martedì 30 giugno 2009

Il peggior Nixon

(Gurrado per Il Foglio)

Premesso che con la diffusione di centocinquanta ore di registrazioni segrete nessuno al mondo farebbe bella figura, il peggior Nixon che emerge dai nastri dei National Archives ha qualcosa di mefistofelico, di spropositatamente deforme nella sottile malvagità delle sue frasi sull’aborto auspicabile in caso di stupro o rapporto interrazziale. Per non dire qualcosa di grottesco nell’incoerenza con le sue posizioni ufficiali al riguardo, ben sintetizzate dal discorso di San Clemente, 3 aprile 1971: “Sulla scorta del mio credo personale e religioso considero l’aborto una forma inaccettabile di controllo della sovrappopolazione”, che “non posso far convivere col mio personale credo nella santità della vita umana – inclusa la vita dei non ancora nati, of the yet unborn”.

Ma ha anche qualcosa di romanzesco nella sua diabolicità, come conferma il fatto che già prima della fine del primo mandato i contenuti poco edificanti delle registrazioni segrete fossero per certi versi stati immaginati e messi per iscritto da Philip Roth in Our Gang (1971). Subito tradotto da Bompiani con un poco invitante Cosa Bianca Nostra, il romanzo che rivelava con quarant’anni d’anticipo ciò che abbiamo scoperto l’altro giorno è finito fuori commercio sia per il titolo disgraziatissimo sia perché rigonfio di riferimenti a dettagli della politica americana poco entusiasmanti per il lettore medio italiano. Trattandosi di una satira, era necessario avere chiari in mente futili dettagli sulla vittima, altrimenti non solo non si sarebbe capito niente ma si sarebbe riemersi con la sgradevole impressione che l’autore si fosse divertito senza considerare affatto il lettore. E come in tutte le satire, passato il santo passata la festa: caduto in disgrazia il suo obiettivo, morto e dimenticato più o meno alla svelta, anche l’attacco più feroce risulta patetico come una carica a salve. Finisce come l’Apokolokyntosis di Seneca, che fu progettata per deridere l’imperatore Claudio e adesso può tutt’al più funzionare come corso monografico di storia romana.

A meno che i nastri del National Archives non facciano tornare di moda i lati oscuri di Nixon. In tal caso consiglio all’Einaudi: se avete intenzione di proporre una nuova traduzione, forse è già tempo. Roth parte citando proprio il discorso di San Clemente e individua nella lotta contro l’aborto il punto debole di Nixon, finendo per farlo assassinare e candidare alla presidenza dell’Inferno. Da un lato espone la solita manfrina moralista sull’opportunità di difendere i diritti dei vivi piuttosto che quelli degli yet unborn e bla bla bla; dall’altro per dimostrare le contraddizioni di Nixon si inguaia in qualche paralogismo peggiore dell’originale, finendo per far perdere di forza e immediatezza alla sua satira. Di sicuro coglie nel segno mostrando quanto l’antiabortismo di Nixon potesse essere operazione politica più che intimo credo. Per capire il peggior Nixon c’è voluto il peggior Roth, che ha probabilmente scritto in fretta, con scelte lessicali abbastanza grossolane e sicuramente pensando soltanto al riscontro immediato, pur sapendo benissimo che la letteratura ha valore senza data di scadenza – come dimostrano, per fortuna, tutti gli altri suoi romanzi.

A maggior ragione però l’Einaudi dovrebbe tradurre questo Roth misconosciuto. Non solo potrebbe spacciarlo per instant book sulle nuovissime rivelazioni audio, indovinate e inverate con largo anticipo; ma le argomentazioni sottese in favore dell’aborto – o contro l’obiezione all’aborto, che è lo stesso – sono talmente antiquate e bolse che parrebbero scritte oggi. Con un po’ di makeup (e un altro titolo, per favore) Our Gang potrebbe risultare una satira alla moda. Chissà: potrebbe spingere qualche altro romanziere a inventarsi ciò che sull’aborto Obama pensa e non dice, e che magari il mondo scoprirà a metà secolo.

sabato 27 giugno 2009

Oxford si spoglia

(Gurrado per Il Foglio)

Le Inglesi nude! Se vi avanzano 10 sterline, qui generosamente equiparate a 15 euri, potete spenderle per acquistare Oxford undressed, il calendario 2009-2010 che svela cosa c’è sotto la toga e che ha fatto titolare al sito di Rep: “Belle, brave e senza veli: è Oxford” – con annessa galleria fotografica che iniziava col mostrare studentesse coperte solo da un violoncello e finiva per fare sfoggio della ben più celebre rotondità della Radcliffe Camera, l’edificio più fotografato dai giapponesi.Non per minare la credibilità del sito di Rep, ma la notizia o se non altro il titolo richiede dei chiarimenti. “Belle” può darsi, ognuno giudica secondo il proprio istinto e sfogliando il calendario non m’è parso di vedere niente di ragguardevole. Forse sarebbe stato più corretto titolare “Belle/i”, visto che in omaggio alla parità dei sessi e soprattutto dei gusti sessuali il calendario è stato concepito in maniera tale che potessi pascermi anche della visione delle appesantite chiappe di un paio di studenti in attesa su non so quale scalinata del centro. Comprendo che l’introduzione di un paio di bolsi nudi maschili abbia consentito agli editori di preservare la dignità del corpo femminile, ma la mia soddisfazione personale ne ha risentito non poco.

Né mi sorprende che nessuna delle studentesse modelle mi abbia fatto sorgere il desiderio di citofonare a tutti gli appartamenti del circondario finché non la trovassi. Con le mie stesse orecchie infatti avevo colto qualche tempo fa un tizio che protestava perché Blueprint, l’organo stampa ufficiale dell’Università, aveva piazzato in copertina una bella biondona sorridente allo scopo di reclamizzare il nuovo modello di toga che indossava. Il tizio in questione lamentava che la biondona era troppo bella e troppo sorridente per essere rappresentativa e rivendicava con orgoglio che a Oxford le ragazze sono invece rinomate per essere tutte intelligenti. Vabbe’. Gli editori di Oxford undressed hanno dunque ritenuto saggio non esagerare con la bellezza, forse per timore che un domani Rep non potesse più titolare che le signorine fossero intelligenti, anzi “brave”. Una di loro è talmente intelligente da venire ritratta stravaccata in biblioteca mentre legge un libro enorme che ne lascia scorgere le spalle e mezza coscia. Fosse stata meno brava, avrebbe scelto un libro tascabile e io sarei stato ben più contento.

Ciò dimostra come “senza veli” sia più un’apertura all’ottimismo che una constatazione di fatto. Scorrono i mesi e non si vede mai nulla che possa far dire senza remore: “Ecco, questa donna (o quest’uomo, per carità) è insindacabilmente nuda/o”. A un certo punto mi sono annoiato e vedendo tre signorine in toga, e basta, che passavano vicino a un muricciolo ho istintivamente pensato soltanto a capire se si trovassero in Turl Street o in Catte Street. Comprenderete che nessuno ha comprato il calendario Max di Sabrina Ferilli per domandarsi in quale mare stesse mai immergendo le sue magnifiche forme e progressiste.

Lo sanno i camionisti meglio degli accademici: un calendario di donne nude (e uomini nudi per camioniste politically correct) è sì mercificazione ma anche glorificazione del corpo a discapito del contorno in cui si muove. Non ho fatto un’indagine di mercato ma so che nessun camionista comprerebbe Oxford undressed perché va nella direzione esattamente opposta, presentare il corpo nudo con tutta una serie di intercapedini, altro che “senza veli”: l’onnipresente e castigatissima toga, l’enorme incunabolo, gli scorci caratteristici e il nome della città universitaria che alle orecchie italiane conferisce a tutto un’uniforme patina di rispettabilità – ragion per cui Rep può titolare sussiegosa: “È Oxford”.

Nel 1946 l’anglomagiaro George Mikes scrisse How to be an alien e dedicò al sesso in Inghilterra un intero capitolo, icasticamente composto da una sola riga: “I continentali hanno una vita sessuale, gli Inglesi una borsa dell’acqua calda”. Oggi per le vie di Oxford va per la maggiore l’accoppiata minigonna-in-bicicletta, al sabato sera vedo sfilare quindicenni cicciottelle seminude e scheletriche trentenni con le orecchie da coniglietta ma nonostante le apparenze la situazione non è cambiata gran che. Su Oxford undressed viene verbosamente specificato che le signorine (e i signorini) hanno accettato di spogliarsi perché i proventi delle 10 sterline verranno devoluti in beneficienza. Roba da far chiedere i soldi indietro. Pensate che gioia avere davanti una donna che si spoglia specificando: “Non lo faccio per te, honey, ma per l’orribile situazione in Cecenia”. Loro credono che sia l’alta giustificazione etica di una piccola trasgressione estetica, invece è una borsa dell’acqua calda ultimo modello. Meglio un’Italiana vestita.

mercoledì 24 giugno 2009

Lui


Veltroni fa il misterioso 
e non svela  se nell'ultima parte del suo nuovo romanzo,
 ambientata nel 2025, Berlusconi ci sarà o meno. 
Di sicuro non ci sarà Franceschini.

lunedì 22 giugno 2009

Sabato, domenica e lunedì

(Gurrado per Quasi Rete)

Nonostante la candidatura di dieci parlamentari alla carica di speaker della Camera dei Comuni (competizione talmente entusiasmante che corro il rischio concreto di addormentarmi prima di finire questa stessa frase), negli ultimi tre giorni l’attenzione degli Inglesi s’è focalizzata su tre eventi sportivi in fila, diversissimi fra loro e ognuno indicativo di una differente maniera di concepire lo sport. Anzi, il nome di ciascuno è diventato un brand e basta pronunciarlo per scatenare memorie e aspettative non sempre in linea con ciò che sarebbe prevedibile: Ascot, Silverstone, Wimbledon.

Ascot dovrebbe far pensare ai cavalli e invece fa pensare ai cappelli. Sabato ne ho viste quattro o cinque – tute insieme, poiché si muovono a frotte – di signorine col copricapo originale che avevano avuto la bella pensata di tenerlo fino a Oxford e così andare conciate una volta tornate dalla stazione. Non voglio immaginare che tortura il viaggio per chi se l’è trovate nello stesso scompartimento (“I’m sorry, signorina, temo di avere una sua piuma nel naso”). Non oso immaginare se invece hanno viaggiato in pullman, con spazi ben più costipati (“I’m sorry, signorina, la sua piuma s’è impigliata fra i tergicristalli”). Non posso nemmeno immaginare l’eventualità che abbiano preso un taxi (“I’m sorry, signorina”, crash). D’altra parte i cappelli – sempre più bizzarri, sempre più eccentrici, tanto che un domani l’unica maniera di farsi notare sarà portarne uno semplicissimo, nero con veletta, o non portarlo affatto e tenere i capelli al vento, che da queste parti non manca mai per la gioia della mia cervicale – sono la risposta del genio femminile al genio maschile che ha inventato i nomi dei cavalli, di cui già discettavo su queste pagine. Ma stavolta hanno stravinto i cappelli: nella classifica del Royal Ascot non vedo nessun’alzata d’ingegno, nessun Errata Porridge, nessun Poncho Pilato; ha vinto un cavallo dal nome snob e carico di riferimenti culturali, Yeats, sconsideratezza enorme visto che i cavalli grazie al cielo non sanno leggere, e infatti corrono felici tutta la vita e dopo morti la loro carne è ottima. I poeti camminano lenti e non mi azzarderei mai a mangiarmene uno, nemmeno da vivo.

Silverstone dovrebbe far pensare alle automobili e invece fa pensare a una montagna di carte bollate. Ho notato un curioso parallelismo fra il GP d’Inghilterra e il locale governo, anzi più in generale la locale classe politica. Presumo che in Italia sia arrivata notizia delle curiose note spese dei parlamentari di Westminster. In Inghilterra la notizia è arrivata fino a un certo punto: sui documenti che lo stesso Parlamento aveva deciso di rendere pubblici, per via della fiducia e della trasparenza e bla bla bla, si erano formate casualmente delle cospicue macchie rettangolari d’inchiostro che non sono risultate trasparenti affatto. Di alcuni parlamentari (uno a caso: Gordon Brown, primo ministro) si poteva leggere soltanto il nome e il saldo complessivo. Il resto della pagina restava completamente occultato e ciò non ha favorito la fiducia generale nella politica, già piuttosto scossa dalla scoperta che buona parte dei parlamentari avesse utilizzato soldi pubblici per l’acquisto di prese triple, pannolini e villette. In Italia, a quanto ne so, nessuno ha fatto notare che la stessa classe politica inglese, con codazzo di giornalisti più o meno asserviti e quant’altro, ha criticato per decenni la corruzione tardoimperiale della politica italiana, ma pazienza. La situazione è tale che il governo va avanti cieco e zoppo, la classe politica si riproduce per gemmazione e inerzia, tutti invocano grandi cambiamenti e nessuno muove un dito – salvo i quattro geni i quali sostengono che l’unica soluzione per porre fine alla corruzione politica sia passare dal sistema maggioritario al proporzionale. In Italia, a quanto ne so, nessuno (nemmeno il povero Mariotto Segni, che oggi ha stabilito il record di sedici anni di elezioni perse) ha fatto notare che negli anni ’90 per porre fine alla corruzione politica eravamo passati dal proporzionale al maggioritario. In Italia la politica sarà sempre un teatrino, ma nella Gran Bretagna di oggi è una danza macabra.

Con la Formula1 sta accadendo la stessa cosa. L’incredibile Sflash Gordon Brown, il premier dalle dimissioni più lente di tutti i mondi, passando da Downing Street ai paddock si fa in due e diventa la premiata ditta Mosley & Ecclestone, casualmente britannici entrambi. I quali britannici entrambi stanno cavalcando una tigre morta dal momento in cui le principali case automobilistiche hanno annunciato l’intenzione di disertare la parodia di mondiale che i due stanno organizzando per il prossimo anno. Ieri a Silverstone s’è corso il primo Gran Premio del futuro anteriore, quello il cui ordine d’arrivo andava scorso al netto delle scuderie in via d’estinzione. Con la differenza che sparendo dalla Formula1 la Ferrari & co. andranno a prosperare altrove, magari in un nuovo campionato fatato, con tre macchine ciascuna, con piloti a contratto per accendere facili voli di fantasia, con regole comprensibili anche a chi non è laureato in giurisprudenza, lessico comprensibile anche a chi non è laureato in ingegneria e classifiche emozionanti perfino per gente come me che l’unica macchina sportiva che concepisco ha due ruote, altrettanti pedali e sul sellino un poveraccio che sputa sangue. Ecclestone & Mosley, invece, resteranno con la loro Formula 1 privata che se non si estinguerà sarà comunque ridimensionata a Formula½, alla quale potranno partecipare anche i sopracitati cavalli Errata Porridge e Poncho Pilato purché muniti di kers.

Ieri, mentre i cronisti di BBC1 tentavano invano di concentrare l’attenzione del pubblico – coi propri velleitari strilli, voi non avete idea di quanto suoni falso un Inglese che finge di essere emozionato quando invece sta visibilmente pensando al tè con gli scones imburrati e vergognandosi di dover guadagnarsi da vivere urlando in tv contravvenendo a ogni regola di decente educazione – sulla mancata vittoria di Jenson Button, o sull’improvvisa involuzione di Lewis Hamilton (questo campione che l’anno scorso era quasi riuscito nell’impresa di perdere due mondiali di fila), la verità era che trecentomila spettatori spalmati in tre giorni hanno assistito ai primi passi del corteo funebre della Formula1. L’ha forse notato Eddie Jordan, fra le righe e sotto gli occhiali, quando s’è detto entusiasta del fatto che la Formula1 potesse ancora richiamare un pubblico così numeroso, sottolineando maliziosamente l’ancora come solo un pokerista gesuita avrebbe saputo. E poi, con quel suo mento aguzzo e il naso triste come una chicane, ha guardato verso gli spalti che si svuotavano via via e si sarà chiesto in silenzio: “Chissà dove andranno, l’anno venturo”.

Signori, giù il cappello (pure voi, signorine di Ascot): oggi è iniziato Wimbledon, che dovrebbe far pensare alle racchette e invece fa pensare alla pioggia. (Be’, personalmente mi fa pensare alla Sharapova ma so che, pur essendoci vari individui che condividono questa mia associazione d’idee, essa da un lato potrebbe annoiare buona parte del pubblico, dall’altro potrebbe far planare chissà dove un blog che non mi risulta essere vietato ai minori di anni 21). Non si può capire il fascino perverso di Wimbledon se non si ha una spruzzata di etica protestante: attenzione ossessiva per il decoro dei capi d’abbigliamento, un compiacimento più che sadico per l’eliminazione diretta e rispetto assoluto del riposo domenicale. La domenica era concepita come sincope che separava le due settimane, il torneo delle belle speranze dal torneo della dura realtà; ma ogni tanto ci si metteva la pioggia e scompaginava l’onda lunga dei piani di Enrico VIII prima rendendo immancabilmente impraticabile il terreno sul quale era atteso il match più affascinante, quindi costringendo gli spettatori alla lunga contemplazione inane dei teloni stesi sul prato per ore e ore, infine facendo slittare la partita al giorno dopo, e così via con un effetto domino che trasformava la domenica – di solito ironicamente soleggiatissima – in giorno cuscinetto per recuperare i turni arretrati. Era l’annuale vendetta degli elementi sulle leggi umane e razionali.

Da quest’anno, il campo centrale di Wimbledon è dotato di tetto ritraibile come una Spider. Alle prime gocce si tira una leva e il terreno di gioco diventa uno scrigno inespugnabile, ci fossero anche tutt’attorno gli angeli del Signore che suonano le sette trombe dell’apocalisse. Non fosse che finirei per trovarmici sotto anch’io, mi auguro anzi presumo che la pioggia busserà con insistenza su questo tetto che non s’aspetta: pioverà e pioverà e sarà il suo paraklausithyron, il poema della tradizione classica greca che l’autore vanamente rivolgeva all’amata di fronte alla sua porta chiusa – dietro la quale la detta amata stava dormendo sonni tranquilli ovvero intrattenendo tre lottatori di pancrazio ovvero leggendo le rasserenanti massime di Epitteto: “Nessun problema è mai insolubile, dappoiché ci si può sempre impiccare”. Wimbledon senza pioggia non mi sembra migliorato, mi sembra sterilizzato: come quasi tutto in un mondo che vuole le olive senza nocciolo, il vino senza pazienza, la fede senza impegno, i figli senza matrimonio e la vittoria senza fatica. È dal 1936 che un tennista britannico non vince Wimbledon, anche se quest’anno c’è grande fiducia intorno ad Andy Murray. Ma io sono sicuro che per punizione verrà eliminato in semifinale, così imparano a ribellarsi contro il corso della natura.

sabato 20 giugno 2009

Il cubo della preghiera

(Gurrado per Il Foglio)

Di architettura capisco lo stretto necessario per distinguere un capitello corinzio da una scala mobile; ma appena ho visto la chiesa cubica che Fuksas ha costruito a Foligno, ho intuito subito che non doveva essersi ispirato alla kaaba tanto quanto all’aeroporto di Heathrow.

Presumo che prima o poi Fuksas si sia inevitabilmente trovato nella necessità di decollare da Londra e una volta superato il check-in e attendendo l’imbarco abbia avuto agio di visitare ogni anfratto dell’area partenze nel terminal 2, che solitamente conduce in Italia. Fra una cosa e l’altra avrà trascorso un’oretta nella zona in cui l’aeroporto mette a disposizione negozi di vario genere nonché un enorme pub sopraelevato nel quale Fuksas avrà potuto godere della visione di schiere di indigeni che trincano birra alle otto meno cinque del mattino, forse con la scusa del jet-lag. Poi magari sarà giunto il momento di andare in bagno e si sarà reso conto che alle tradizionali indicazioni col maschietto stilizzato e la femminuccia in gonnella si aggiungeva quella, invero più sorprendente, con un omino accovacciato ginocchia a terra e terga sui talloni. Incuriosito ormai più che spinto dal bisogno, Fuksas si sarà infilato nel cunicolo fra i gate 18 e 19 e seguendo le indicazioni delle frecce avrà trovato, in rapida successione e serena adiacenza: toilette per gentlemen, toilette per ladies e multi-faith prayer room.

Sala di preghiera multi confessionale: si tratta di un cubo, appunto, contrassegnato dalla curiosa figura accovacciata e delimitato da un pavimento e cinque pareti perpendicolari, una delle quali funge da soffitto ribassato. Lì probabilmente Fuksas avrà avuto visione anticipata della sua chiesa di Foligno e tutto soddisfatto sarà entrato nella ritirata per gentiluomini. Io invece, trovandomi per davvero nella sua stessa ipotetica situazione, ho preferito entrare nella sala di preghiera e ho visto l’orrore, l’orrore.

Ora, mi rendo conto che l’intenzione dei costruttori era di cercare unità e pace, figuriamoci, ragion per cui hanno voluto dotare il terminal 2 di un luogo di culto che andasse bene a passeggeri di cinque continenti: un cubo della preghiera universale che, come da definizione geometrica, mostrasse sempre la stessa faccia da versanti differenti. Allo stesso modo il Dio all’ascolto, hanno voluto sottintendere i costruttori, è sempre lo stesso sia che lo si chiami Allah o Manitù oppure Elvis. È un caso di fede on demand: come nel pub sopraelevato si può indifferentemente ordinare un cappuccino a mezzanotte o fish & chips all’alba, così nel cubo del terminal 2 si può entrare e pregare chi si vuole – non necessariamente il proprio Dio, magari anche quello altrui, magari tutti quanti sfruttando così il cubo della preghiera per la preghiera al cubo.

Peccato che io, pur volendo, non avrei saputo a chi rivolgermi vista l’assenza del Crocifisso, che com’è noto offende tre quarti delle religioni e per di più impressiona i bambini. Si sa che Dio può essere ovunque: è scritto nell’Esodo che apparve a Mosè nel bel mezzo di un pascolo e gli intimò di sfilarsi i calzari perché camminava su un suolo sacro. Ma nel sacro cubo di Heathrow io, ben lungi da un roveto ardente, ho trovato soltanto una Bibbia in Spagnolo, due tappeti arrotolati e un paio di infradito di cui mi sfugge la ragione. Nonché vari Corani e un miserabile foglio A4 che riportava l’elenco di tutte le feste delle principali religioni, caso mai un Cristiano avesse dimenticato di che giorno cade Natale o uno scintoista volesse provare l’ebbrezza di celebrare lo Yom Kippur. L’unico addobbo sulle pareti era una freccia per indicare la direzione della Mecca, che com’è noto non offende né impressiona mai nessuno. D’altra parte lo stesso omino stilizzato nell’insegna d’ingresso è accovacciato e non inginocchiato come un Cristiano: sembra piuttosto in procinto di prosternarsi faccia a terra nello stile dei mussulmani. E la freccia, i tappeti e fors’anche le infradito costituivano la testimonianza materiale che il cubo multiconfessionale di Heathrow fosse una moschea in divenire.

Fuksas ovviamente ha tutt’altre intenzioni, e sostiene infatti che non importa tanto la forma quanto che la gente di Foligno si senta spinta a entrare nella sua chiesa e pregare: anche Gesù dice a chiare lettere che “dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Fatto sta che nel cubo di Heathrow altro che due o tre, altro che unità e pace fra passeggeri di cinque continenti: a parte me non c’era nessuno perché non c’era nessuno nel nome del quale riunirsi. Mai come allora mi sono sentito solo e sperduto. Allora sono andato a cercare Dio altrove, riflettendo che, se Fuksas fosse entrato con me nel cubo di Heathrow, non gli sarebbe sfuggito che in materia di religione spesso la forma è il contenuto.

giovedì 18 giugno 2009

Quel papista di Voltaire

(Gurrado per Il Foglio)

Nel bel mezzo del Settecento era ragionevole che un autore francese di un certo successo decidesse di imparare l’Italiano, benché maneggiandolo in maniera piuttosto incerta. Lo avrebbe utilizzato sia per scrivere lettere infuocate a sua nipote (“Baccio il vostro gentil culo e tutta la vostra vezzosa persona”), sia per tenersi in contatto con Goldoni nonché con autori bolognesi, mantovani o veneziani oggi irrimediabilmente dimenticati, sia per comporre un traballante saggio di geologia grazie al quale impetrare l’ammissione a quasi tutte le Accademie della Penisola. Tuttavia all’epoca l’Italiano non era solo la lingua dell’amore, della poesia lirica e della cultura alta, ma anche e soprattutto la lingua corrente della curia vaticana.

Non stupisce quindi che lo stesso autore francese, fra una lettera erotica e una richiesta di raccomandazioni, inaugurasse una fitta corrispondenza italiana con ecclesiastici di varia estrazione: il card. Passionei, già inquisitore a Malta; il card. Quirini, vescovo benedettino di Brescia e bibliotecario di Sua Santità; i gesuiti Boscovich e Jacquier, il camaldolese Calogerà, l’abate Sambuca, il futuro sovrintendente alla finanze pontificie Vergani e così via. Né stupirebbe che a un così accanito corrispondente di mezzo clero italiano potesse capitare di scrivere a due Papi; non fosse che l’autore francese in questione è passato alla storia quale acerrimo nemico del Cattolicesimo sotto lo pseudonimo di Voltaire.

Ma come, lo stesso Voltaire del Trattato sulla Tolleranza introdotto da Salvatore Veca? Infatti. Nel 1745 Voltaire era in procinto di far pubblicare la tragedia Il Fanatismo, ovvero Maometto profeta, che oggi non gli guadagnerebbe parecchi fan fra i sostenitori del multiculturalismo. Per quanto sia valida la lettura obliqua del Maometto come critica a certi eccessi politici del Cattolicesimo, si tende a dimenticare facilmente che resta innanzitutto il ritratto poco lusinghiero di un profeta che “semina fanatismo e sedizione, e conduce la sua armata nel nome di un Dio terribile”. Voltaire intuisce che può avere in Benedetto XIV, già cardinal Prospero Lambertini, un alleato prezioso per la sua brillantissima cultura. Spedisce allora un abate, amico di un’amica della sua concubina M.me du Châtelet, a esplorare personalmente in Vaticano la propensione del Papa nei suoi confronti. L’esito è glorioso: Benedetto XIV fa arrivare a Voltaire dei medaglioni con la propria immagine che diventano il pretesto per una breve e un po’ surreale corrispondenza.

A metà agosto 1745 Voltaire può infatti scrivere a Benedetto XIV, sempre nel suo Italiano immaginario, dichiarando di aver “ricevuto co i sensi della piu profonda venerazione e della gratitudine piu viva, j Sacri medaglioni di quali la vostra Santita s’e degnata honorar mi”. S’inventa su due piedi di avere appesa “nel mio cabinetto una stampa di vostra Beatitudine” e domanda “al cielo che Vostra Santita sia tardissimamente ricevuta tra quegli Santi dei quali ella con si gran fatica e successo, ha investigato la canonizatione”. Non contento, nello stesso giorno scrive un’altra lettera “al capo della vera relligione” con l’esplicita dedica del Maometto: “a chi potrei piu convenevolmente dedicare la crudelta e gli orrori d’un falso profeta, che al vicario ed a L’imitatore d’un Dio di verita, e di mansuetudine?”. Conclude che “in tanto profundissimamente inchinato Le baccio j sacri piedi”.

Papa Lambertini si prende la briga di rispondere “Dilecto filio Voltaire” un mese dopo, ringraziando “per così singolare bontà verso di noi, assicurandola, che abbiamo tutta la dovuta stima del suo tanto applaudito merito”. Qui le cose si fanno più complicate perché nel brogliaccio custodito nell’archivio vaticano il Papa risponde sì a Voltaire, ma non fa menzione del Maometto, mentre la copia in possesso di Voltaire parla espressamente de “la sua bellissima Tragedia di Mahomet, la quale leggemmo con sommo piacere”. È ragionevole pensare che la smania per ottenere l’appoggio papale avesse spinto Voltaire a farsi ricopiare in bella grafia la lettera pontificia con le migliorie che riteneva necessarie alla propria gloria. Fatto sta che tanto la bella copia quanto il brogliaccio riportano il tradizionale congedo del Papa: “ed intanto restiamo col dare a lei l’apostolica Benedizione”. Si può rimestare nel torbido finché si vuole ma il dato di fatto è incontestabile: Voltaire s’è inginocchiato, il Papa l’ha benedetto.

D’altra parte Voltaire è recidivo. Nel 1761, quando è ormai riconosciuto patriarca antireligioso, tutt’a un tratto scrive a Clemente XIII gettandosi di nuovo “a j sacri piedi di sua beatitudine” in qualità di “gentiluomo della camera di sua maestà cristianissima”. La richiesta lascia basiti: lui e sua nipote, che nel frattempo è diventata la sua nuova concubina e alla quale non scrive più, “la supplican’umilmente di degnarsi di concedere loro alcune sante relliquie per l’altare della nuova chieza che Francesco di Voltaire edifica nel feudo di Ferney”. In una lettera parallela al card. Passionei Voltaire spiega: “Non domando un corpo santo. Sono indegno d’un tanto onore, basta per me un dito, un capelo”.

Le ragioni per convincere il Papa sono ancora più scioccanti. La tenuta di Ferney si trova “nella vicinanza della herezia”, ossia a due passi dalla Ginevra calvinista, e Voltaire ritiene “che sia convenevole di spiegare tutti i segni della fede in faccia de gli inimici”. Non si sa se le reliquie arrivassero o meno a destinazione; ma la chiesa di Ferney venne allestita, col proclama DEO EREXIT VOLTAIRE sul frontone, e fu una parrocchia cattolica nella quale Voltaire di tanto in tanto prese anche la comunione con grande scandalo degli astanti.

Che si trattasse di mussulmani o calvinisti, il Cattolicesimo restò un rifugio nel quale Voltaire poté tornare a farsi accogliere quando si sentiva minacciato dall’intolleranza delle altre religioni. Da piccolo era stato educato dai gesuiti; non abbracciò mai il protestantesimo pur avendo vissuto in Inghilterra e in Svizzera; scrisse volentieri a Papi e cardinali; attorno al suo cadavere si levarono i vespri funebri dell’abate di Scellières, e venne seppellito con messa solenne grazie ai buoni uffici di un nipote reverendo. È più che sufficiente a giustificare il sospiro che si lascia sfuggire nel Trattato sulla Tolleranza: “Grazie a Dio, sono un buon cattolico”.

domenica 7 giugno 2009

Lo scrittore della domenica

(Intervista concessa da Gurrado al blog Sul Romanzo)

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Se devo indicare un anno preciso, direi il 1995: avevo 14 anni e, poiché al ginnasio non ci davano compiti abbastanza, per allungare i pomeriggi e non far preoccupare i miei genitori scrivevo ogni giorno due o tre pagine di fatti miei su un quaderno a quadretti – che dovrei ancora aver conservato da qualche parte, ma non lo dica troppo in giro altrimenti si scatena la caccia al tesoro. Più che caso fortuito è stata conseguenza naturale della fortuna di vivere in una casa piena di libri (che nel frattempo è diventata ancora più piena: al momento li abbiamo sistemati ovunque, sulle scrivanie, nelle étageres, presto anche nel frigorifero; e, curiosamente, i libri sono ancora lì ma io me ne sono andato) e soprattutto di venire portato molto piccolo a vedere il teatro, quando al mio paese ce ne era ancora uno. Non so quanto sia plausibile, ma la mia teoria è che vedere le idee in movimento, vive e presenti davanti a te, che si muovono e combattono sul palco, è il principale stimolo a confrontarsi con le proprie idee e a tradurle in parole che suonino bene. Infatti la prima cosa ardita che io abbia mai tentato di scrivere – con ambizioni letterarie, intendo – è stata una riduzione teatrale de Il Fu Mattia Pascal, un romanzo che evidentemente all’epoca ritenevo avesse bisogno dei miei miglioramenti. Per fortuna l’impresa è stata abbandonata verso un terzo della seconda scena, ma mi è rimasta l’abitudine di continuare a scrivere ogni pomeriggio, quando invece avrei dovuto imparare i paradigmi greci o la tavola periodica, fino agli esami di maturità. Tanta cocciutaggine nello scrivere invece di studiare mi ha portato oggi ad avere un gruzzoletto di lettori (intendo i lettori veri, quelli che non conoscono l’autore, ché parenti e amici quantunque critici non contano) e a fare il ricercatore a Oxford, anche se devo ammettere che qualcosa non mi torna.


Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Direi soprattutto razionalità, per lo meno otto decimi. Visto che siamo in vena di autobiografismi, le faccio un esempio pratico. Quando avevo 16 anni nutrivo una passione smodata, oltre che per delle signorine sulle quali glisso, nei confronti di James Joyce; la cosa che più mi affascinava di lui era quello che suo padre aveva sintetizzato in una dichiarazione colorita quando ancora il figlio era bambino: “Paracadutate quel piccolo manigoldo nel bel mezzo di un deserto e la prima cosa che farà sarà sedersi a disegnare una mappa”. Questa tassonomia è evidentissima nelle opere di Joyce, sulle quali glisso come sulle signorine, e spero sia abbastanza ragionevole pretendere che i lettori la scorgano anche nelle mie. Sempre – anche negli aborti narrativi o nei testi adolescenziali compiuti che, Dio sia lodato, nessuno ha pubblicato mai – la prima cosa che ho fatto è stata sedermi a disegnare una mappa. In fin dei conti, vista con gli occhi dell’autore, la narrativa è un deserto di pagine bianche: per sopravvivere bisogna premunirsi. Non sono mai partito senza sapere dove sarei arrivato. Non ho mai lasciato che l’espressione più o meno capricciosa di un sentimento momentaneo si sovrapponesse alla forma definitiva e ideale che un testo doveva assumere per risultare formalmente valido. Non ho mai scritto a occhi chiusi.
I restanti due decimi di istinto creativo arrivano all’inizio e alla fine. All’inizio, con l’apparizione improvvisa di un’ideona che prima non avevo (ma nella serena consapevolezza che quasi sempre lo spunto iniziale è sbagliato, e più che a svilupparlo il lavorio successivo serve a superarlo); alla fine, quando con rapido segno di penna sullo stampato correggo o elimino quello che ho sudato mesi per produrre.


Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Moravia, beato lui. Si vede che aveva molto tempo libero o, come presumo, veniva pagato appositamente per scrivere. Al momento questa fortuna mi capita molto di rado quindi – in particolar modo ora che ho un lavoro accademico che mi porta via le ore migliori del giorno, dalle nove alle cinque – la mia giornata di scrittore inizia più tardi. O dovrebbe iniziare più tardi, se stessi scrivendo un romanzo – cosa che per abitudine e scaramanzia non rivelo se non a romanzo pubblicato, di fronte al fatto compiuto. Quando non lavoravo, oltre a essere visibilmente più povero ero anche molto più libero: questo mi consentiva di conservare una regolarità da metronomo dalla quale però, collocandosi in una situazione meno disperata, di tanto in tanto derogavo ingiustificabilmente. Tradotto: quando potevo mettermi ogni giorno a scrivere alle nove, riuscivo a trovare mille scuse. Ora che devo aspettare le cinque e ho poche ore prima di crollare dal sonno, non perdo un minuto.
Devo specificare che per diventare scrittori non basta scrivere. Anzi, quello è il meno. Bisogna essere lettori onnivori, ossessivi e critici. Ogni giorno in cui, per contrarietà o svogliatezza, non leggo nemmeno una pagina di un libro – intendo oltre a quelli coi quali ho a che fare per il lavoro accademico – è un giorno sprecato. Sono lieto del fatto che anche in questo caso il radicale cambiamento di ritmo che mi è stato imposto non ha scalfito la mia volontà impossibile di leggere prima o poi, con calma, tutto quello che è stato scritto: da disoccupato leggevo un paio d’ore dopo pranzo, ora leggo un paio d’ore dopo cena. Sono peraltro molto rigido sulla quantità e sull’intensità della lettura. Sotto le cento pagine al dì mi sento istintivamente in colpa, quali che possano essere le scusanti. Idem sotto i dieci libri al mese, anche se preferirei un po’ di più. La cifra ideale con la quale inauguro ogni anno è 144: se al capodanno successivo mi rendo conto di aver letto dodici libri al mese, vuol dire che funziono ancora. Né posso barare perché dal 1996 tengo un elenco di ogni libro che leggo e via via li conto, come diceva Benedetto Croce, “per invigilare me stesso”.
Ma più che con Moravia concordo con Checov, secondo il quale per distinguere uno scrittore basta sapere cosa fa appena si sveglia: se il primo pensiero corre a ciò che sta scrivendo, lo è; se invece pensa al lavoro, ai soldi, alla moglie o alla gloria di Dio non lo è. Da quando ho iniziato a lavorare sul serio ogni mattina mi sveglio col terrore di scoprirmi mentre sto pensando ad altro, ma ogni notte mi corico con la coscienza a posto. Tutto sta nell’avere metodo, applicarsi e alzare ogni giorno di più la soglia della sofferenza – perché se fatto seriamente leggere e scrivere è una fatica, altro che piacere. L’ispirazione la lascio ai dilettanti, mi basta il talento.


Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Mi siedo e scrivo. Tutto qui. Non che la cosa sia facile, ma consideri che l’attività di uno scrittore – o almeno la mia, poi chi non è d’accordo fatti suoi – si svolge lontana dalla scrivania. Sull’autobus, nella doccia, a letto o addirittura mentre leggo libri altrui non solo mi vengono idee ma ho – la prego di non farmi internare per così poco – come la visione delle parole che potrei scrivere per esprimere questa o quella idea: le vedo comporsi davanti ai miei occhi e quindi è facile riordinarle e rimaneggiarle fino a trovare la combinazione migliore. Questo vale almeno per l’attacco di ogni capitolo o recensione o articolo, se non (come in passato) per racconti interi. L’attacco dà l’abbrivio e il ritmo, quindi il resto si dipana abbastanza facilmente, è più una conseguenza che una conquista. Per cui quando sono alla mia scrivania, supporto che ahimè cambia spesso locazione e identità, finisco per sapere già cosa farò e per non avere bisogno né di particolari stimoli né di distrazioni.


Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

Ho avuto la grandissima sfortuna di leggere molti classici della narrativa del XIX e XX secolo in piena adolescenza: questo mi impedisce oggi di accostarmi con occhi ingenui a questi stessi testi, e forse anche ai miei stessi, che sento gravati non del paragone ma quanto meno dell’aspirazione. Poiché intuisco che desidera qualche nome, e poiché so che potrei fargliene una cinquantina, mi limito a cinque per decenza di compromesso: nell’ordine Joyce, Proust, Pirandello, Beckett e Wilde. L’Ulisse l’ho riletto cinque o sei volte, in Italiano, Inglese e Francese, e non contento ne colleziono le diverse edizioni (l’altro giorno ho comprato l’anastatica del testo del 1922 stampata proprio qui a Oxford). In generale a partire dall’anno scorso mi sono reso conto che era tempo di rileggere tutti i libri sui quali mi ero formato una coscienza di scrittore, immatura quantunque, perché pur sapendo già cosa c’è scritto dentro avrei potuto trovarci del nuovo; e poi una rinfrescata non fa mai male. Rileggendo mi sorprendono gli effetti nascosti della sedimentazione. Qualche settimana fa ho riletto la trilogia Molloy, Malone muore, L’Innominabile di Samuel Beckett – che avevo letto originariamente nel 1998 – e sono rimasto sorpreso di quante risonanze trovassi con scelte retoriche o narrative che ho regolato su quel testo, anche inconsapevolmente e a distanza di dieci anni.


L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Io ho goduto di entrambe le opportunità, ma con misura. Dopo essermene andato dalla Puglia quando ero ancora minorenne ho vissuto: a Pavia, dove ho potuto incontrare Cosimo Argentina il quale non s’è fatto scrupolo di intuire un possibile autore nel ragazzino presuntuoso e barbuto che aveva davanti; a Napoli, dove ho conosciuto Antonella Cilento che è ammirevole nel suo tentativo di scovare sempre nuovi talenti e, per niente che può fare, almeno parlarci e non farli sentire isolati nel nulla più assoluto; a Modena, che è a due passi da Parma dove vive Camillo Langone il quale, oltre a dare utilissime sferzate alla compiaciuta psicologia degli autori (anche affermatissimi, figuriamoci la mia), offre anche del vino straordinario, il che non guasta. A Oxford non ho ancora incontrato nessuno.
Senza internet, tuttavia, forse avrei già smesso di scrivere. Ho trovato una nuova identità quando ho preso a scrivere recensioni sul web a inizio 2006: nella consapevolezza che pubblicare su carta era difficillimo, ho riversato ingegno e sofferenza nel tentativo di dare allo strumento-recensione una struttura che si attagliasse a quello che volevo dire, anzi soprattutto a come volevo dirlo. Ci ho marciato e ho tentato di produrre una specie di divulgazione letteraria ironica e di qualità. Ora mi contengo, ma nel mio primo anno di recensioni i libri altrui erano un pretesto per parlare di qualsiasi cosa, deridere personaggi o costumanze, corteggiare ignote lettrici, passare il tempo. Michela Murgia dice che le mie recensioni sono più interessanti dei libri di cui parlo: ma mi vuole bene e quindi esagera. La verità è che grazie al web il nome è circolato – oggi mi vanto fra l’altro di essere uno dei tre coordinatori di Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport – e le cose iniziano a cambiare anche per le pubblicazioni a stampa, che erano e resteranno il mio obiettivo.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Altro esempio pratico: se non scrivessi, potrei tornare a casa dal lavoro sapendo che non ho da rimettermi al computer o di fronte a un libro per ore e ore supplementari. Potrei magari uscire più spesso, godermi maggiormente la vita (concordemente col clima inglese) e soprattutto non pensare continuamente a tradurre qualsiasi atto, qualsiasi pensiero, qualsiasi momento in parole. Non è escluso che un giorno molli, a mio arbitrio, e possa permettermi di ricalibrare le mie giornate. Per ora tuttavia continuo a tirare la corda finché non si spezza, a provare e riprovare, a svegliarmi ogni mattina pensando a cosa scrivere e come: se non lo facessi non mi sentirei a posto con la coscienza e con l’immagine di me che mi sono fatto in prospettiva, nel futuro, quando tutto questo seminato verrà, mi auguro, raccolto. Si tratta di decidere, citando Nietzsche a sproposito, “come si diventa ciò che si è”. Io voglio essere Gurrado.


La ringrazio e buona scrittura.

Speriamo.

sabato 6 giugno 2009

From the Padel to the brace

(Gurrado per Il Foglio)

La Noemi d’Inghilterra si chiama Ruth Padel: non vince concorsi di bellezza ma scrive poesie, e anzi può vantarsi di essere stata la prima donna a occupare la cattedra di Poesia a Oxford. Per quasi due settimane. Dopo di che è stata invitata a dimettersi per aver favorito con qualche mail delatoria il ritiro dalla competizione del suo più accreditato rivale, il Nobel Derek Walcott. Pochi giorni prima dell’assegnazione della cattedra qualcuno aveva improvvisamente ricordato che una ventina d’anni fa Walcott avrebbe molestato delle sue alunne, anche se non s’è ben capito quante, come e soprattutto chi. Fatto fuori il primo a metà maggio, fatta fuori la seconda l’altro giorno, ora la cattedra fluttua verso l’indiano Arvind Mehrotra, persona noiosissima che a quanto pare non ha mai molestato né diffamato nessuno. Il tutto a conferma che Oxford è un’accademia trasparente e democratica, e che quindi facciamo bene a invidiarla; quando invece ogni elemento dello scandalo dimostra che non dovremmo affatto.

Innanzitutto l’esistenza di una cattedra di Poesia, con l’iniziale maiuscola, è aberrante. Ricorda i grafici cartesiani atti a misurare la grandezza di un’opera ne L’Attimo Fuggente; richiama un’istintiva assonanza col ministero dell’Amore in 1984. Oxford patrocina un’idea di eugenetica culturale per cui tutto può essere insegnabile, smontabile, riproducibile; tutto dev’essere infilato nel tritacarne accademico per uscirne riassunto, codificato, omologato. Senza contare che suona ridicolo che un premio Nobel debba mettersi in fila per una cattedra nel suo campo, e magari perdere, in nome di un egualitarismo prudente e parossistico. Ci si è basati sull’assunto che fosse l’istituzione a dar gloria all’individuo quando è l’esatto contrario. Oxford avrebbe dovuto implorare Walcott per ottenerne l’onore di concedergli la cattedra. Walcott avrebbe dovuto rinunciare nobilmente dicendo che certe cose sono troppo importanti e belle per essere insegnate.


E poi, le molestie. Gli Inglesi godono del vizio vittoriano-protestante di valutare una persona in base a quello che combina in camera da letto. Nel 2004 un buon ministro come David Blunkett fu rimosso perché aveva fatto non so cosa con non so chi, caso che non aveva niente a che vedere col bene della nazione, così come le eventuali molestie di Walcott non avrebbero niente a che vedere col suo talento poetico. Oxford è una perfetta cassa di risonanza per questo moralismo da tre lire, con la sua morbosa lista di cose consentite e vietate che opprime ogni studente o ricercatore; per ottenere accesso alla biblioteca Bodleiana bisogna ancora certificare esplicitamente la propria intenzione di non dar fuoco agli incunaboli. Sull’ottusità del luogo ha scritto passi memorabili gente come Oscar Wilde o Martin Amis, quindi è inutile tornare sull’argomento.

In generale il confine delle molestie inglesi si è allargato a dismisura: nei pub si appendono predicozzi sulla sconvenienza di attaccare bottone con sconosciute; in ufficio bisogna presentarsi con la cintura di castità perché ogni atto può essere frainteso e ogni contatto potrebbe valere una denuncia. Non sto parlando di pacche sul didietro, bensì di portare a una collega un cioccolatino assieme al caffè. Magari un giorno verrà fuori che vent’anni fa Walcott ha lasciato cadere complimenti innocui. Magari è solo un vecchio porco maldestro, e se non altro ciò lo renderebbe più simpatico.

Infine l’atteggiamento degli intellettuali. La più rappresentativa di tutte è stata Jeanette Winterson, la quale non s’è l’è fatto dire due volte e ha dichiarato che Oxford è un “piccolo cesso maschilista”. Non ha considerato che Oxford non è piccola affatto e soprattutto che la principale vittima di questo scandalo provinciale è un maschio. Non ha capito che grazie a gente come lei la nazione intera sta venendo immobilizzata dall’isteria per il politically correct. Se si chiede a un africano di rispettare la fila per l’autobus, è razzismo. Se non si concede la strada principale ai predicatori mussulmani, è discriminazione religiosa. Se in metrò si cede la seggiola a una signora è sessismo, se si offre aiuto a una nonnina che deve attraversare la strada è ageism – un reato che in Italia scopriremo fra qualche tempo e tradurremo con “vecchismo”. Guai a sorridere a un bambino. Guai a calciare un pallone al di fuori delle zone e degli orari previsti.

In tutto questo emerge un solo aspetto positivo. Grazie alle sue mail delatorie, Ruth Padel ha finalmente scritto qualcosa per cui varrà la pena di ricordarla.

giovedì 4 giugno 2009

Oi dialogoi

"Sai, oggi è uscito il mio primo articolo sul Foglio."
"Bene, di che parli?"
"E che ne so. Il Foglio mica arriva a Oxford."

"Sai, oggi è uscito il mio primo articolo sul Foglio."
"Quindi stai ormai entrando nell'establishment."
"Di più, nello star system."

"Sai, oggi è uscito il mio primo articolo sul Foglio."
"Corro a comprarlo, ma me lo faccio nascondere nel Manifesto."

lunedì 1 giugno 2009

Corridor voices


Finalmente ha un volto l'autore dello spiacevole editoriale
del Times di oggi su Berlusconi.
Eccolo in una rara foto segnaletica: