martedì 14 luglio 2009

Chiuso per ferie


Gurrado se ne approfitta e va in vacanza.



Se ne riparla intorno al 5 agosto.

Critica della critica critica

(Gurrado per Quasi Rete)

Questo titolo marxiano per una squadra di marziani doveva nelle mie intenzioni annunciare un intervento strutturato, onnicomprensivo e graffiante sull’economia pallonara e il costo dei sogni. O, come avrebbe detto non ricordo più chi, “un contributo barboso a una discussione sterile”. Invece fa caldo, sono sfinito dai lavori arretrati, ho sul groppone un volo transmarino (transmanicheo?) e quindi dovrete accontentarvi di alcune considerazioni sparse, una rapsodia di mezze idee.

1. Il commento che ha scatenato la ridda di reazioni irritate, più ancora della lettera di Nacho Duque García, l’ho scritto al culmine di un duro periodo di lavoro e soprattutto dopo aver mangiato più bacon di quanto uno stomaco sano, umano e soprattutto italiano possa sopportare. I toni erano accesi e me ne scuso. La prossima volta che mi verrà in mente di scrivere robe del genere comprerò una pagina dell’International Herald Tribune.

2. Non credo che i soldi del Real e di Florentino siano sterco del demonio mentre quelli, dico a caso, del Chievo e di Campedelli emanino verbena. I soldi nel calcio sono necessari ma non sufficienti. Nessun progetto di supersquadra s’è mai salvato da un naufragio più o meno prematuro: io ricordo ancora cosa dicevano i miei amici interisti quando Moratti acquistò Vieri per affiancarlo a Ronaldo; né mi risulta che l’avesse preso gratis. Il calcio ha in sé i suoi anticorpi, un curioso cupio dissolvi che alla fine evita che la squadra più ricca non sia necessariamente la più vincente. Butto lì gli esempi della Sampdoria di Mantovani o del Verona di Bagnoli, ché il mio inconscio calcistico si commuove sempre quando ci pensa.

3. I soldi nel calcio hanno sempre destato scandalo. Fu così quando il Napoli superò il muro dei cento milioni per comprare Jeppsòn, rigorosamente con l’accento sull’ultima. Quando il primo contrasto lo spedì a terra, un pittoresco spettatore commentò: “È carut’o’ Bangh’e’ Napule”. Si disse che era la fine del calcio, il calcio continuò. Fu così anche quando Berlusconi spese sessantatre miliardi per acquistare Lentini. Nessuno considerò che i sessantatrè miliardi erano esattamente l’attivo del bilancio che il Milan era libero di spendere per chiudere in pareggio. Si disse che era finito il calcio, il calcio continuò.

4. Nacho mi ha scritto una vibrante mail in tre lingue per spiegarmi il punto fondamentale che sfugge a molti italiani, me compreso: il Real (come il Barça) è un club, non una società. Florentino possiede una quota esattamente come l’ultimo degli abbonati ed è stato democraticamente eletto a seguito di regolare voto dietro presentazione di dettagliato programma, roba che in Italia ci sogniamo. Questo sistema responsabilizza il tifoso e permette di isolare le frange violente, ma soprattutto consente una diversa distribuzione dei dividendi che è talmente complessa che mi addormenterei io stesso a spiegarvi il poco che ne ho capito. Per tagliare la testa al toro (non me ne voglia Maresca), non si tratta dello sceicco Mohammed Al-Salaam che rileva il Fanfulla, compra i campioni intergalattici che ha vagamente sentito nominare e ne fa la squadra più forte del continente in men che non si dica, ricavandone esclusivamente arricchimento personale e marketing a tappeto.

5. Florentino è recidivo. Nel 2001 spese mezzo debito pubblico del Lesotho per comprare Zidane e creò così la leggenda della più forte Juventus post-trappattoniana. Magari ha lo stesso effetto sul Milan, chi può dirlo.

6. Florentino agisce mosso da un ideale, il Real di quando lui era piccolo che schierava tutti insieme Del Sol, Di Stéfano, Puskas e Gento. Anche all’epoca, non mi risulta che giocassero gratis.

7. Ma poi ha senso scandalizzarsi per un calciatore che guadagna dieci milioni l’anno ed entusiasmarsi per quello che ne guadagna uno appena? Si tratta in entrambi i casi di cifre spropositate per giocare a pallone; ma se fossimo seriamente scandalizzati ci metteremmo a seguire il badminton, piuttosto. Invece sotto sotto ci piace, è come quando compriamo Playboy e diciamo che tette così grandi sono irreali. E poi ha senso scandalizzarsi per un presidente che spende 90 milioni per un calciatore e non per il calciatore che è pronto a cambiare casacca alla velocità della luce dietro adeguato conguaglio? Possibile che la colpa sia sempre di chi paga e non di chi guadagna?

8. La storia dell’Atalanta è rispettabilissima, ci mancherebbe. Io nutrivo un’ammirazione sconsiderata nei confronti di Glenn Peter Strömberg, e non più di cinque minuti fa mi sono reso conto di riuscire a riconoscere al volo in vecchie foto l’orobico Evaristo Nicolini, così come il cremonese Ernesto Piccioni, l’interista Astutillo Malgioglio e il cesenate d’adozione Davor Jozic. Per Nacho il Real è talmente differente da tutte le altre le altre squadre per la maniera in cui tratta la propria storia, e infatti tifa per il Real. Per Stefano Corsi l’Atalanta è diversa dalle altre squadre per la maniera in cui tratta la propria storia, e tifa per l’Atalanta. Non vedo differenze, ognuno ama la donna più bella.

9. Per fortuna a calcio si gioca in due. Nel 1999 il Milan festeggiò il centenario con una partita fra Milan rossonero e Milan bianco che io mi disposi a vedere su Canale 5 con tutte le buone intenzioni; fu una delusione, mancava qualcuno, mancava l’altra squadra. Sembrava la riedizione deluxe delle amichevoli fra titolari e primavera che la Juventus organizzava a Villar Perosa ai beati tempi dell’Avvocato. Il Real Madrid non avrebbe fatto la propria storia senza, cito nell’ordine, Stade Reims, Fiorentina, Milan, Eintracht Francoforte e Benfica – per limitarci alle Coppe in bianco e nero (ragion per cui Nacho, fra parentesi, ama vantarsi che il Real “non gioca la Copa de Europa, la difende”). Pur ipotizzando un futuro radiosamente trionfale per il mastodontico Real di Florentino, ogni vittoria avrà bisogno di un avversario, e ciascuno di loro contribuirà all’eventuale gloria della Real Casa come Kakà e Cristiano Ronaldo. Poi, siccome non si può vincere sempre (Gino, ti ricordi che mazzata il goal di Asprilla in Milan-Parma 0-1? non accadeva da 52 partite, io avevo tredici anni e m’ero dimenticato in fretta come si perdeva; fu oltremodo salutare), arriverà un momento in cui il Real perderà. Sarà contro il Barcellona, sarà contro il Saragozza, sarà contro il Recreativo Huelva? In tutti i casi, e soprattutto nell’ultimo, la magnificenza della pompa realista servirà come vertiginoso piedistallo per la gloria dei vincitori a sorpresa. Sarà bellissimo per chi ama il calcio, e non sarebbe possibile se invece di Kakà e Cristiano Ronaldo Florentino avesse comprato me e Oniewu. Senza calcolare la quantità raccapricciante di denaro che entrerà nelle casse della squadra di Tercera División che pescherà il Real al primo turno di Coppa del Re.

10. C’è un paradosso, che come tutti i paradossi abbaglia ma può essere quasi educativo. Scialacquare è una maniera di dimostrare che il denaro non è tutto, giusta o sbagliata che possa apparire. Non amo le piccole squadre e, soprattutto, i piccoli presidenti che passano la vita a lamentarsi della ricchezza altrui: lo fanno solo per spacciarsi per poveri e giustificare la propria incapacità di spendere bene; lo fanno soprattutto per invidia, vorrebbero essere loro al posto di Florentino. Per fortuna non sono tutti così. Ma mi ricordano il noto aforisma di Oscar Wilde: “Il problema delle classi povere è che pensano sempre ai soldi”.

Infine (10 e mezzo) ribadisco ciò che ho già scritto nel commento al bello e saggio pezzo di Andrea Maietti: Lungi da me la prospettiva dello scisma degli "spagnoli": io e Nacho non creeremo il blog "Tacalabala" così come presumo che voi non creerete "Zeru soldi". Come sempre, credo che la verità sia nel mezzo e che nel calcio come altrove i soldi servono ma solo se accompagnati da tante altre doti - altrimenti si diventa Paris Hilton; e proprio ieri un professore mi faceva notare che se Voltaire non fosse stato ricco, non avrebbe avuto il tempo di scrivere così tanto e l'Europa avrebbe perduto uno dei suoi più grandi intellettuali, oltre ai benefici effetti socioculturali che si dice che abbia avuto. Se fossi protestante amerei le separazioni; ma come diceva uno che non ricordo, "sono cattolico e voglio tutto". Il che implica non solo che mi piacciono sia le trattorie sia i Grand Hotel, sarò contento degli scintillanti trionfi del Real e dei piccoli David che sottometteranno questo costosissimo Golia; ma significa soprattutto che mi preme tenere insieme tutti i pezzi, come raggi che si propagano in infinite direzioni contraddittorie ma movendo dallo stesso nucleo solare, l'amore per una palla che rotola e la capacità di commuoversi recitando a memoria almeno una formazione storica. Che un giorno potrebbe essere il Real di Florentino.

lunedì 13 luglio 2009

Le mortali spire della censura tridentina

Dall'Impero Austro-Ungarico ci segnalano che tentando di accedere a questa pagina si ottiene questa risposta:


Perché il Principe Vescovo si accanisce contro di me? Soprattutto - se cliccate sul dettaglio delle ragioni per negare l'accesso - l'algoritmo "in + cultura + definition + democrat + erotic" sintetizza perfettamente queste pagine virtuali. Ma anche "amor + attenzion + biblioteca + breaking news" è un mix potenzialmente letale. Non so, secondo me ha qualcosa a che fare con il mio articolo sull'edizione italiana di Playboy pubblicato su Tempi qualche mese fa.

domenica 12 luglio 2009

Effetti del caldo


(Gustave Doré, Elia rapito in cielo)

"I profeti di oggi sono don Ciotti, padre Alex Zanotelli
e Famiglia Cristiana che tutte le settimane dice la verità".
(dal comizio di don Vincenzo Mazzotta,
parrocchia dei SS. Nicola e Cecilia a Gravina in Puglia,
nel corso della Messa delle 10:30 di stamattina)

venerdì 10 luglio 2009

Ma chi custodirà il Guardian?

(Gurrado per il Guardian, no, scherzavo: Gurrado per Il Foglio, con alcune variazioni per solutori più che esperti)

Meno male che c’è il Guardian a difendere l’Italia dagli attacchi di Berlusconi. Da quando vivo in Inghilterra lo leggo tutti i giorni e così ho potuto farmi un’idea del mio paese natale, peraltro molto più precisa di quando ancora vivevo lì. Ho potuto apprendere che Berlusconi avrebbe paragonato i terremotati dell’Aquila a campeggiatori di passaggio e che Berlusconi (chi altri?) avrebbe rimediato una figuraccia di fronte alla massima autorità morale dell’universo, Bob Geldof (chi altri?). Ma nelle ultime settimane dal Guardian ho appreso anche che i turisti di Napoli hanno avuto come guide “degli ex detenuti che li avrebbero aiutati ad attraversare la strada nel traffico cittadino, che fa rizzare i capelli” (corrispondenza di Fiona Winward da Roma, 14 giugno 2009). Non mi soffermo sulla sottigliezza polemica di definire, proprio di questi tempi, “the escorts” gli ex galeotti che danno il braccio alle vecchine inglesi; tanto più che la fonte della notizia risulta essere un’intervista dell’assessore Corrado Gabriele a “the Italian newspaper La Repubblica”. Sottolineo invece i timori degli albergatori i quali “non sono convinti che quest’operazione possa promuovere un’immagine corretta di Napoli, la cui reputazione è stata colpita lo scorso anno dal film Gomorra, premiato al Festival di Cannes”. La valenza politica della notizia è manifesta, tanto più che era l’unica che quel giorno fosse trapelata fino all’Inghilterra nonostante la rigida censura informativa vigente in Italia. Ho potuto ammirare l’impegno del trainer Vincenzo Minopoli nel “far sì che nei primi giorni the escorts fossero un po’ meno bruschi con i turisti”; ho potuto condividere il sillogismo dell’ex convitto Pietro Ioia: “è meglio farli lavorare per la Regione piuttosto che per la camorra”. Sono queste le notizie che spiegano tutto di una nazione, sono queste le notizie che fanno grande un quotidiano.

Dopo due giorni di trepida attesa, ho finalmente potuto leggere un’altra notizia approdata sulle bianche costiere di Dover dopo essere sfuggita alle mortali spire della censura berlusconiana: il Comune di Roma mette all’asta su internet 34 tombe extralusso dichiarate abbandonate. La storia dei morti che abbandonano le tombe non può convincere un quotidiano sagace come il Guardian, per nulla prono alla tradizione garibaldina dei martiri nostri tutti risorti, le spade nel pugno e gli allori alle chiome. Novella Bonini, novella D’Avanzo, Fiona Winward da Roma (16 giugno 2009) inchioda la giunta mortuaria con degli inquietanti interrogativi: “Alcuni dei mausolei sembrano essere stati costruiti di recente, e ciò conduce a una domanda necessaria per quanto indelicata: dove si trovano adesso quelli che li occupavano in precedenza?”. Manco ci fosse stata dentro Noemi, le domande restano senza risposte plausibili a meno di considerare tali i vaghi riferimenti “all’ossario comunale” avanzati da un’anonima e un po’ lugubre “cemetery spokeswoman”, la portavoce del cimitero. Il pezzo si chiude sui sospetti di Alessio D’Amato, “a centre-left regional councillor che ha criticato l’iniziativa tacciandola di ‘asta per ricchi’ nel newspaper Corriere della Sera”. In questo caso non s’è trattato solo dell’unica notizia del giorno dall’Italia, ma anche dell’unica altra di tutta la settimana insieme a quella di Napoli. In compenso a tutt’oggi la prima notizia sulla pagina web del Guardian dedicata all’Italia è un commovente resoconto della “lenta morte di Venezia”, risalente al primo marzo.

È per notizie come queste, o come quella di ieri sul G8, che leggo il Guardian tutti i santi giorni. Nonché per poter leggere i commenti sulla politica italiana dei più autorevoli e indipendenti osservatori internazionali. Ad esempio il 21 giugno 2009 trovo sull’Observer, il Guardian della domenica: “Si riteneva un novello Cesare: ora il suo declino è epico” – editoriale di Ezio Mauro che rivendica orgogliosamente il ruolo del suo Italian newspaper: “As far as La Repubblica is concerned, continueremo a fare il nostro lavoro come se fossimo in un Paese normale”. Segue sospiro di sollievo della Gran Bretagna intera. Oppure, sul Guardian del 10 aprile 2009: “Silvio Berlusconi è libero di fare gaffe davanti alla servile stampa italiana” – editoriale di Tana de Zulueta nel quale si rivelano cose inaudite: che Berlusconi detiene il monopolio dell’informazione italiana! che metà dei giornalisti lavora per lui e l’altra metà sa che per lui potrebbe lavorare un giorno! che qualsiasi scempiaggine Berlusconi dica viene non solo censurata dai compiacenti scribacchini ma automaticamente trasformata in intuizione geniale! Voi però siete in Italia e non avreste mai potuto saperlo se non ci fosse stato il Guardian, il cui sito un paio di giorni dopo ha avuto la bella pensata di ripubblicare tradotto il pezzo zuluetesco per consentire ai navigatori italiani di leggerlo – poiché è noto che il dispotico governo Berlusconi ha proibito di sapere l’Inglese – e di scuotersi dal proprio annoso giogo. Io invece sono in Inghilterra e posso leggere tutti gli editoriali di Ezio Mauro che voglio.

Ora, non ditelo a Tana de Zulueta ma leggo il Guardian anche per Alexander Chancellor, un brillante corsivista la cui foto dimostra l’urgente bisogno di un consulente nella scelta dei pullover. Questi, nel suo editoriale del 5 giugno 2009 intitolato “In questi tempi difficili cerchiamo consolazioni affidabili: tradizione, qualità e una scodella di spaghetti”, s’è talmente lasciato prendere dal furore antiberlusconiano da scrivere non solo che “se sei Italiano e al ristorante ordini spaghetti all’amatriciana o melanzane alla parmigiana speri che siano indistinguibili da come li faceva tua nonna” ma anche, piuttosto sorprendentemente nella stessa pagina, che in Italia “l’opposizione di centrosinistra è unimpressive – insignificante - e manca di un leader plausibile”. Io vivo in Inghilterra e non so se questa considerazione sia stata ripresa dalla stampa italiana. Forse è rimasta impigliata per errore nelle mortali spire della censura in entrata.

giovedì 9 luglio 2009

Dimmi cosa leggi

Sul magazine Tempi, in edicola da oggi per tutta la settimana, Gurrado non vi spiega che libri leggete ma pure in che spiaggia andate. Come da copertina:

Marinetti risorge e mi parla

(Gurrado per Il Foglio)

Il Futurismo di massa sbarca a Londra con un’imponente mostra alla Tate Modern Gallery che durerà tutta l’estate. Ciò rientra nelle celebrazioni per i cent’anni trascorsi da che F.T. Marinetti scrisse nel Manifesto del Futurismo: “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie”. Appunto. Per questo sarebbe bene che F.T. redivivo potesse irrompere alla Tate Modern per prendere a pedate, nella miglior tradizione futurista, i pazienti Inglesi in coda; non prima di aver spiegato loro che spuntando in Italia il Futurismo aveva decisamente sbagliato target:

Ladies and gentlemen, cent’anni fa il mio Manifesto elencava fra i suoi punti fondamentali: energia e temerarietà; audacia e ribellione; schiaffo e pugno; bellezza della velocità; distruzione dei musei eccetera; guerra sola igiene del mondo. Ora, io non sono nessuno per stabilire se il Futurismo abbia avuto o meno un valore assoluto; ma mi sento di dubitare che possano aver senso tutte queste celebrazioni. Per dire, nell’Italia di oggi nemmeno un autore quindicenne avrebbe il coraggio di scrivere ò e à come faceva Palazzeschi per significare ho e ha; figuriamoci se qualche scrittore adulto avrebbe l’ardire di sbriciolare la grammatica, usare ogni verbo all’infinito e giustapporre aggettivi semaforici, onomatopee e segni matematici per trasvalutare la sintassi.

Si festeggia perché è trascorso un secolo; ma è stato utile? Usando come unità di misura i punti fondamentali del mio Manifesto, mi pare che quegli stessi Italiani che si sono accalcati all’ingresso delle mostre retro-futuriste fossero in realtà altrettanti molli passatisti. Nessuno temerario a sufficienza da entrare ostentatamente, che so, senza biglietto o in mutande; nessuno audace abbastanza da sfregiare con un temperino non dico le opere esposte ma almeno i cartelloni pubblicitari; schiaffi e pugni neanche l’ombra; altro che velocità, riescono a far arrivare in ritardo perfino la Freccia Rossa; frequentano con sussiego musei, biblioteche e accademie ma solo se costretti; la guerra, nemmeno per idea.

Né voglio considerare i trascurabili risultati conseguiti dall’arte e dalla letteratura italiane negli ultimi cinquant’anni: mi concentrerò sull’unico strumento di certificato progresso culturale, il televisore. Residui di futurismo inconscio sono nel pubblico della Corrida, che fa grande sfoggio di pentole e campanacci, ma tremate allo strabordante passatismo del primo canale: al sabato sera – la gara di ballo! La gara di ballo imperversa nella nazione alla quale nel 1914 rivolsi Abbasso il tango e Parsifal!, chiedendo espressamente: “Vi pare dunque molto divertente guardarvi l’un l’altro nella bocca e curarvi i denti estaticamente l’un l’altro, come due dentisti allucinati? Vi pare dunque molto divertente inarcarvi disperatamente l’uno sull’altro per sbottigliarvi a vicenda lo spasimo, senza mai riuscirvi? O fissare la punta delle vostre scarpe, come calzolai ipnotizzati?”.

Inutile, sul primo si continua a ballare, e qualsiasi canale mi mostra le tracce del passatismo più bieco che condannai all’alba del secolo. Potrei citarmi parola per parola. Se incoccio la pubblicità, “rimbalzano i capricci femminili e le prodigalità dei bambini sull’apoplettica cocciutaggine dei padri avari”. Se mi azzardo a seguire una fiction o ad ascoltare il Festival di Sanremo, ecco che “tutti soffrono, si deprimono, si esauriscono, incretiniscono, in nome di una divinità spaventosa da rovesciare: il sentimento”.

Di futurista in Italia è rimasto soltanto José Mourinho. Il suo celebre proclama sulla prostituzione intellettuale dei cronisti sportivi fu tratto pari pari da quello di Carrà e Boccioni sulla pittura: “Le esposizioni, i concorsi, la critica superficiale e non mai disinteressata condannano l’arte italiana all’ignominia di una vera prostituzione!”. Per tacere della politica: nel 1913 scrissi che il nostro programma futurista avrebbe sconfitto “Repubblica, popolo sovrano, internazionalismo pacifista, antimilitarismo, anticlericalismo, mediocrazia e scetticismo, senilismo e moralismo, demagogismo, culto delle rovine e dei monumenti, razionalismo positivista e ideale di un’Italietta borghese, tirchia e sentimentale”. Non potevo saperlo ma non sopportavo il Pd cent’anni prima che lo fondassero.

Infine, la fregatura sublime fu scrivere: “I più anziani di noi hanno trent’anni. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. Noi lo desideriamo!”. Lo desideravamo eccome, ma chi è venuto dopo di noi ci sottrae al nostro cestino e ci eleva su un piedistallo. L’Italia non ci ascolta ma ci celebra e ci festeggia: siamo passati invano.

L'autorevole stampa estera

"Ma se avete fretta di veder sparire Berlusconi, il meglio che potete augurarvi è un altro terremoto durante il G8 dell'Aquila, dove proprio ieri mattina c'è stata una scossetta piuttosto incoraggiante".

mercoledì 1 luglio 2009

Le tre parole chiave

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Ho voluto leggere Sorella di Lodoli subito dopo le Lettere di una Novizia di Guido Piovene, che furono pubblicate nel 1941. Non avevo né ho l’intenzione di fare paragoni fra gli autori – oltre che inutili sarebbero necessariamente sbilenchi avendo da una parte un Piovene acerbo e dall’altra un Lodoli maturo. Mi interessava invece vedere come un punto di vista teoricamente irraggiungibile, quello intimo di una suora, potesse essere trattato da due scrittori di sesso maschile e non istituzionalmente legati al Cattolicesimo. Soprattutto mi incuriosiva l’idea di quanto potesse essere cambiata la percezione delle suore nella narrativa italiana a sessanta e passa anni di distanza.

La principale differenza fra i due romanzi è data dalla reazione nei confronti del mondo: la protagonista di Piovene se ne ritrae e anzi sguscia via dai giudizi altrui, ricercando nella vocazione l’intangibilità che nessun altro tipo di vita potrebbe garantirle. La protagonista di Lodoli al contrario è gettata nel mondo proprio in quanto suora, su impulso della madre superiora che si accorge del suo tentativo di sottrarsi al confronto e la costringe docilmente a occuparsi di un asilo nido – ben sapendo che suor Amaranta ha più di una buona ragione per detestare i bambini di tre o quattro anni. Questa distinzione, a prima vista capziosa, diventa capitale rispetto alla scelta narrativa operata dai due autori. Piovene ha infatti optato per il romanzo epistolare utilizzando le lettere della novizia, alla novizia e sulla novizia come gli affondi di una complicata gara di scherma, in cui ognuno cerca di scansarsi colpendo l’avversario nel più distruttivo dei tutti contro tutti. L’unica voce narrante in Lodoli è invece quella di suor Amaranta, un io ben modulato che fronteggiando il mondo ostile che la circonda sa farsi di volta in volta scudo o specchio.

Le protagoniste sono a due punti ben differenti delle rispettive vite. Rita Passi, nelle Lettere, non è ancora giuridicamente responsabile di sé e anzi il senso di generica irresponsabilità la rende irrequieta e la tramortisce. Ogni sua lettera è la giustificazione di un qualcosa nascosto che verrà spiegato nella lettera successiva, in un crescendo di suspense e d’orrore morale. Suor Amaranta, in Sorella, ha trentasei anni e si sente vecchia. Nel suo convento è forse l’unica ad aver conservato uno specchio e fa affiorare qua e là la propria preoccupazione per la radice bianca dei capelli o per il seno che inizia a cascare. Lodoli a mio avviso ha fatto una scelta ottima per narrare di una suora: partire, per quanto possa sembrare banale, dalla donna che c’è sotto la veste e che troppo spesso si tende a dimenticare. Questo acuisce ad esempio il contrasto con la scabra realtà delle strade di Roma, dove la suora viene ripetutamente identificata come essere asessuato e per certi versi nemmeno appartenente al mondo.

Suor Amaranta è un personaggio al quale è facile affezionarsi perché si fa carico su vasta scala di dubbi e sofferenze che vengono provati da tutti prima o poi, indipendentemente dal sesso o dalla fede: Lodoli è stato mirabile nel riuscire a sintetizzare questo incessante lavorio interiore nel brevissimo giro di cento e una pagina. Ancora meglio ha fatto nel dare al testo l’afflato di un romanzo introducendo un personaggio di rottura – il piccolo Luca che non dice una parola, anzi ne dice tre ma tutte importantissime – e facendo sì che la storia di suor Amaranta diventasse in qualche modo esemplare ricerca, riallacciandosi alla tradizione mediocristiana della quête.

Le tre parole del silenzioso Luca sono molto più comuni di quelle che si possa pensare; tuttavia non le rivelo perché anch’io apprendendole ho tremato di una certa sorpresa che non voglio rovinare. Quello che davvero colpisce è la reazione di suor Amaranta, che nemmeno sospettava di essere animata da tanto spirito missionario. Luca le dice una cosa – letteralmente, il nome di una cosa – e lei piglia e parte a cercarla senza frapporre indugio, scavalcando ostacoli e divieti e la consapevolezza di patire inevitabili sofferenze dovute al suo stato religioso. Suor Amaranta lamenta di essere poco coraggiosa ma si rivela, al lettore prima che a sé stessa, ammirevole nell’incassare musi duri, bestemmie e umiliazioni pur di seguire alla lettera le sintetiche indicazioni dell’unico bambino che sopporti.

C’è un valore cristologico nei tre brevi comandamenti di Luca? Non credo. Mi riesce di scorgerlo piuttosto nel senso stesso della ricerca di suor Amaranta, che di volta in volta viene messa in contatto con tre decisivi personaggi di contorno: uno scommettitore fallito che s’identifica col cavallo e col fantino; il custode di un supermercato che incarna in piccolo il tradimento dell’ideale comunista, dovendo intervenire per impedire che chi non può comprare possa ciò nondimeno avere; infine un ex barista braccato dalla mala che, dopo avergli fatto uccidere un uomo, sta per uccidere anche lui. Si tratta di figure marginali, che fungono su vari livelli sociali da postille al discorso della montagna (Matteo 5): beati i reietti, i soli, gli incapaci.

La semplicità del linguaggio di Luca non stona nel bel senso della pagina di Lodoli, il quale sa sempre quando paragrafare, quando far muovere la trama o i pensieri e soprattutto quando una riga non scritta è meglio di capoversi interi. Gli inserti poetici sono decisamente discutibili ma per fortuna non gravano troppo sulla scorrevolezza della prosa di Lodoli, capace sempre di avere pazienza e intuito sufficienti a trovare la parola adatta a riempire meglio la nicchia scavatale dalla parola precedente.

Se c’è una cosa che mi piace di Piovene è la sua capacità di scendere a patti coi dettagli, raccontare minuziosamente ogni oggetto sullo sfondo e ogni screpolatura dell’animo: è questa visione microscopica che gli ha permesso di essere esauriente e mai noioso nel monumentale Viaggio in Italia, e di riuscire a descrivere ogni sua insenatura i frastagliati sentimenti della sua novizia. Suor Amaranta è forse Rita Passi sopravvissuta, integrata nel sistema monastico e ancora rosa dalle alternative sfuggite. Lodoli non ha la minuziosità di Piovene ma mette in bocca a Luca tre parole semplici, immediate, banali attorno alle quali ruota tutto il romanzo: tre piccole cose grazie alle quali suor Amaranta cerca l’uomo e trova sé stessa.