giovedì 27 novembre 2008

Tutti i libri che non ho letto (8)

(Gurrado per Books Brothers)

Per me, la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca!
-seguono novantadue minuti di applausi-
(Paolo Villaggio)

Tutti i libri noiosi sono simili fra loro, ogni libro russo è noioso a modo suo.

Ogni anno con l’autunno arriva la pioggia, arriva la nebbia e arriva il tempo di migrare. Impacchetto i bagagli, consegno l’estate al suo tramonto, separo l’utile dal dilettevole così come durante la creazione Dio, tanto per cominciare, separò le acque superiori da quelle inferiori (operazione di dubbia concretezza ma di sicuro impatto). Il viaggio è lungo, lo spazio è poco, quindi è meglio selezionare con ragionevolezza e immaginare nel dettaglio i prossimi mesi di vita così da non dimenticare nulla di fondamentale, senza per questo aggiungere niente di superfluo. Il computer portatile è piuttosto utile, quindi è meglio infilarlo in borsa. La raccolta completa di dvd su trent’anni di campionato, un dvd per anno, potrebbe risultare ridondante quindi è meglio lasciarla dov’è. L’ombrello, a Pavia, potrebbe servire di tanto in tanto: dentro. Il travestimento da fiore impollinato, che più di vent’anni fa ha segnato il mio esordio sul palcoscenico nonché il mio simultaneo e precoce addio al mondo dello spettacolo, non troverebbe adeguato séguito nel settore al quale mi pregio di appartenere: fuori. Dentro la Bibbia, qualche film di Woody Allen, magari anche un paio di scarpe di ricambio. Fuori il Martirologio Romano, il videoregistratore, magari anche la foca in porcellana (a grandezza naturale) che campeggia nel soggiorno. Ogni anno con l’autunno arriva il tempo di migrare e arriva il gesto furtivo col quale all’ultimo istante riapro la borsa per lasciarvi cadere Anna Karenina.

Si tratta di un’Anna Karenina d’antan, finita di stampare il 6 marzo 1965, prima uscita assoluta della collana “Garzanti per tutti – i grandi libri”. 823 pagine, 850 lire. A un occhio analfabeta la distribuzione della copertina potrebbe apparire spiazzante, ove la protagonista viene chiamata per nome e cognome in alto e quindi potrebbe benissimo essere l’autrice; mentre Tolstoj, sistemato puro e semplice al centro della copertina, potrebbe altrettanto bene passare per titolo enigmatico (chissà, magari è una biografia). Una volta ristabilito l’ordine fra autore e titolo, e di conseguenza la netta separazione fra realtà (Lev) e fantasia (Anna), l’elemento principale che emerge dalla copertina è un treno nella neve (di Claude Monet, 1875) che avanza minacciosissimo verso il lettore, terrorizzandolo e portando con sé la rappresentazione grafica del finale che tutti conoscono, perfino io.

Quanto all’oggetto-libro, forma pura e niente contenuto, lo conosco alla perfezione perché dal 1998 ogni autunno lo infilo in borsa e parto; arrivo e lo sistemo nello scaffaletto provvisorio che mi serve a tirare avanti fino a Natale, sistemandolo fra la S e la U in ordine di autore; poi pian pianino i giorni passano, l’autunno degenera, io invecchio e affronto lo scaffale leggendo tutti gli altri libri a esclusione di Anna Karenina. Eppure so che ha un odore ottimo, di carta saggiamente invecchiata: potrei annusarlo per ore e alla fin fine è l’unica cosa che faccio, non riuscendo mai a trovare altri motivi per aprirlo.

Anna Karenina è la punta di un iceberg contro il quale mi schianto pervicacemente e che m’impedisce da tempo immemorabile di riuscire a leggere i grandi romanzi russi. Ho esordito promettente a sedici anni con Dostoevskij, leggendo Delitto e Castigo e traendone una mirabile relazione per la professoressa d’Italiano al Liceo; poi mi sono detto: “Mai più”. L’Idiota, I Demoni, I Fratelli Karamazov sono rimasti ben rinchiusi nel baule delle pie intenzioni. Ho arrancato vedendo che tutti dico tutti i miei compagni di classe, anche quelli che usavano i libri solo per pareggiare le zampe di tavoli zoppi, si sono appassionati al genere e hanno letto un Dostoevskij dietro l’altro, diventando altrettanti potenziali protagonisti di Matchpoint (un giorno sarà interessante abbozzare una statistica su quanti maniaci di Dostoevskij abbiano prima o poi ammazzato una vecchietta). E non più tardi di domenica scorsa, venendomi esplicitamente chiesto un parere tecnico sullo stile discontinuo e spezzettato della prosa di Dostoevskij, tutto ciò che son stato capace di rispondere suonava: “Be’, ci credo, era epilettico”.

Achille Campanile non aveva tutti i torti quando sosteneva che la peculiarità dei romanzi russi è che non si capisca mai bene cosa stia succedendo e a chi. Le perifrasi sono interminabili, le descrizioni minuziose di porcherie infime sovrabbondano ma vengono misteriosamente troncate in ellissi che oscurano del tutto il dénouement lasciando alla notevole buona volontà del lettore (la mia è molto poca e per niente buona) il compito di capire cos’è successo alla trama, chi ha sparato a chi altro, chi ha sposato cosa, perché il pope non è zar, il tutto mentre il fuoco narrativo si sposta bellamente sulla dettagliata cronaca, per sette od otto pagine, dell’appassimento di un nasturzio o del mutamento d’espressione di un personaggio secondario mai apparso prima e che mai più ritornerà. Questo in fin dei conti è stato il segreto del successo storico dei romanzi russi; nell’impossibilità di ammettere generalmente che nessuno ha capito niente, tutti li hanno trovati unanimemente meravigliosi, inimitabili e (per fortuna) irripetibili.

Senza contare che, con la scusa del romanzo polifonico, gli autori russi si sono sentiti in dovere di chiamare i personaggi con una pletora di nomi ciascuno, ora Darija ora Dolly, ora Dunja ora Dunečka, ora Ekaterìna ora Katja ora Kitty, ora Tatjàna ora Tanja ora Tančuročka nientedimeno, senza premurarsi di spiegare come si tratti della medesima persona una e trina, così da fugare ogni residuo dubbio riguardo alla possibilità di capire di chi mai stiano parlando man mano che le pagine si susseguono – senza che mai si arrivi al dunque, poiché i romanzi russi hanno l’insondabile caratteristica che alla fine di ogni giorno il numero delle pagine che mancano alla fine è superiore a quello del giorno precedente. Ora io capisco uno che, come me, legge più per professione che per diletto; ma come può impelagarsi in questo vespaio, e poi dichiarare di esserne uscita indenne e soddisfatta, una persona normale che legge solo ogni sera a letto, prima di addormentarsi?

Si potrebbe obiettare che tutti i romanzi russi, anche se non è sera e anche se non si è a letto, vengono inevitabilmente letti prima di addormentarsi. Io da parte mia ho azzardato numerosi tentativi. Sospettando che Dostoevskij fosse troppo lungo, ho letto Padri e figli di Turgenev che è più sintetico; l’ho letto in treno da Pavia a Desenzano e mi ha fatto capire a cosa si riferisce la frase “in caso di necessità, rompere il vetro per uscire” scritta su ogni finestrino. Forse Turgenev era troppo filosofico, allora ho letto La Madre di Gorkij, il quale è un vero talento sprecato poiché sarebbe stato un eccellente analfabeta. Forse Gorkij era troppo impegnato, allora ho letto Il Dono di Nabokov il quale, spaventato egli stesso da come scriveva in Russo, s’è ravveduto e poco dopo ha iniziato a scrivere in Inglese. Forse Nabokov era troppo ingenuo all’epoca, quindi ho trattenuto il respiro e in apnea mi sono dato al capolavoro dei capolavori, il russo dei russi, il romanzo dei romanzi, quello che a Napoli verrebbe definito il fatt’apposta. Come Woody Allen, di Guerra e Pace ricordo soltanto che è ambientato in Russia.

Chissà, magari è un problema tecnico-linguistico. Dev’essere semioticamente molto difficile scrivere bene in cirillico, con tutti quei rettangolini e le N arrovesciate. Ma di Guerra e Pace ricordo altresì che è scritto in Francese, lingua che all’epoca non conoscevo (mentre oggidì fingo con classe), nonostante che qua e là compaiano degli inserti in Russo, fortunatamente tradotti nell’edizione italiana. Per certi versi ho capito Guerra e Pace solo qualche mese fa, quando ho letto una raccolta di brevi saggi morali di Tolstoj (Perché la gente si droga?, uscito quest’anno per Mondadori). Il problema di Tolstoj è che lui fa queste magnifiche tirate sulla Storia, sulla Religione, sull’Amore, sulla Politica, su Tutta Una Serie Di Cose Con La Maiuscola. Pagine e pagine di meraviglioso vibrato tenute assieme dalla corda sottile del virtuosismo. Poi, d’improvviso, si ricorda di star scrivendo un romanzo e, per contentare i suoi appassionati lettori, si tace e ricomincia a raccontare la trama: Anna balla con Vronskij, Bezuchov si fa massone, Padre Sergij si mozza un dito e così via. Nessuno come Tolstoj pare dar ragione al ritornello di Mattia Pascal: maledetto sia Copernico, il quale ha rivoluzionato l’universo impedendoci di preoccuparci seriamente di Teresina che si moriva di fame e di Lucrezia che spasimava d’amore.

Tutte queste interruzioni fanno male alla sua prosa, vanno a detrimento del complesso ragionamento che sottostà a ogni suo romanzo e che viene poi disperso nella trama e nel fatterello. Ne sappiamo qualcosa noi teledipendenti, con tutta la pubblicità ben fatta sovente interrotta da film noiosi e programmi di pessimo livello. Nei saggi invece, libero dai legacci della trama, Tolstoj galoppa felice e sragiona con pieno diletto, appassionandosi in dettagliate istruzioni su come capire il Vangelo armati solamente di lapis rosso e blu, o sulla motivazione preclara per cui tutti i soldati debbano invece fare i contadini. In tal caso si contiene e dà il meglio di sé, spiegando perché invece di raccontare come, senza avere l’esigenza di inventare un disertore fittizio che scriva allo zar per spiegargli di abbracciare anch’egli la vita dei campi, né un fattore barbuto che sottolinei in blu le frasi di Gesù che capisce al volo e in rosso i commenti degli evangelisti che spiegano le parabole più oscure. Nessuno come Tolstoj pare dar ragione alla cantilena di Virginia Woolf: non pensare alla trama, la trama non conta.

La stessa vita vissuta da Tolstoj, solitamente relegata in poche pagine a carattere minuto prima delle faccende private di Oblonskij e del principe Andrej, è ben più interessante delle vite altrui che è riuscito a inventare, con l’infanzia senza madre, lo scioperatismo universitario, il matrimonio con la figlia di un’ex innamorata (vecchio porco), la magnifica utopia di Jasnaja Poljana, la conversione tormentatissima e lucida, la fuga dalla sua stessa vita che lo conduce inevitabilmente a morire – in una stazione secondo i gusti peculiari dei personaggi suoi. Per questo, eccezionalmente, il miglior romanzo russo non è quello non letto; il miglior romanzo russo è quello mai scritto.

Ieri sera ho iniziato Anna Karenina, a letto, prima di addormentarmi.


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