giovedì 28 agosto 2008

L'ebreo gesuita

Si legga due volte La Montagna Incantata.
(Thomas Mann)

Purtroppo frequento quasi esclusivamente persone intelligenti, le quali di tanto in tanto se n’escono con giochini odiosi del tipo: “In quale personaggio letterario t’identifichi?” “Paperino”, rispondo di solito, e posso addurre numerosi riscontri di tale identità a esclusione, ovviamente, della divisa da marinaretto, che solitamente non porto e della quale – nel caso in cui mi decidessi a portarla – procurerei d’indossare anche la metà inferiore, così da non lasciare al vento la coda e le pudenda.

Dovendo proprio rispondere, scavando nella memoria, potrei arrivare all’eccesso di ricordarmi come nel lontano e felice 2004 – quando vivevo a Napoli e mi pagavano fior di quattrini per prendere il caffè in piazza San Domenico nonché sovrabbondanti ricce dal dirimpettaio Scaturchio – qualche bell’ingegno aveva preso a soprannominarmi Naphta (no "nafta"; col ph, come phon); cosa che sinceramente avevo rimosso fino al giorno in cui, questa settimana, mi sono messo a rileggere La Montagna Incantata.

Leo Naphta è un personaggio secondario del romanzo, se vogliamo limitarci a prendere in considerazione la sua tardiva comparsa (dopo circa 400 pagine) e lo spazio limitato che il massiccio volumone gli dedica. Se invece consideriamo dall’alto l’economia complessiva della trama appare evidente, soprattutto a una seconda lettura (come suggeriva lo stesso autore), che il romanzo ruota forse più attorno a Naphta che al pallido protagonista Hans Castorp. Da che appare Naphta, muta l’inerzia de La Montagna Incantata: gli avvenimenti si accavallano più pressanti, il tempo stesso accelera, finendo per comprimere anni interi di vita monotona al sanatorio di Davos in circa un centinaio di pagine, forse anche meno. Sotto quest’aspetto, essere soprannominati Naphta è senz’altro un complimento.

Leo Naphta nasce da famiglia ebraica, e sviluppa dal padre macellaio una passione duplice – tanto per la sanguinarietà del culto religioso (ben simboleggiata dalla macellazione kosher, che fa morire l’animale dissanguato prima di procedere al taglio) quanto per la rigida osservanza delle regole più minuziose. Col tempo, Naphta trova la più vera incarnazione delle sue passioni nel cattolicesimo e, più precisamente, nella sequela dei Gesuiti, dai quali viene educato secondo i principii di Sant’Ignazio. Ragionatore capzioso, esaminatore inflessibile, Naphta è ossessionato dalla morte, nemico del progresso, ostile alla forma di governo repubblicana e – soprattutto – considera con malcelata commiserazione i progressisti che al suo tempo (come al mio) sovrabbondavano. Uno di loro, Lodovico Settembrini, è un vitalista carducciano che, stufo di sentirsi sempre provocare e sbertucciare, finisce per offendere Naphta il quale lo sfida a un duello con pistola, quale reazione leggermente spropositata. Settembrini è un pavido pacifista e, dopo aver cercato di dissuadere Naphta, all’atto del duello spara in aria; Naphta è una persona seria quindi, atteso che Settembrini l’ha volutamente mancato, estrae la pistola carica, se la punta alla tempia e spara.

Per fortuna frequento quasi esclusivamente persone intelligenti, ma poche di loro hanno letto davvero La Montagna Incantata (e quasi nessuno due volte): così il soprannome è stato dimenticato con alquanta rapidità.

2 commenti:

  1. Dalla droga sintetica al terrorismo sintetico, il passo è assai breve. Come la droga divide, spezza, l’interezza dell’Io, così il terrorismo frantuma la società in fraglie non più componibili.
    Cosa voleva dire a questo proposito Thomas Mann con: «un pathos erotico-politico sul modello di certi antichi amori maschili ha formato il sostrato di singoli atti terroristici dei giorni nostri»?
    E perché fa dire a Naphta, uno dei principali attori de La montagna incantata: «Non liberazione e sviluppo dell’io sono il segreto e l’esigenza della nostra epoca. Ciò di cui essa ha bisogno, ciò che brama, ciò che riuscirà a procurasi è… il terrore»?
    Come mai Mann, come ha dimostrato felicemente il teorico eterodosso del marxismo Yvon Bourdet, ha affibbiato alla detestata figura di Naphta – «prototipo del nazista […] il segno della tenebre […] rappresentante della concezione reazionaria fascista, delle idee antidemocratiche» – le sembianze e le fattezze di György Luckács, il “gesuita della rivoluzione”?
    Forse lo scopo era accennare ad una fattiva indifferenza tra pensiero di destra e pensiero di sinistra, frutto entrambi di una stessa alchimia del mago di turno?
    Bourdet non si esprime più oltre a quanto fa notare ma per lui è certo che «Naphta è il ritratto essenziale e altamente rappresentativo del militante leninista».

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  2. E chi meglio dei maghi riesce ad evocare certi stati d’animo?
    Infatti nell’èntourage della Scuola di Francoforte, vera e propria fabbrica di stati d’animo, vi era un archetipo - un padre putativo - che ha gettato la sua ombra lunga ben oltre il suo tempo.
    Il suo nome è Thomas Mann, il Mago.
    «Mago fu l’appellativo dato a Thomas dai suoi figli».

    Si può dire che Mann e la sua rete di maghi, la sua famiglia, costituì de facto l’archetipo entro un’apparente vernice borghese, di tutte le caratterizzazioni centripete del ’68.
    Non per niente Mann esprimeva ad Adorno la propria gratitudine per il suo aiuto a proposito del romanzo il Doktor Faustus.
    Incesto, pederastia, droga, necrofilia, suicidio, lesbismo e via di seguito.
    Ma sentiamo Mann stesso: «La cultura può comprendere l’oracolo, la magia, la pederastia, il cannibalismo, culti orgiastici, inquisizione, autodafé, ballo di S. Vito, processi di streghe, fiorir di venefici e delle più varie atrocità».
    Mann incarnò alla perfezione l’aforisma nietzschiano che recitava così: «Io vi dico: bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante. Io vi dico. Voi avete ancora del caos dentro di voi».
    Sia detto per inciso. Una terribile comunanza lega Nietzsche, Mann e Foucault.
    E Foucault stesso ad Adorno. Foucault riconobbe delle “convergenze parallele” tra il suo mondo delle cose incentrato sull’anamnesi dei provvedimenti sociali restrittivi e quello che Adorno definiva “mondo amministrato”:

    «E così crede Zarathustra che la sua predica sia intesa: se c’è orrore, c’è anche bellezza, il mistero rivelato nella Nascita della Tragedia. Ora, a guisa d’artista, ha scoperto davanti agli uomini il suo ideale nudo – guardatelo, adoratelo, seguitelo!
    Quando, nel 1887, Nietzsche torna a dedicarsi al periodo aureo della cultura greca, quel vertice mai più raggiunto dall’umanità, pone finalmente in primo piano la bellezza maschile: il grande stile ed il nudo sono per lui tutt’uno. Dove il nudo trionfa presso i Greci, è vicino anche il grande stile, che rappresenta l’uomo intero […].
    Di entrambi Nietzsche ha una comprensione istintiva: “N.B. Sotto l’aspetto psicologico io ho due sensi: primo, il senso per il nudo, indi: la volontà del grande stile.
    E questa volontà di “semplificazione, rafforzamento, visibilità della felicità” ha il “coraggio della nudità psicologica”. Questo “render visibile la felicità al pari della nudità”, dettagliatamente espresso, è una conseguenza della volontà del terribile […]».

    Ed infatti il terribile accadrà davvero.

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