutti i libri che non abbiamo letto sono libri dei quali abbiamo letto solo i titoli, e che senza leggere nemmeno il titolo – tecnicamente – non possiamo dire di non aver letto questo o quel libro. Come faccio io a sapere, nell’arsura meridiana di Gravina, di non aver letto un libro di cui non conosco il nome, se non sapendone il nome non posso nemmeno conoscerne l’esistenza? È tutta la mattina che vado avanti con questo giochino maieutico in cui torturo mia madre: “Da cosa distingui i libri che hai letto rispetto a quelli che non hai letto?” “Elementare, o Socrate: non ho mai letto i libri che non ho letto.” “Quindi un libro che non hai letto è quello di cui non hai mai letto nulla?” “Esattamente, o Socrate, altrimenti l’avrei letto, tutto o in parte.” “Mi dici il titolo di un libro che non hai mai letto?” “Il Nome della Rosa, e non ho intenzione.” “Ma se sai come si chiama vuol dire che almeno il titolo del libro l’hai letto, quindi in parte hai letto il libro.” “Ih, è vero, o Socrate.”

Quindi, a ben guardare, se sappiamo di non aver letto un libro vuol dire che un po’ l’abbiamo letto. Ed è un bel guaio: significa che la lettura è un’arte che procede per levare, e che dalla tabula rasa dell’ignoranza dell’innocenza e della felicità complete (purtroppo irrimediabilmente perdute nel giorno in cui la maestra ci mette in mano la matita e ci costringe a vergare insulse asticelle diritte coricate o diagonali) sottraiamo qualcosa perfino leggendo di sfuggita le parole scritte sulla costa di un libro che sporge colpevolmente da uno scaffale.

Leggendo un titolo, si ha la stessa reazione che Proust aveva quando, da bambino, trascorreva intere notti insonni a consultare l’orario ferroviario (infanzia infelice, presumo) e a immaginare se un paese che si chiama Balbec sia meglio di uno che si chiama Combray: si inizia non tanto a fantasticare quanto a cucire attorno alle parole un abito che, pur prendendo spunto e ispirazione dalla traccia fissa del titolo, risponde ai nostri gusti, riproduce il modo in cui noi scriveremmo il libro di cui conosciamo solamente le generalità – il modo ad esempio in cui mia madre scriverebbe Il Nome della Rosa o io scriverei Tre Metri sopra il Cielo, plausibilmente meglio dell’originale. Accade grossomodo l’inconveniente che avevo sentito riferire da una Tedesca la quale, rendendo onore alla conclamata brillantezza dei suoi connazionali, arrivando dal Brennero aveva visto l’indicazione autostradale con la scritta A22 MODENA che sovrastava enorme quella A1 MILANO-ROMA, e ne aveva dedotto che Modena fosse grande quanto Milano e Roma messe insieme.

Il problema sorge quando la Tedesca arriva a Modena, ossia quando uno inizia a leggere un libro oltre la copertina. Più bello è il titolo, più alto è il rischio di venirne delusi. A me è capitato con un volume di Guy Debord che avrei trovato in fin dei conti accettabile se non avesse avuto un titolo assolutamente dadaista ed eccitante come In girum imus nocte et consumimur igni. Si fosse chiamato più banalmente L’uomo consumato dal fuoco, mi sarebbe piaciuto molto di più. Anche Santa Barbara dei Fulmini sarebbe stato molto più gradevole se José Amado si fosse limitato a scriverne il titolo, e lo stesso valga per Tu Vipera Gentile (Bellonci), L’opera struggente di un formidabile genio (Eggers), N. (Ferrero), Ogni cosa è illuminata (Safran Foer), Occhi di cane azzurro (Garcia Marquez), L’assassino ha letto Joyce? (Gill), Della fuga (S. Gregorio Nazianzeno), Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (Haddon), Prolegomeni a ogni metafisica futura (Kant), Il libro del riso e dell’oblio (Kundera), La lunga vita di Marianna Ucria (Maraini), La variante di Lüneberg (Maurensig), Racconti di adulteri disorientati (Millas), La noia (Moravia), Per preparare nuovi idilli (Orengo), Teoria e pratica di ogni cosa (Pessl, e in inglese suona ancora meglio – Special Topics in Calamity Physics – senza che per questo il resto del libro migliori), Gesù, fate luce (Domenico Rea), Credo in un solo oblio (Rezza), Il dolore perfetto (Riccarelli), Eutanasia di un amore (Saviane), Errori di design nella Volvo 760 Turbo (Will Self), Labilità (Starnone), Sostiene Pereira (Tabucchi), Mille anni che sto qui (Venezia), Caos Calmo (Veronesi), Dei bambini non si sa niente (Vinci), Il responsabile delle risorse umane (Yehoshua) e Bere caffè da un’altra parte (ZZ Packer), in rigoroso ordine alfabetico di colpevole.

Il titolo è una promessa; se un autore è veramente grande, allora riesce a mantenerla. Accade piuttosto di rado che un libro sia all’altezza del suo titolo, però accade. Fra i fenomeni che abitualmente nobilitano con dell’alta letteratura titoli irraggiungibili, vanno segnalati André Gide (I sotterranei del Vaticano, La porta stretta, L’immoralista), Giorgio Manganelli (Hilarotragoedia, La palude definitiva, Lunario dell’orfano sannita), Michele Mari (Euridice aveva un cane, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Tu, sanguinosa infanzia) e Guido Morselli (Dissipatio HG, Contropassato prossimo, Roma senza Papa) – senza dimenticare Pirandello perché, non ci fosse lo studio e l’abuso che se ne fa, titoli come Il fu Mattia Pascal e Quaderni di Serafino Gubbio operatore conserverebbero tutt’oggi il loro effetto dirompente.

Sei e Settecento sono stati secoli ai quali la titolistica deve molto (Bruno, Spaccio della bestia trionfante; Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo; Swift, Modesta proposta per prevenire che i figli degli Irlandesi poveri diventino un fardello per i loro genitori, e per renderli anzi un beneficio pubblico), ma il Novecento s’è difeso egregiamente sia in Italia (Arbasino, SuperEliogabalo, Flaiano, Frasario essenziale per passare inosservati in società; Gadda, La cognizione del dolore; La Capria, Ferito a morte) sia all’estero (Chesterton, L’uomo che era giovedì; Louÿs, Piccole scene amorose; Mann, Disordine e dolore precoce; Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra; Queneau, Troppo buoni con le donne; Sagan, Buongiorno tristezza). Dell’ultimo ventennio promettono e mantengono, con felice concordia fra traccia e svolgimento, Le vergini suicide (Eugenides), E poi siamo arrivati alla fine (Ferris), Estensione del dominio della lotta (Houellebecq). Solo quest’anno, poi, in Italia sono stati pubblicati due notevolissimi La vera religione spiegata alle ragazze (Langone) e Maschio adulto solitario (Argentina).

Eppure, con tutti questi ottimi libri che ho letto innanzitutto perché innamorato del titolo, man mano che procedevo avevo l’impressione di essermi perso qualcosa. Ogni titolo apre una rosa di possibilità infinite e ogni libro, per quanto si sforzi di onorarne la migliore, necessariamente lascia perdere tutte le altre e quindi necessariamente delude. Quando una bella ragazza si presenta, rivelandosi come Giulietta o Valentina o Ilaria o chissà chi, segue un periodo compreso fra i cinque minuti e la settimana intera in cui si resta rapiti dalla sua manifestazione spinoziana di giuliettità o valentinità (ilarità?) potenzialmente infinita. Si gioca con questa fantasia e si finisce per chiedere un secondo, un terzo incontro alla medesima signorina. Man mano che il tempo passa, l’apertura di possibilità si richiude ed emerge progressiva, netta, inesorabile l’essenza di questa singola Giulietta o Valentina o Ilaria o chissà chi, che le impedisce di essere qualcun’altra che avevamo sperato, auspicato, supposto. Coi libri accade lo stesso: il meglio della vita ce lo immaginiamo.

lunedì 11 agosto 2008

SuperBianciardi

(Gurrado per Books Brothers)

L’irrefrenabile mito di Luciano Bianciardi sorge il 3 giugno 1956, in una pagina interna de L’Unità. Beninteso, a quel punto Bianciardi ha già trentatre anni e due figli, ha già collaborato più o meno stabilmente con una decina d’altri giornali, ha già inventato il Bibliobus che porta i libri della biblioteca Chielliana in giro per le irraggiungibili campagne grossetane, ha già composto con Carlo Cassola una vibrante inchiesta sulle condizioni disumane dei minatori di Ribolla, ha già iniziato a lavorare nella neonata Feltrinelli, ha già preso armi e bagagli per trasferirsi a Milano, ha già pubblicato I minatori della Maremma e ha già tradotto il primo romanzo, Il flagello della svastica di Edward Russell, secondo titolo assoluto nel catalogo Feltrinelli. Il 3 giugno 1956 Bianciardi è già il Bianciardi che resterà fino al 1971 e perfino oltre la morte, ma il pubblico non lo sa ancora; può intuirlo, alcuni lo fanno, solo quando legge il titolo Rivoluzione a Milano e il conseguente incipit: “Di una città come Milano uno può dire tutto il male che vuole…”.

Rivoluzione a Milano occupa tre pagine scarse sulle milleottocentottatntuna, introduzione e indici esclusi, del secondo volume dell’Antimeridiano, il librone (anzi, il Bianciardone) edito per i candidi tipi della ISBN (in collaborazione con la piccola ma virtuosa ExCogita editrice di Luciana Bianciardi figlia ed erede omonima) che raccoglie tutta ma proprio tutta la produzione giornalistica di Bianciardi curata e riorganizzata da Massimo Coppola, Alberto Piccinini e dalla figlia Luciana medesima. Per leggerlo tutto ammetto che c’è voluto del tempo – un mese esatto, e io vado veloce – ma va sottolineato che è stato un piacere pressoché ineguagliabile, stante che ogni articolo, della lunghezza variabile fra l’una e le trenta pagine, immediatamente ne richiamava un altro come ciliegie metafisiche; per comprarlo ammetto che ci vogliono sessantanove euri, ma va sottolineato che un quotidiano in fin dei conti costa un euro e che se comprate, che so io, la Repubblica per sessantanove giorni filati non trovate mica trecentottanta articoli così belli, scritti così bene, destinati a perdurare nei decenni scavalcando la necessaria estemporaneità della cronaca applicata.

Dunque, Rivoluzione a Milano, tre pagine su milleottocentottantuna, 3 giugno 1956. Bianciardi prende il luogo comune della rivoluzione, allora ancora in auge, e lo traspone dal settore lavorativo e proletario a quello più generale, umano tout court, che si riverbera negli atti minimi e preconsci del singolo e della collettività asserviti a un’autorità invisibile e interiorizzata: “La gente di Milano rispetta le leggi, le autorità, le ordinanze, le disposizioni e i regolamenti”, e ancora “il milanese rispetta l’orario e, quando non vi sia, invoca l’orologio a timbro, che segna e marca l’ora di ingresso in ditta”. Su questa struttura ideologica Bianciardi innesta la parodia sistematica di ritmi e tempi di Milano, che sei anni dopo avrebbe costituito il nucleo dolce de La Vita Agra, uno dei tre grandi romanzi italiani del secondo Novecento (gli altri essendo, per la cronaca, Il Male Oscuro di Berto e Horcynus Orca di D’Arrigo; tutto il resto è letteratura): “In tram il milanese non sputa, non fuma, non schiamazza, non canta, non parla, non disturba il personale. Cede il posto agli invalidi e alle persone anziane, conserva il biglietto per tutta la durata della corsa, viaggia aggrappato agli appositi sostegni, non scende né sale quando il veicolo è in moto, va vestito in maniera corretta”. Il terzo movimento dell’articolo sintetico e perfetto consiste nel delineare appunto la rivoluzione, che si distanzia dal luogocomunismo imperante e proprio allora degenerante (il ’56, tanto per dire, è l’anno dei carri armati in Ungheria) in quanto ripesca un mito in fin dei conti avverso alla cultura di sinistra, il Risorgimento al quale Bianciardi dedicherà anni e fatica e libri in abbondanza: “Mi occorrono mille uomini spregiudicati, decisi, ben addestrati. Mille uomini disposti a scendere dal tram in corsa, a passare col rosso, a cantare nei giorni feriali, a far capannello nelle vie del centro”. Uno legge Rivoluzione a Milano e, se intende fra le righe queste sorrise paginette brevi, non si sorprende che la pluriennale collaborazione con L’Unità cessi di lì a poco.

Era infatti Bianciardi un umanista assoluto, che vedeva le lettere al servizio della società e mirava a sottrarre l’uomo dal dominio dell’alienazione alla quale, progressivamente, anche lo stesso marxismo voleva spingerlo, risolvendo il tutto in una dinamica interna a forza lavoro, plusvalore e caduta tendenziale del saggio di profitto. Bianciardi era un anarchico esteta, riguardo al quale curiosamente nessuno ha scritto uno straccio di articolo per ricavarne il succo del pensiero teorico, la filosofia spiccia e ben salda. L’Antimeridiano 2 aiuta invece, forse più della raccolta completa di romanzi nel volume precedente, a rintracciare qualche filo rosso e qualche leitmotiv filosofico che Bianciardi disseminava nella sua letteratura più o meno d’occasione, esattamente come faceva l’uomo che in punto di morte dichiarava di ammirare più d’ogni altro: “Sono un discepolo di Voltaire, non di Diogene”, scriveva il 13 settembre 1971, a due mesi dalla fine.

A leggerla tutta insieme, la raccolta di articoli dell’Antimeridiano 2 è un flusso continuo di coscienza civile che, assecondando i moti più o meno tumultuosi della cronaca immanente, fornisce un quadro piuttosto chiaro delle convinzioni che Bianciardi aveva mantenuto stabili e aveva visto crescere nei vent’anni circa che seguirono i suoi esordi sulla locale stampa maremmana. Questo spiega le soventi ripetizioni, che magari lì per lì avranno preoccupato i curatori ma che anzi, a prodotto finito, forniscono il gradevole effetto di leitmotiv wagneriani che riemergono qua e là dall’infinita quantità di parole che Bianciardi riversa sul suo pubblico mutevole e fedele: il senso di impotenza di fronte alle morti sul lavoro, il favore non tanto verso l’istituzione del divorzio quanto verso l’abolizione del matrimonio, la perplessità (tutta maschile e paterna) di fronte all’aborto, l’avversione per le trasmissioni registrate e la conseguente censura televisiva, la sottile distinzione fra rivoluzione e rivolta, l’ideale risorgimentale tradito che si rispecchia negli ultimi eroi seri del Novecento ovvero i campioni sportivi, l’irritazione dinanzi a Mike Bongiorno, l’inutilità anzi dannosità dello sbarco sulla luna (che allontana, sterilizzandola, la vicinissima luna irraggiungibile dei poeti), l’ammirazione per Giacomo Leopardi giornalista sportivo e per Gianni Brera filologo ugrofinnico, la superiorità e la modernità di Verga su Faulkner, l’insofferenza per l’invenzione di un’apposita grammatica televisiva – nell’Antimeridiano 2 c’è tutto. Né potrebbe essere altrimenti, visto che dal 1952 al 1971 Bianciardi ha scritto su trentacinque testate le più disparate (La Gazzetta, Il Nuovo Corriere, Belfagor, Avanti!, L’Automobile, Il Mondo, Comunità, Il Contemporaneo, La Voce degli Assegnatari, Cinema Nuovo, L’Unità, Cultura Moderna, L’Indicatore EDA, Vie Nuove, Critica Sociale, Le Vie d’Italia, Notizie, Le Ore, Il Giorno, Notizie Letterarie, Domus, La Donna, Il Delatore, ABC, L’Europeo, Annabella, Kent, Executive, Playmen, il Guerin Sportivo, L’Ombrone, Epoca, AZ, Tempo e il Secolo XIX), ovviamente ripetendosi di quando in quando ma senza mai scadere nella banalità ritrita che è, per certi versi, la cifra del giornalismo italiano talvolta colpevolmente considerato “alto”.

Chi gradisce una controprova è invitato a leggere le ampie sezioni (centinaia e centinaia di pagine, a conti fatti) che il volume dedica alla televisione. Bianciardi è stato uno dei primi critici televisivi, forse il primo modernamente inteso, grazie soprattutto alle rubriche Rai Tv su Notizie Letterarie, TeleBianciardi su ABC e Televisione su Playmen, che offrono una radiografia della tv italiana dal 1963 al 1971. Essendo nata la Rai nel 1954, si può dire che Bianciardi l’ha vista crescere e diventare da bambina di anni nove a più o meno provocante ragazzetta diciassettenne, ancora minore ma ben consapevole dei propri ruspanti mezzi di seduzione.

Da critico televisivo Bianciardi non perde mai il proprio carattere di esploratore. Scrive il 25 ottobre 1971, a tre settimane dalla fine, che come il calciatore lo scrittore deve “camminare, correre, guardare e concludere. Uno scrittore che non cammina non conta nulla”. Camminar guardando è la peculiarità del Bianciardi narratore, felicissimo nelle descrizioni di ambienti e nella fedele caricatura delle persone varie. Altrettanto insight Bianciardi conserva nel giornalismo, che in fin dei conti è una narrazione stampata in fretta, e ancor più quando si tratta dell’elettrodomestico progettato apposta per la visione: quando parla della tv, Bianciardi è geniale nello spiegare agli altri cos’hanno appena visto. Come un esploratore, prima di giudicare descrive: questo rende possibile a me, che son sbucato parecchi anni dopo Carosello, di poter visualizzare per concetti la trasmissione sulla quale Bianciardi sta per esprimersi. È intuibile che lo stesso sentimento di visione ex novo pigliasse i lettori di TeleBianciardi e derivati, i quali dalle parole di Bianciardi potevano accorgersi di aver visto qualcosa di diverso da quel che credevano. Filosofia e politica, in Bianciardi, arrivano dappertutto e così l’invito settimanale al revisionismo televisivo si fa propaganda per una rivoluzione permanente nel tinello.

Bianciardi è abile nel prevedere il futuro: pronostica che un dì Celentano sarà famoso non tanto per quello che canta, ma soprattutto per quello che dice e per come sta zitto; che la Roma vincerà lo scudetto intorno al duemila; che alla domenica pomeriggio la tv trasmetterà tutte le partite in simultanea; che i canali si moltiplicheranno all’infinito specializzandosi per ambiti sempre più limitati; che si verificherà una progressiva inarrestabile commistione fra Tribuna Politica e Carosello (“Movimento Sociale etichetta nera, la fiamma tricolore che ricrea l’atmosfera” ). Ha in uggia l’ampex, ossia il marchingegno che serviva a tagliare i nastri registrati per rimontarli secondo un ideale galateo televisivo che non di rado sconfinava nella censura di tutto ciò che non era prevedibile e controllabile, foss’anche solo la parola “membro”; perfino il playback gli sembra un tradimento della buona fede dello spettatore, una mistificazione della verità che la tv ha il dovere di offrirgli. Bianciardi carica la televisione di un compito documentaristico prima ancora che educativo: il suo scopo, spiega, non è quello di venire montata come un collage di buone maniere ma di presentare ogni evento all’assente, in diretta, consentendogli di vedere ciò che è lontano: su un canale San Siro, sull’altro il Parlamento, sull’altro ancora il funerale del Papa, il festival di Sanremo, lo sbarco sulla Luna, l’invasione dell’Ungheria, l’appartamento della signora di fronte, etc. Vuole che la tv sia pensata per tutti e ciascuno dei milioni di spettatori sparsi in Italia, non per le singole famigliole di quattro-cinque persone che vi si piazzano seralmente davanti a essere intrattenuti con canzoni che parlano d’amor e giochini per ritardati. Per questo detesta Mike Buongiorno e sovente condanna Corrado.

Anche quando affronta lo sport Bianciardi ha quale estremo ideale irrinunciabile la verità; lo rattrista la consapevolezza che una partita di calcio sia due cose ben diverse se vista dalla tribuna centrale o da dietro la linea di fondo, a cercare di scansare (ovvero parare con lo stomaco) le bordate di Gigi Riva. Il lungo reportage de Il Giorno su Urss-Italia 2-0, valevole per le qualificazioni agli Europei del 1964, consiste in tre paginette sulla partita e ventinove sul viaggio da Milano a Mosca, documentario che sfocia da un lato nella narrativa pittoresca e dall’altro nel racconto filosofico, volto a cercare un significato nelle diverse attese, speranze e disillusioni degli Italiani che vedono per la prima volta la patria dell’ideale allora più diffuso al mondo, e per i quali vedere la partita, tifare e perderla è l’ultimo pensiero.

Questa ricerca della verità, nel tentativo di offrirla vergine a un pubblico più che assuefatto alle mistificazioni a destra e a manca, emerge prepotente in Così è se vi pare, la rubrica epistolare che Bianciardi ha tenuto sul Guerin Sportivo di Gianni Brera nell’ultimo suo anno di vita (fate conto che oggi sul Guerino ogni tanto scrive Gianluca Morozzi, e poi uno non deve lamentarsi che la storia è una corsa scapicollata verso l’orrendo peggio). La leggenda vuole che Bianciardi si scrivesse da solo le lettere firmate da celebrità diverse, alcune delle quali (Milva, ad esempio, o Lauretta Masiero) è altamente improbabile che leggessero il Guerino, ma non si può mai dire. Così è se vi pare occupa più di cento pagine sull’Antimeridiano 2 e consta di una quarantina di corpose lettere con più corposa risposta in cui Bianciardi non solo si pone, rispondendosi, domande che accostino originalmente gli argomenti più diversi (le bottiglie di Coca Cola, i capelli lunghi, Oliver Cromwell e Helenio Herrera) e le grandi passioni della sua vita (letteratura, calcio, rivoluzione, televisione, Risorgimento, donne e alcol), ma sottoponendosi a una continua requisitoria in prima e terza persona Bianciardi si accusa e si difende, si elogia e si denigra. È, in termini e ambienti impropri, il definitivo esame di coscienza di un letterato, la cui ultima puntata appare sul Guerino il 15 novembre 1971, postuma di un sol giorno.

Mi piace pensare che, di là dall’istintiva contrapposizione con il canone mondadoresco, l’Antimeridiano si chiami così in omaggio a uno scrittore che si alzava presto al mattino per spremere di lavoro ogni ora del giorno, e che accumulava fogli su fogli di articoli, romanzi e traduzioni per trasformarli in altrettante banconote utili a pagare affitto, luce, acqua, gas e tre figli. Contrario ai miti dello scrittore impegnato (se non a scrivere), esaltato e retorico, Bianciardi si proietta come in uno specchio invertito quando scrive per Il Giorno un lungo saggio divulgativo su d’Annunzio esteta e guerriero, L’eroe immoralista della piccola Italia. Di suo, Bianciardi era armato esclusivamente della macchina per scrivere, sulla quale dichiarava pubblicamente d’esercitare quotidiano battonaggio, e la sua ardita beffa di Buccari consisteva nello spiazzante ricupero, quando il lettore meno se l’aspetta, di termini desueti come “unviuno” o “corbello”, pronti a venire infilati lì dove necessari, in luogo di termini più generici e diffusi che, avanguardisti di un linguaggio appiattito su poche parole comprensibili a tutti, facevano perdere il senso proprio delle cose e quindi la loro verità.

Così anche Bianciardi era nemico della sovrastruttura giornalistica, che portava a intruppare l’avvenimento nel giornalese prefabbricato, che portava i lettori del telegiornale a separare innaturalmente gli articoli dai sostantivi (ascoltateli, non hanno ancora smesso) e a dare al pubblico ciò che esso stesso ritiene di doversi aspettare, consolandolo e blandendolo. Bianciardi è un formidabile dialoghista, e sceneggiatore di interviste. Di mille che ne ho lette e sentite a calciatori d’ogni tempo, nessuna pareggia l’assurdo e smozzicato colloquio con Gianni Rivera nel 1963: “Come l’è parsa l’Inghilterra?” “Ho visto molto poco. Eravamo in ritiro.” “Sa che lei gioca benissimo?” “Be’, faccio del mio meglio.” “Dove andrà in vacanza?” “Non ho ancora deciso.” “Preferisce il mare o la montagna?” “Un po’ il mare, un po’ la montagna.” “Allora grazie, signor Rivera, e buongiorno.” “Speriamo.”

In quest’intervista Rivera potrebbe non aver messo più bocca di Ionesco. Potrebbe essere completamente inventata, intrinsecamente surreale, furiosamente anarchica: per questo è bella e vera.


[Update: questa sera alle 20:30, su La7, verrà trasmesso il film La Vita Agra (Italia 1964), di Carlo Lizzani con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, tratto dal romanzo di Luciano Bianciardi.]