mercoledì 20 agosto 2008

Un romanzo erotico, anzi un saggio libertino

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il libro di Étienne Liebig sarebbe stato senz’altro migliore se fosse stato più romanzo e meno saggio. A ben pensare la storia di Étienne, omonimo dell’autore, che se ne va a spasso (ma più spesso in corriera) lungo il Cammino di Santiago per attaccar bottone con le più disparate pellegrine cattoliche, nonché per farci l’amore in luoghi di fortuna, poteva funzionare per ottenere una briosa sequela di scene erotiche più o meno satiriche e più o meno paradossali. Il libro si sarebbe così collocato nel novero dei pruriginosi cataloghi narrativi in cui la Francia è sempre stata maestra (si pensi all’enciclopedico Sade o al più lieve Pierre Louÿs), sarebbe stato letto con un misto di curiosità e simpatia, e magari l’autore avrebbe meglio raggiunto il suo intento anticattolico: coprendolo, non dichiarandosi, procedendo nascosto.

Anche la trovata del manuale – scanzonato, goliardico e falsamente esaustivo – avrebbe avuto una buona riuscita sul materiale che Liebig accumula nel corso dei suoi dieci giorni di cammino interrotto: non a caso la parte più godibile del libro, in fin dei conti, è il prontuario su dove sedurre la cattolica, cammino a parte. Peccato che duri solo quattro pagine su duecento e più. Si fosse esteso a tutto il resto del libro, disegnando mappe di luoghi più o meno sacri in cui trovare diverse tipologie di cattoliche più o meno lascive, avrebbe sicuramente colto nel segno e – con ogni probabilità – avrebbe continuato a vendere per qualche decennio, grazie a debiti aggiornamenti.

Invece il libro di Liebig pende volentieri verso il saggio, e questo lo rovina irrimediabilmente. Innanzitutto il protagonista e l’autore non sono solo omonimi ma dichiaratamente la stessa persona, e l’autore/protagonista esordisce con un sermoncino contro la “forma di pensiero totalitaria che rende gli uomini schiavi”. Questa schiavitù è il Cattolicesimo, spiega, perché rende palese “che l’Uomo e la Donna sono inferiori per Natura”; ne consegue che lui stesso, seducendo “fanatiche religiose” su e giù per i Pirenei, provvederà a ristabilire la superiorità assoluta dell’uomo e della donna facendo “trionfare la Ragione”.

Ora, se un libro del genere fosse stato scritto nel secolo in cui avrebbe dovuto essere scritto, ossia il Settecento, i contemporanei l’avrebbero giudicato per quello che è, ossia un’opera di retroguardia libertina, un po’ superficiale e un po’ ottusa, che ripete concetti ritriti nella speranza di farli apparire elaborazioni originali. Per quanto il titolo sia promettente, le argomentazioni di Liebig sono più grossolane di quelle degli ultimi stanchi epigoni del barone d’Holbach, e la sua tematizzazione del sesso all’interno di un più generale contenitore filosofico ha solo da perdere in confronto ai grandi pornografi del secolo XVIII. Dettaglio infine non trascurabile, col suo culto (orgiastico) della Dea Ragione Liebig sembra essersi dimenticato sia che la Rivoluzione Francese è finita, sia com’è finita.

Liebig è impreciso: ora si dichiara ateo, ora agnostico, ora meramente diabolico. Liebig è confuso: ritiene che la lussuria sia un “peccato mortale” mentre è notoriamente un peccato capitale. Liebig è poco informato: sostiene che “dopo duemila anni, il primo bersaglio della Chiesa è la sessualità”; dimenticando non solo che i precetti evangelici sul sesso sono una percentuale irrisoria, ma anche che perfino l’arcigno San Paolo relegava la morale sessuale nelle faccende di secondo piano (con un certo indifferentismo: in 1Corinzi 7,38 si lascia sfuggire che “chi sposa la sua vergine fa bene, chi non la sposa fa meglio”), e che dopo duemila anni l’edizione corrente del Catechismo dedica alla vita sessuale la bellezza di quindici pagine su settecentocinquanta. Liebig gioca sporco: poco dopo essersi staccato soddisfatto dalla pelle di una pellegrina, conclude sillogisticamente di non essere sorpreso che di conseguenza la Chiesa difenda i preti pedofili.

La cosa peggiore è che Liebig, come tutti i libertini irreligiosi, è un moralista. Il sospetto serpeggia per varie pagine e vari amplessi (pochini per la verità) e si palesa lì dove una cattolica conservatrice, già sedotta, propone a Étienne di unire ai loro giochi due sue amiche. Ebbene, qui Liebig – sempre senza alcuna distinzione fra autore e narratore – prima si scandalizza e poi si rifiuta perché sdegnato dall’ipocrisia delle pellegrine.

Liebig, infatti, non viene nemmeno sfiorato dall’idea che una cattolica possa peccare deliberatamente. Questo denota un certo ingenuo gallismo nel seduttore, che crede di esser lui a convincere le donne quando invece è solo bravo a trovarsi al posto giusto nell’attimo giusto, e soprattutto una sconfinata miseria teologica e umana, che non concede altrui la possibilità di sbagliare e di venir meno ai propri propositi. Fosse stato un coerente materialista, Liebig sarebbe giunto al (ragionevole) eccesso di sostenere che il cattolico gode due volte del suo peccato, quando lo commette e quando lo confessa; dal punto di vista del libertino, inoltre, è incontestabile che procuri maggior piacere compiere un atto vietato (ossia il peccato per il cattolico) che un atto consentito e ritenuto banalmente fisiologico (come il sesso per l’irreligioso). Leibig non se ne accorge.

Liebig arriva in ritardo di circa duecentocinquant’anni, dunque, e non contento lascia cadere spropositi come l’idea di una maggior tolleranza sessuale nell’Islam – è invece plausibile che, se si fosse lasciato andare a rapporti adulterini fra le pellegrine verso La Mecca, come minimo non avrebbe più avuto mani per scrivere il libro. Fosse stato un libertino professionista, Liebig avrebbe considerato tutto questo e avrebbe composto un grazioso romanzo erotico senza nessun proclama esplicito contro il Cattolicesimo; invece lui, da libertino dilettante, chiacchiera chiacchiera e poi finisce per innamorarsi come l’ultimo degli adolescenti.

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