giovedì 23 aprile 2009

Scribi e farisei: febbraio 2009

(Gurrado per Books Brothers)

Libri letti (10): Viaggio in Italia, di Guido Piovene; Exit Ghost, di Philip Roth; Friction, di Joe Stretch; Storie di Pallone e Bicicletta, di Carlo Martinelli; La Donna e il Burattino, di Pierre Louÿs; Un Fuoriclasse Vero, di Sergej Samsonov; Anatomy of Criticism, di Northrop Frye; La Verità sul Caso Savolta, di Eduardo Mendoza; Il Libraio che Imbrogliò l’Inghilterra, di Roald Dahl; Vita Avventure e Morte di Don Giovanni, di Giovanni Macchia.

Libri acquistati (7): Friction, di Joe Stretch (Feltrinelli); La Donna e il Burattino, di Pierre Louÿs (Sonzogno); La Verità sul Caso Savolta, di Eduardo Mendoza (Feltrinelli); Manifesti Futuristi, a cura di Guido Davico Bonino (Rizzoli); Gli Anni, di Virginia Woolf (Mondadori); Don Giovanni, di Molière (Marsilio); Il Mistero della Cripta Stregata, di Eduardo Mendoza (Feltrinelli).

Un’amica sostiene coloritamente che gli uomini, intesi non genericamente come esseri umani ma specificatamente come maschi, tendano a comprare certe determinate automobili per sopperire a determinate altre insufficienze. Mi contengo perché so che ci sono delle signorine che leggono, e quindi ricorro a una raffinata ellissi: l’amica in questione era sicura che sarebbe stata più contenta di frequentare, al dunque, il possessore di una Smart piuttosto che di un SUV lungo dieci metri. Non è questione di parcheggio, intelligenti pauca.

Secondo me lo stesso accade coi libri, nei tre momenti che regolano la scansione del rapporto con essi: l’acquisto, il possesso e la lettura. Possedere più libri di quanti si sia in grado di leggere, recitava grossomodo una scritta cubitale alla Feltrinelli di Bari, significa farsi carico di un po’ d’infinito. Poiché la scritta cubitale era posta (o lo è tuttora, chi lo sa) nei pressi della cassa, è presumibile che intendesse spingere all’acquisto compulsivo più che alla meditazione trascendentale. Cosa legittima, peraltro, ma che mi fa sospettare vagamente come chi compri più libri di quanti ne possa umanamente leggere stia in qualche modo bluffando contro la finitezza dell’esistenza. Ragion per cui quando, vagliandomi di mese in mese, mi accorgo di un picco nell’acquisto dei libri ne deduco di star avendo problemi di fronte all’atto pratico della lettura, spiccia e quotidiana.

Il mio ultimo (definitivamente, per ora) mese a Pavia è stato caratterizzato da regolari e dispendiose visite in libreria, nonché da pervicaci cozzi contro ostacoli editoriali apparentemente insormontabili. Febbraio è stato dominato dal Viaggio in Italia di Guido Piovene – un libro che, letto in treno, fa tutto un altro effetto rispetto a quando lo si legge in poltrona o coricati, ottocento e rotte pagine che assommano in sé una fatica da impresa ciclistica, interminabile fuga dalla propria ombra, lotta del tempo contro lo spazio. Partiti da Bolzano, quando si arriva a Roma si ha il fiatone; e non perché il libro sia sgradevole, tutt’altro, ma perché è una di quelle letture che porta con sé un continuo volgersi indietro, alle città (pure troppe) visitate o vissute nei miei anni di nomadismo intellettuale, e un parallelo scrutare avanti, cullandosi sui nomi misteriosi come il piccolo Proust quando (è un esempio che faccio continuamente, se mi conoscete da anni avete tutto il diritto di dichiararvi annoiati) passava i pomeriggi a leggere gli orari ferroviari.

E all’altro capo del mese, lettura assolutamente contraria, l’impenetrabile inglese di Northrop Frye, con l’Anatomia della critica alla quale mi sono avvicinato istintivamente per un capriccio d’affezione: scovandone la traduzione Einaudi sugli scaffali di un amico, l’ho aperta a caso e m’è balzato l’occhio su una citazione da Jubilate Agno di Christopher Smart. Era Christopher Smart un signore che, in pieno XVIII secolo, per passare il tempo si mise a fare l’elenco completo dei motivi per cui bisognava porgere le proprie congratulazioni allo Spirito Santo, dividendole in macroinsiemi e sottogruppi che avrebbero fatto la gioia del peggior Wittgenstein. Il passo più celebre e antologizzato è dedicato al suo gatto (Jeoffry), e queste sono le motivazioni della lode: “Giacché è il servitore del vivente Iddio, (…) giacché gira intorno a sé stesso sette volte con elegante sveltezza, (…) giacché si lava, giacché si rotola dopo essersi lavato, (…) giacché si strofina a uno stipite”, e così via (né va sottovalutato: “giacché se incontrerà una gatta la bacerà con dolcezza).

Solitamente le letterature inglesi antologizzano questo passo a riprova della follia di Smart – e della mia appresso a lui, nel non aver considerato che nel capitale saggio di Northrop Frye mezza paginetta è dedicata al padrone del gatto Jeoffry e le restanti quattrocentocinquanta a numerosi altri argomenti che non avevo preventivato. Così è andata a finire che, affascinato oltremodo dalla notomizzazione della critica letteraria, sbattessi voluttuosamente contro un muro che rallentava vistosamente i miei consueti ritmi di lettura: meno di cinquanta pagine in tre giorni, durante i quali procedevo come i celebri tizi che s’imbarcarono davanti al campanile di San Nicola e remarono remarono remarono per giorni e giorni finché giunsero stremati non in Turchia, non in Croazia, non in Grecia, ma a Mola di Bari.

E così febbraio, il mese più breve di tutti (e perciò angosciante, perché all’inizio sembra appena passato Capodanno e poco dopo è già marzo), è stato costretto fra questi due giganteschi gendarmi, Guido Piovene e Northrop Frye; in compenso sono riuscito nell’impresa di comprare mediamente un libro ogni quattro giorni – leggendone uno ogni tre – pensando di guadagnarmi una scappatoia verso l’infinito e invece facendo come quello che, appena si fidanza, inizia a fare l’occhiolino a tutte le passanti (o, come il gatto Jeoffry, si ripromette di baciarle tutte con dolcezza).

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