venerdì 22 maggio 2009

A destra fino a dove?

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Uno dei più conclamati difetti della sinistra italiana è quello di aver sempre cercato oltreconfine dei modelli di riferimento, il più delle volte assecondando l’andazzo. Per concentrarci solo sull’ultima dozzina d’anni: la vittoria del New Labour in Inghilterra nel 1997, che avrebbe garantito a Tony Blair tre mandati consecutivi e avrebbe cambiato per sempre la maniera di far politica oltremanica, aveva fatto sentire l’esigenza di riconsiderare le linee del primo governo Prodi, inseguendo forse troppo ottimisticamente il sogno di un Ulivo mondiale; la vittoria dello Psoe in Spagna nel 2004, pochi giorni dopo l’attentato di Atocha, aveva portato l’opposizione su posizioni oltranziste in materia di politica scientifica e religiosa; adesso è il turno di Barack Obama, ma presto passerà di moda anche lui. La girandola di punti di riferimento esterni ha quasi inevitabilmente portato con sé uno svuotamento sul fronte interno e una crisi di identità che, almeno a giudicare dai risultati delle ultime elezioni politiche, può essere riassunta così: chi sosteneva la sinistra italiana vent’anni fa, quando Blair non si sapeva nemmeno chi fosse, oggi nella migliore delle ipotesi la vota senza convinzione, in subordine diserta le urne o, caso estremo, vota per la Lega. Controprova: Diliberto e Ferrero alle elezioni europee si confedereranno sotto un’enorme falce e martello, allo scopo di frenare l’emorragia identitaria prima che sia troppo tardi. Se non lo è già.

Allo stesso modo deve procedere coi piedi di piombo anche l’altra metà dell’emiciclo. L’uscita de La destra nuova – che raccoglie nove saggi sui modelli politici francesi, britannici e svedesi inaugurando la collaborazione fra la fondazione finiana FareFuturo e l’editore Marsilio – è stata quasi contemporanea al duplice congresso che ha portato, nel giro di due weekend, allo scioglimento di An e alla nascita del Pdl. Pare però che si sia trattato di una fortuita coincidenza. Gli stessi curatori Campi e Mellone lo spiegano nell’introduzione, specificando come ai loro due libri di analisi berlusconiana (L’ombra lunga di Napoleone, Campi; Cara Bombo, Mellone) farà seguito un terzo esplicitamente focalizzato sulla fusione di An e Forza Italia con conseguente ricerca, necessariamente travagliata, di un’identità comune dall’interno. L’analisi estera de La destra nuova si colloca dunque su un piano parallelo e non intende fornire modelli precotti per il neonato Pdl; si limita a presentare i dati di fatto relativi a due esperienze di governo diversissime fra loro (Francia e Svezia) e una di opposizione pressoché trionfale ma potenzialmente pericolosissima (Gran Bretagna). Per usare i termini di Immanuel Kant, non parlano del “dover essere” ma del “come è”.

L’esperienza più interessante per noialtri è senz’altro quella francese. Oltre alla vicinanza geografica, Francia e Italia hanno una classe intellettuale tradizionalmente progressista e una classe media che si scopre sempre meno lassista. Inoltre, in entrambi i casi la compagine di destra arriva da recenti e consistenti esperienze di governo: l’era Chirac per Sarkozy e Berlusconi I, II e III per Berlusconi IV. In entrambi i casi i due leader hanno vinto le elezioni puntando su un personalismo esasperato (ma, è innegabile, può puntare sul personalismo solo chi ha personalità) e soprattutto proponendosi come novità e punti di svolta; cosa non completamente vera né per Sarkozy, che era ministro sotto Chirac, né per Berlusconi, già reduce da esperienze di governo in alcuni casi piuttosto logoranti. Le ragioni del successo di Berlusconi sono piuttosto evidenti. Le 40 pagine che La destra nuova dedica alla Francia servono a penetrare nel dettaglio dell’operazione neo-neo-gollista di Sarkozy, e soprattutto a capire come questi sia riuscito nel vaste programme a voltare in suo favore, uno a uno, tutti i suoi punti di debolezza.

La parte più consistente del volumetto è dedicata alla Gran Bretagna ed è magistrale. In particolare è utile il primo dei tre saggi, di Luigi Di Gregorio, che serve a sfatare numerosi luoghi comuni sulla politica britannica. Alcune scoperte sono scioccanti. Credete che Londra sia la capitale del bipartitismo? Balle, in Parlamento sono rappresentati tredici partiti, ivi inclusi i Democratic Unionists, Sinn Féin, Plaid Cymru e Kidderminster Hospital (quanto meno non sono stati eletti membri del Monster Rave Meeting Party). In Italia sono la metà – non avrei mai pensato di poterlo scrivere. Sapete qual è il partito che ha il miglior trend? I Liberal Democrats, se non che sono così mal distribuiti sul territorio che col sistema maggioritario guadagnano un seggio ogni centomila voti. Alle elezioni vinte dai Laburisti, quale è stato il partito più votato in Inghilterra? I Conservatori. I sondaggi che danno David Cameron in netto vantaggio percentuale su Gordon Brown sono rassicuranti? Macchè, per ottenere più seggi i Conservatori devono sperare in circostanze piuttosto inusuali.

La Svezia, della quale abitualmente si sente parlare molto poco, sta vivendo un momento storico. Universalmente riconosciuta come socialdemocrazia che funziona (è la patria dei sussidi di disoccupazione), s’è ritrovata invischiata in fatti di corruzione e una generale sfiducia nei confronti del sistema assistenziale (i sussidi di disoccupazione alla lunga non funzionano più). Pur confermando i Socialdemocratici come primo partito, le elezioni del 2006 hanno visto un netto spostamento di voti da questi ai Nuovi Moderati di Fredrik Reinfeldt, che sono così stati in grado di formare un governo di coalizione anti-socialdemocratica. Pochi giorni dopo il ministro della Cultura s’è dovuto dimettere per non aver pagato il canone della tv pubblica, ma a quanto pare il governo regge forte di un vasto consenso popolare. È infatti accaduto, spiega nel suo saggio Göran von Sydow, che i Moderati di Reinfeldt sono riusciti a caratterizzarsi come Nuovi sfondando in un fasce d’elettorato stabilmente presidiate dalla sinistra e conquistando se non il cuore almeno il cervello di lavoratori stanchi di un sistema corrotto e di una socialdemocrazia azzoppata.

Cosa insegna questo pregevole libretto, a voler leggerlo fra le righe? Innanzitutto che ogni esperienza nazionale fa storia a sé, e che la globalizzazione del pensiero politico è ancora molto più in là di quello che si crede. Basta mezz’ora in Inghilterra per capire che un elettore dei Conservatori non voterebbe Berlusconi e che un elettore di Berlusconi non saprebbe chi votare. Poi, che un vento di cambiamento sta spirando in tutti i partiti, quale che ne sia la collocazione geografica e politica: Campi & Mellone illustrano questo minimo comun denominatore nella “volontà di lasciarsi alle spalle quel culto sentimentale del passato e della tradizione, quell’enfasi retorica in materia di patriottismo e religione, quelle rigidità ideologiche e quei pregiudizi mentali in materia di immigrazione, diritti civili o politiche economiche”. Infine che non bisogna farsi prendere troppo la mano. Bisogna sempre tener presente la reazione di un anziano militante alla notizia che nei progetti di David Cameron c’era la definizione di un New Conservatism: “Se siamo Conservatori, come facciamo a essere nuovi?”.

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