venerdì 8 maggio 2009

Un continuo stillare di parole

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Antonio Delfini è un uomo fortunato, benché morto da quasi cinquant’anni: gli è stata intitolata nel centro di Modena una biblioteca comunale che spicca per dimensioni, modernità, duttilità e capacità di venire incontro alle esigenze di lettori di ogni estrazione. Ristrutturata nel 2006, la biblioteca Delfini consente a chiunque sia domiciliato a Modena di avere gratuitamente accesso al prestito di volumi, anche novità freschissime, dvd e cd audio; ha una zona per bambini, una per ragazzi, un’ampia aula studio, una piazzetta semiaperta per i quotidiani, un settore riviste di svago con poltroncine e tavolini simil-bar, un piccolo anfiteatro per la visione collettiva di film, una bancarella per acquistare a prezzo ridicolo doppioni o scarti del catalogo. La provincia di Modena è quella dalle cui biblioteche vengono presi in prestito più libri in assoluto, stando alle statistiche; e basta trasferirsi lì una mezz’oretta per rendersi conto di come la biblioteca Delfini sia l’epicentro di questo continuo tramestio culturale e di come anche i più riottosi fra gli studenti liceali, per non dire gli universitari, abbiano prima o poi infagottato i libri e detto: “Vado in Delfini”, magari ogni giorno per anni.

A prima vista questo col libro non c’entra nulla. C’entra invece se ci si concentra sull’aspetto che il titolo stesso vuol mettere in evidenza: Antonio Delfini come autore negletto, “ignoto” appunto, facilmente dimenticabile e che, come crudamente rilevato dall’Einaudi quando tentò di ripubblicarne l’opera omnia negli anni ’80, “non vende”. Autore Ignoto Presenta è un nuovo tentativo, stavolta antologico, di presentare Delfini al grande pubblico: l’operazione vive e forse un po’ risente del suo carattere complessivo ma non esaustivo, volto a presentare l’autore con una portata completa e qualche assaggino.

La portata completa è Il Ricordo della Basca, raccolta di racconti che Delfini pubblicò nel 1998 e che era stata riproposta l’ultima volta da Garzanti all’inizio degli anni ’90. Einaudi la colloca al centro del volume, dopo le prime prose incerte e prima di testi più corposi che, in una maniera o nell’altra, alla Basca si rifaranno. I dieci racconti ondeggiano fra una terza persona piuttosto compenetrata, sempre attenta ai movimenti dell’animo interiore dei protagonisti via via sulla scena, e una più riuscita prima persona che fornisce pienamente la cifra caratterizzante lo stile di Delfini. I racconti in prima persona sono forse la realizzazione più compiuta dell’atteggiamento svagato che sempre conservò la sua scrittura, come nella consapevolezza che nella vita ci fossero faccende più urgenti, o piacevoli, da sbrigare e che comunque sedersi a scrivere fosse a un certo punto necessario, qualcosa a metà fra un bisogno istintivo e un gravame fastidioso.

Il valore aggiunto di quest’edizione è la giustapposizione dei testi compiuti di Delfini a quelli incompiuti, abbozzi mai sviluppati o volutamente lasciati a metà. La scelta è stata affidata a Gianni Celati. Nel volume possiamo trovare quindi cerchi chiusi di varia dimensione: ad esempio il lungo vibrante sfogo autobiografico Il Ricordo del Ricordo (1956), nel quale Delfini ricostruisce la genesi della Basca offrendo un affresco intimo e politico al tempo stesso, nel quale magra figura ricava il suo allora amico Mario Pannunzio; come anche le cinque paginette de La Vita, che nel 1933 lo stesso Pannunzio insisté per pubblicare sulla rivista “Oggi” diretta insieme da lui e Delfini, nelle quali viene mantenuto dall’inizio alla fine un ritmo narrativo e sentimentale talmente intenso che, spalmato sull’opera omnia di Delfini, ne avrebbe reso ogni pagina un capolavoro.

Non meno affascinanti si palesano qua e là i cerchi aperti. L’ottativo Se io sapessi scrivere racconti (1936) passa velocissimamente da possibili trame a suggestioni, immagini folgoranti o progetti di riviste futuribili, per chiudersi su aforismi un po’ enigmatici e battute estemporanee che Delfini stesso così suggella: “questa è proprio stupida”. All’altro capo del volume troviamo invece la Storia d’amore intorno a un quaderno smarrito, che partendo dal decimo compleanno dell’autore/narratore/protagonista intende forse ricostruire nel dettaglio il suo indissolubile rapporto con Modena nel più ampio respiro di un romanzo, che s’interromperà dopo trentotto pagine dattiloscritte. Tuttavia lo stesso valore aggiunto dell’edizione variegata e antologica potrebbe, chissà, rivelarsi un’arma a doppio taglio nei confronti dell’autore, come se qua e là questo sapiente lavoro di collage tradisse il carattere complessivo degli scritti di Delfini – un continuo inarrestabile stillare di parole in ogni forma nel vano e frustrante tentativo di cavare la pietra dell’indifferenza editoriale, del disprezzo del pubblico, della propria stessa immaturità. La nuova edizione Einaudi può risultare decisiva solo se serve come spunto per il ripescaggio dei Diari, che la stessa casa editrice pubblicò nel 1982.

La prosa di Delfini è tenue, rarefatta. Pare talvolta di una semplicità talmente immediata che, bisogna dedurne, o le frasi gli venivano subito in mente così filanti, come su un abbecedario ideale, oppure passava i giorni a pensarle e a levigarle. E, sempre, la sua prosa pare sul punto di svanire: talvolta sparisce per davvero, come a realizzare una costante poetica dell’incompiuto che lo stesso Delfini adombra nella premessa a Racconto non finito (1957): “In un primo tempo s’intitolò Racconto triste; in seguito coll’andare degli anni, persuadendomi dell’impossibilità di continuare una cosa verso la quale non portavo più alcun interesse, ma soltanto il pregiudizio di un dovere che sapevo di non voler compiere, il titolo è stato mutato in quello definitivo di non finito.”

La Ghirlandina, la torre del Duomo che segna il centro di Modena, è una costante del volume. A pagina quaranta la “torre snella” appare “unico scampo alla fantasia di un povero viandante esiliato dai campi”; a pagina 319 “spiccava sola e imponente come una freccia d’amore lanciata verso il cielo”. Chi ci è passato sotto prima o poi, o chi l’ha scorta camminando da lontano, sa che entrambe queste definizioni più che calzanti sono vere, come può esserlo una proposizione in logica e non un paragone o una metafora. Nella sua prosa svogliata Delfini ha inteso incarnare il ritmo placido e un po’ lassista di una città accogliente e morbida qual è Modena; e ha saputo ritrarre nelle piccole storie dei suoi personaggi meglio di chiunque i modenesi: “tedeschi vestiti da inglesi, con qualche liberalità francese di costume insieme a un’eccessiva sentimentalità italiana, che da noi diventa magón”.

Vero, Delfini ha forse sprecato un enorme talento, non ci ha lasciato il grande romanzo che critica e pubblico sembrano esigere da ogni autore, ha frequentato i giri sbagliati, è stato fascista prima della dittatura, se n’è pentito dopo Matteotti, e una volta che l’antifascismo era diventato sport nazionale s’è macchiato della dichiarazione: “Gli antifascisti non esistono”. Lui stesso insomma s’è condannato al dimenticatoio, e ha iniziato a lamentarsene ancora vivo e operante, anzi già da giovane e prima ancora di scrivere ciò per cui vale la pena di ricordarlo. Tuttavia l’immagine di Delfini autore impolverato, lamentoso in vita circa il proprio destino postumo, contrasta in maniera scioccante con la vivida realtà della biblioteca che gli è intitolata, e del suo nome che corre di bocca in bocca – “vado in Delfini”, “sono in Delfini”, “ci vediamo in Delfini” – fra ragazzi appartenenti a generazioni che lui stesso non avrebbe mai immaginato di poter toccare. Forse è il destino più adatto a un autore svogliato, non avere bisogno di un libro per restare nella storia.

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