domenica 7 giugno 2009

Lo scrittore della domenica

(Intervista concessa da Gurrado al blog Sul Romanzo)

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.

Se devo indicare un anno preciso, direi il 1995: avevo 14 anni e, poiché al ginnasio non ci davano compiti abbastanza, per allungare i pomeriggi e non far preoccupare i miei genitori scrivevo ogni giorno due o tre pagine di fatti miei su un quaderno a quadretti – che dovrei ancora aver conservato da qualche parte, ma non lo dica troppo in giro altrimenti si scatena la caccia al tesoro. Più che caso fortuito è stata conseguenza naturale della fortuna di vivere in una casa piena di libri (che nel frattempo è diventata ancora più piena: al momento li abbiamo sistemati ovunque, sulle scrivanie, nelle étageres, presto anche nel frigorifero; e, curiosamente, i libri sono ancora lì ma io me ne sono andato) e soprattutto di venire portato molto piccolo a vedere il teatro, quando al mio paese ce ne era ancora uno. Non so quanto sia plausibile, ma la mia teoria è che vedere le idee in movimento, vive e presenti davanti a te, che si muovono e combattono sul palco, è il principale stimolo a confrontarsi con le proprie idee e a tradurle in parole che suonino bene. Infatti la prima cosa ardita che io abbia mai tentato di scrivere – con ambizioni letterarie, intendo – è stata una riduzione teatrale de Il Fu Mattia Pascal, un romanzo che evidentemente all’epoca ritenevo avesse bisogno dei miei miglioramenti. Per fortuna l’impresa è stata abbandonata verso un terzo della seconda scena, ma mi è rimasta l’abitudine di continuare a scrivere ogni pomeriggio, quando invece avrei dovuto imparare i paradigmi greci o la tavola periodica, fino agli esami di maturità. Tanta cocciutaggine nello scrivere invece di studiare mi ha portato oggi ad avere un gruzzoletto di lettori (intendo i lettori veri, quelli che non conoscono l’autore, ché parenti e amici quantunque critici non contano) e a fare il ricercatore a Oxford, anche se devo ammettere che qualcosa non mi torna.


Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

Direi soprattutto razionalità, per lo meno otto decimi. Visto che siamo in vena di autobiografismi, le faccio un esempio pratico. Quando avevo 16 anni nutrivo una passione smodata, oltre che per delle signorine sulle quali glisso, nei confronti di James Joyce; la cosa che più mi affascinava di lui era quello che suo padre aveva sintetizzato in una dichiarazione colorita quando ancora il figlio era bambino: “Paracadutate quel piccolo manigoldo nel bel mezzo di un deserto e la prima cosa che farà sarà sedersi a disegnare una mappa”. Questa tassonomia è evidentissima nelle opere di Joyce, sulle quali glisso come sulle signorine, e spero sia abbastanza ragionevole pretendere che i lettori la scorgano anche nelle mie. Sempre – anche negli aborti narrativi o nei testi adolescenziali compiuti che, Dio sia lodato, nessuno ha pubblicato mai – la prima cosa che ho fatto è stata sedermi a disegnare una mappa. In fin dei conti, vista con gli occhi dell’autore, la narrativa è un deserto di pagine bianche: per sopravvivere bisogna premunirsi. Non sono mai partito senza sapere dove sarei arrivato. Non ho mai lasciato che l’espressione più o meno capricciosa di un sentimento momentaneo si sovrapponesse alla forma definitiva e ideale che un testo doveva assumere per risultare formalmente valido. Non ho mai scritto a occhi chiusi.
I restanti due decimi di istinto creativo arrivano all’inizio e alla fine. All’inizio, con l’apparizione improvvisa di un’ideona che prima non avevo (ma nella serena consapevolezza che quasi sempre lo spunto iniziale è sbagliato, e più che a svilupparlo il lavorio successivo serve a superarlo); alla fine, quando con rapido segno di penna sullo stampato correggo o elimino quello che ho sudato mesi per produrre.


Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Moravia, beato lui. Si vede che aveva molto tempo libero o, come presumo, veniva pagato appositamente per scrivere. Al momento questa fortuna mi capita molto di rado quindi – in particolar modo ora che ho un lavoro accademico che mi porta via le ore migliori del giorno, dalle nove alle cinque – la mia giornata di scrittore inizia più tardi. O dovrebbe iniziare più tardi, se stessi scrivendo un romanzo – cosa che per abitudine e scaramanzia non rivelo se non a romanzo pubblicato, di fronte al fatto compiuto. Quando non lavoravo, oltre a essere visibilmente più povero ero anche molto più libero: questo mi consentiva di conservare una regolarità da metronomo dalla quale però, collocandosi in una situazione meno disperata, di tanto in tanto derogavo ingiustificabilmente. Tradotto: quando potevo mettermi ogni giorno a scrivere alle nove, riuscivo a trovare mille scuse. Ora che devo aspettare le cinque e ho poche ore prima di crollare dal sonno, non perdo un minuto.
Devo specificare che per diventare scrittori non basta scrivere. Anzi, quello è il meno. Bisogna essere lettori onnivori, ossessivi e critici. Ogni giorno in cui, per contrarietà o svogliatezza, non leggo nemmeno una pagina di un libro – intendo oltre a quelli coi quali ho a che fare per il lavoro accademico – è un giorno sprecato. Sono lieto del fatto che anche in questo caso il radicale cambiamento di ritmo che mi è stato imposto non ha scalfito la mia volontà impossibile di leggere prima o poi, con calma, tutto quello che è stato scritto: da disoccupato leggevo un paio d’ore dopo pranzo, ora leggo un paio d’ore dopo cena. Sono peraltro molto rigido sulla quantità e sull’intensità della lettura. Sotto le cento pagine al dì mi sento istintivamente in colpa, quali che possano essere le scusanti. Idem sotto i dieci libri al mese, anche se preferirei un po’ di più. La cifra ideale con la quale inauguro ogni anno è 144: se al capodanno successivo mi rendo conto di aver letto dodici libri al mese, vuol dire che funziono ancora. Né posso barare perché dal 1996 tengo un elenco di ogni libro che leggo e via via li conto, come diceva Benedetto Croce, “per invigilare me stesso”.
Ma più che con Moravia concordo con Checov, secondo il quale per distinguere uno scrittore basta sapere cosa fa appena si sveglia: se il primo pensiero corre a ciò che sta scrivendo, lo è; se invece pensa al lavoro, ai soldi, alla moglie o alla gloria di Dio non lo è. Da quando ho iniziato a lavorare sul serio ogni mattina mi sveglio col terrore di scoprirmi mentre sto pensando ad altro, ma ogni notte mi corico con la coscienza a posto. Tutto sta nell’avere metodo, applicarsi e alzare ogni giorno di più la soglia della sofferenza – perché se fatto seriamente leggere e scrivere è una fatica, altro che piacere. L’ispirazione la lascio ai dilettanti, mi basta il talento.


Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Mi siedo e scrivo. Tutto qui. Non che la cosa sia facile, ma consideri che l’attività di uno scrittore – o almeno la mia, poi chi non è d’accordo fatti suoi – si svolge lontana dalla scrivania. Sull’autobus, nella doccia, a letto o addirittura mentre leggo libri altrui non solo mi vengono idee ma ho – la prego di non farmi internare per così poco – come la visione delle parole che potrei scrivere per esprimere questa o quella idea: le vedo comporsi davanti ai miei occhi e quindi è facile riordinarle e rimaneggiarle fino a trovare la combinazione migliore. Questo vale almeno per l’attacco di ogni capitolo o recensione o articolo, se non (come in passato) per racconti interi. L’attacco dà l’abbrivio e il ritmo, quindi il resto si dipana abbastanza facilmente, è più una conseguenza che una conquista. Per cui quando sono alla mia scrivania, supporto che ahimè cambia spesso locazione e identità, finisco per sapere già cosa farò e per non avere bisogno né di particolari stimoli né di distrazioni.


Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?

Ho avuto la grandissima sfortuna di leggere molti classici della narrativa del XIX e XX secolo in piena adolescenza: questo mi impedisce oggi di accostarmi con occhi ingenui a questi stessi testi, e forse anche ai miei stessi, che sento gravati non del paragone ma quanto meno dell’aspirazione. Poiché intuisco che desidera qualche nome, e poiché so che potrei fargliene una cinquantina, mi limito a cinque per decenza di compromesso: nell’ordine Joyce, Proust, Pirandello, Beckett e Wilde. L’Ulisse l’ho riletto cinque o sei volte, in Italiano, Inglese e Francese, e non contento ne colleziono le diverse edizioni (l’altro giorno ho comprato l’anastatica del testo del 1922 stampata proprio qui a Oxford). In generale a partire dall’anno scorso mi sono reso conto che era tempo di rileggere tutti i libri sui quali mi ero formato una coscienza di scrittore, immatura quantunque, perché pur sapendo già cosa c’è scritto dentro avrei potuto trovarci del nuovo; e poi una rinfrescata non fa mai male. Rileggendo mi sorprendono gli effetti nascosti della sedimentazione. Qualche settimana fa ho riletto la trilogia Molloy, Malone muore, L’Innominabile di Samuel Beckett – che avevo letto originariamente nel 1998 – e sono rimasto sorpreso di quante risonanze trovassi con scelte retoriche o narrative che ho regolato su quel testo, anche inconsapevolmente e a distanza di dieci anni.


L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?

Io ho goduto di entrambe le opportunità, ma con misura. Dopo essermene andato dalla Puglia quando ero ancora minorenne ho vissuto: a Pavia, dove ho potuto incontrare Cosimo Argentina il quale non s’è fatto scrupolo di intuire un possibile autore nel ragazzino presuntuoso e barbuto che aveva davanti; a Napoli, dove ho conosciuto Antonella Cilento che è ammirevole nel suo tentativo di scovare sempre nuovi talenti e, per niente che può fare, almeno parlarci e non farli sentire isolati nel nulla più assoluto; a Modena, che è a due passi da Parma dove vive Camillo Langone il quale, oltre a dare utilissime sferzate alla compiaciuta psicologia degli autori (anche affermatissimi, figuriamoci la mia), offre anche del vino straordinario, il che non guasta. A Oxford non ho ancora incontrato nessuno.
Senza internet, tuttavia, forse avrei già smesso di scrivere. Ho trovato una nuova identità quando ho preso a scrivere recensioni sul web a inizio 2006: nella consapevolezza che pubblicare su carta era difficillimo, ho riversato ingegno e sofferenza nel tentativo di dare allo strumento-recensione una struttura che si attagliasse a quello che volevo dire, anzi soprattutto a come volevo dirlo. Ci ho marciato e ho tentato di produrre una specie di divulgazione letteraria ironica e di qualità. Ora mi contengo, ma nel mio primo anno di recensioni i libri altrui erano un pretesto per parlare di qualsiasi cosa, deridere personaggi o costumanze, corteggiare ignote lettrici, passare il tempo. Michela Murgia dice che le mie recensioni sono più interessanti dei libri di cui parlo: ma mi vuole bene e quindi esagera. La verità è che grazie al web il nome è circolato – oggi mi vanto fra l’altro di essere uno dei tre coordinatori di Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport – e le cose iniziano a cambiare anche per le pubblicazioni a stampa, che erano e resteranno il mio obiettivo.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Altro esempio pratico: se non scrivessi, potrei tornare a casa dal lavoro sapendo che non ho da rimettermi al computer o di fronte a un libro per ore e ore supplementari. Potrei magari uscire più spesso, godermi maggiormente la vita (concordemente col clima inglese) e soprattutto non pensare continuamente a tradurre qualsiasi atto, qualsiasi pensiero, qualsiasi momento in parole. Non è escluso che un giorno molli, a mio arbitrio, e possa permettermi di ricalibrare le mie giornate. Per ora tuttavia continuo a tirare la corda finché non si spezza, a provare e riprovare, a svegliarmi ogni mattina pensando a cosa scrivere e come: se non lo facessi non mi sentirei a posto con la coscienza e con l’immagine di me che mi sono fatto in prospettiva, nel futuro, quando tutto questo seminato verrà, mi auguro, raccolto. Si tratta di decidere, citando Nietzsche a sproposito, “come si diventa ciò che si è”. Io voglio essere Gurrado.


La ringrazio e buona scrittura.

Speriamo.

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