domenica 3 maggio 2009

Mussolini, il caffè e l'Italiano in trasferta

(Gurrado per Quasi Rete)

“Non sarò l’uomo più simpatico del mondo ma il mio lavoro l’ho fatto, come, bah, come Mussolini” – una frase del genere non riuscirà mai a venire infilata in qualche fiction o situation comedy italiana e invece costituisce, a mio modesto avviso, il punto più alto raggiunto dalla produzione televisiva britannica nella settimana passata. L’ha pronunziata un attore comico di cui non ricordo il nome, ma che qui va per la maggiore, interpretando il personaggio di un dentista verso la fine della scorsa puntata di My Family, la versione locale di Casa Vianello: giovedì scorso poco prima delle venti e trenta su BBC1. In Italia sarebbero seguite, come minimo, indignazione popolare, sommosse capeggiate da Pecoraro Scanio (se esiste ancora, tenetemi informato), interrogazioni parlamentari, censura morale dal Colle, revisionismo creativo da ambienti vicini a Palazzo Chigi e nuovo benché non richiesto giuramento sulla Costituzione da parte di Dario Franceschini (se esiste ancora pure lui, tenetemi informato).

Ma in Italia siamo abituati ad avere le catene ai piedi e un’arancia in bocca, facendoci correggere da un’autorità irraggiungibile, invisibile, forse anche inesistente se non dentro di noi; un po’ come il correttore automatico di Word che nel solo paragrafo precedente ha trasformato “Mussolini” in “mussolina”, “Pecoraro” in “Pecoraio”, “Vianello” in “Vinello” e se solo avesse potuto avrebbe sostituito “censura morale” con “cesura molare”. Viviamo e scriviamo col pilota automatico: l’altra sera stavo leggendo L’Italiano di Sebastiano Vassalli e persino le ultime pagine del volumetto, le uniche decenti, dedicate a tale signor B. che s’è arricchito grazie all’intervento della M., sono talmente pervase da una gimcana di distinguo (e alcuni dicono che le sue ricchezze siano di origine dubbia, e però è il mio editore, e però ne parlo male, e però non abbastanza) da far dubitare della riuscita dell’operazione.

Poniamo che la battuta con cui ho aperto avesse dovuto venire pronunziata in prima serata su Rai1; l’avesse scritta Vassalli sarebbe diventata: “Non sarò l’uomo più simpatico del mondo ma il mio lavoro l’ho fatto, come M.”. Dopo di che un capostruttura coscienzioso avrebbe deciso che non si può impunemente associare (in prima serata! su Rai1!) il concetto di Mussolini, benché evocato esclusivamente da un’iniziale, con il concetto di simpatia, benché evocata per reciso contrasto; quindi la battuta sarebbe diventata: “Non sarò l’uomo più, bah, del mondo, ma il mio lavoro l’ho fatto, come” – e qui l’audio viene sfumato per passare alla scena successiva. Ovviamente a questo punto sarebbe intervenuto il presidente della commissione di vigilanza Rai (se esiste ancora, tenetemi informato) per risolvere la questione dei sottintesi troppo politicizzati di questa scena, nella quale la battuta sarebbe stata con ogni probabilità ridotta a: “Il mio lavoro l’ho fatto”. Quest’esempio è sufficiente a spiegare perché le situation comedy in Inghilterra fanno ridere e in Italia fanno piangere.

Ora, la copia de L’Italiano che leggevo l’ho presa in prestito alla biblioteca di lingue straniere – l’edizione costava quattordici euri e mezzo, decisamente non valeva la pena di comprarlo, forse non valeva nemmeno la pena di pubblicarlo – e non avevo la minima intenzione di parlarne qui adesso, anzi in realtà per l’intera settimana ho covato tutt’altri progetti che sono stati rimandati d’urgenza a data da destinarsi ieri pomeriggio, a seguito di un incontro sconvolgente a tratti allucinante. Antefatto. Nella stessa biblioteca di lingue straniere, che il Signore la preservi, ero addirittura riuscito a trovare l’ultimissimo numero di Panorama che era perfino possibile prendere in prestito (in Italia è tuttora sorprendente l’idea di una biblioteca che dia in prestito i periodici in corso, già per i libri bisogna combattere). Non ho dunque resistito alla tentazione di arraffarlo e portarmelo da Blackwell’s, una grande libreria che c’è solo a Oxford e che contempla al secondo piano un angolo-bar dove una nota multinazionale britannica si vanta testualmente di fare un caffè buono quasi quanto quello che fanno a Milano. Dovete sapere che mentre gli Italiani amano sedersi a un tavolo con una birra per rilassarsi o fare due chiacchiere, mentre il caffè tendono a prenderlo in piedi di corsa al bancone, gli Inglesi prendono la (prima) birra in piedi di corsa al bancone, mentre quando bevono un caffè espresso passano ore e ore seduti al tavolino muniti di quotidiani, riviste, libri, laptop e iPod. Sono degli esibizionisti che vogliono far vedere di essere intelligenti (poi ditemi voi come si fa a leggere o peggio ancora scrivere fruttuosamente in mezzo al casino più smodato), ma io mi adeguo e dopo aver resistito all’impulso di risputare il single shot espresso nella tazzina ho preso a sfogliare compenetrato Panorama, trattenendomi venticinque minuti sull’editoriale di Giuliano Ferrara tanto per dare spettacolo alla signorina di fianco munita di laptop, pile di appunti manoscritti e libro di Andy Wharol in edizione economica. Lì l’ho incontrato, lì l’ho visto per la prima volta con piena consapevolezza.

Come se fosse sbucato dal volume di Sebastiano Vassalli – come se mi fossi dimenticato di richiuderlo, come se non l’avessi restituito immediatamente dopo averlo finito – l’Italiano era seduto a un tavolo piuttosto distante dal mio, ma non abbastanza da farmi ascoltare dettagliatamente ogni sua parola. D’altra parte il volume della sua voce era sufficiente a raggiungere senza problemi il settore dei libri usati, che si trova al quarto piano. Nutro il sospetto che dovesse essere famoso, almeno fino a un certo punto, non tanto perché la sua faccia mi sapeva di già visto, forse in qualche trasmissione à la Corrado Augias, quanto perché serbava l’atteggiamento di chi attende di essere riconosciuto da un momento all’altro, e man mano che i momenti passano senza che nessuno lo riconosca prende a parlare a voce sempre più alta volgendo attorno lo sguardo compiaciuto e preoccupato al contempo. Era accompagnato da una coppia di, presumo, ricercatori alla locale università, sicuramente appena trasferiti visto che la moglie poteva ancora ostentare una pettinatura decente, il cui principale problema era dover acquistare un televisore – e l’Italiano giù a pontificare che assolutamente dovevano prendere uno al plasma, e che forse a Oxford non si trovava e bisognava andare a Londra. Quando la femmina della coppia gli ha fatto notare che lì in centro c’è un centro commerciale che vende le tv al plasma addirittura, l’Italiano dapprima è parso sorpreso, quindi ha iniziato a passarsi con sussiego l’indice sul labbro mentre la giovine signora pettinata gli spiegava che detto centro commerciale era grossomodo attaccato a High Street, e poi ha ripetuto senza posa: “La conosco bene, High Street la conosco bene” – dandosi arie di chi a Oxford è a casa propria, senza considerare invece che High Street è la strada principale e quindi la conoscono bene perfino i turisti giapponesi che oggi sono a Oxford, domani a Firenze e dopodomani a Istanbul.

Ora, solo ora, mi viene il sospetto di chi potesse essere l’Italiano, che parlava di filosofia esprimendo sorprendenti pareri riguardo ad Aristotele, sosteneva che in Italia l’università è stata completamente rovinata e vantava come qualcuna, potrebbe essere sua figlia come la sua amante, vincesse borse all’estero a ripetizione, notificando quattro volte a volume progressivamente crescente che “dopo Oxford, ha vinto una fellowship in Australia”, e provate solo a immaginare con quanta passione pronunziasse la parola “fellowship”, ci si rotolava come una cotoletta nel pan grattato, salvo poi iniziare a chiedere al maschio della coppia se al bar c’era una ciambella perché i muffin gli piacevano molto ma mai quanto le ciambelle, ottenendo il risultato che leggendo l’editoriale di Giuliano Ferrara io potessi estrapolarne esclusivamente i tre concetti-chiave “plasma, Australia, ciambella”. Una mezz’idea sull’identità d’er ciambella me la sono fatta: è arrivata con calma stamattina dopo una notte per lo più insonne per motivi che, mi rincresce rivelarglielo se mi sta leggendo a casa sua, esulano dall’esistenza dell’Italiano misterioso. Mi sto trattenendo a viva forza dal controllare su Google Images se la faccia corrisponde al nome che m’è venuto in mente, per evitare che la mia impressione d’impatto venga edulcorata dalla sua fama. O eventualmente esacerbata.

Ieri sera invece guardavo le sintesi della Premier League e sentendo l’intervista a Gianfranco Zola non mi sono limitato a rammaricarmi che il mio Inglese fosse radicalmente migliore del suo: ho anche pensato cosa accadrebbe se calciatori e/o allenatori italiani andassero in giro per l’Inghilterra a vantarsi di star lavorando lì. Mi sono immaginato uno Zola spocchiosissimo, al bar con gli amici, che inizia a dire: “Io l’Old Trafford lo conosco bene”, oppure: “In Italia il calcio non vale più la pena di essere giocato”, o anche: “Il cheddar mi piace molto ma preferisco il pecorino”. Fortunatamente non accade; non solo perché Zola è un uomo umile e che senza lamentarsene ha raccolto forse meno di quanto ha seminato, ma piuttosto perché Zola usa i piedi e non la testa. Non è questione di statura. Quando si fa il calciatore, e dopo di che l’allenatore, dovunque si vada resta insindacabile la capacità universale di giudizio, basata su alcune costanti: la qualità del gioco espresso, l’affetto per la maglia, i risultati che si riesce a ottenere. Sbagliare un rigore o perdere 0-3 è una scoppola a qualsiasi latitudine, e non c’è verso di farlo passare per un mezzo pareggio solo perché è accaduto a Londra invece che a Oristano. Nella filosofia e più in generale nelle attività intellettuali il riscontro univoco è più raro, se non del tutto assente, ed ecco che il luogo dove si esercita diventa una discriminante. Ne consegue la necessità di vantarsene apertamente per dar lustro al proprio lavoro, davanti agli altri e a sé stessi. Io vedo nel mio essere finito all’estero piuttosto la punizione per non essere riuscito a trovare un lavoro decente in Italia, e ancora mi va bene che sia Oxford e non la legione straniera; in ogni modo non mi vanterei mai e poi mai a voce alta di essere nell’angolo bar al primo piano di Blackwell’s.

Anche perché gli Inglesi (sobri) sono notoriamente gente tranquilla ma da Blackwell’s ieri pomeriggio, mentre l’Italiano strillava per l’ennesima volta: “La conosco bene”, oppure: “Fellowship in Australia”, o anche: “Ciambella”, stava per scoppiare su questo suolo la prima rivoluzione dopo trecentoventun anni. Per fortuna le ciambelle erano finite, e l’Italiano col suo codazzo ha dovuto andare a cercarsele altrove, e io ho finalmente potuto tornare all’editoriale di Giuliano Ferrara e offrire il mio disinteressato aiuto alla signorina di fianco munita di laptop, pile di appunti manoscritti e libro di Andy Wharol in edizione economica, la quale da cinque minuti tentava invano di svitare il tappo di un succo di frutta dal dubbio accostamento. Alla mia offerta di favorire in quel frangente della mia italica forza bruta, s’è barricata dietro un retrivo mutismo.

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