mercoledì 30 settembre 2009

Come catalogare Leopardi sotto la C

(Gurrado per Il Foglio)

La superiorità di una cultura si misura dal grado di reciprocità che riesce a imporre. Ad esempio qui è comune che al mattino venga offerta la scelta fra la tradizionale colazione inglese, uova e pancetta, e la sibaritica colazione continentale ossia cappuccino e cornetto. Poiché al contrario è molto raro che da noi si riesca a ottenere fagioli e porridge di prima mattina, deduciamo che la colazione continentale è superiore perché s’impone altrove e resiste in casa. Idem per il pallone. In Italia vengono trasmesse tutte le partite della Premier League mentre la tv inglese ha mosso un embargo al calcio italiano esattamente dal momento in cui l’Inter ha iniziato a vincere scudetti a raffica: ognuno tragga le sue conclusioni.

Applichiamo questo criterio ai libri. Mentre la pressoché totalità della narrativa anglofona viene tradotta in Italiano entro breve, ogni tanto sentiamo qualche editore italiano che stappa spumante perché ha venduto i diritti per la traduzione inglese di un suo romanzo – è successo ad esempio a minimum fax con Giorgio Vasta. Poi però non di rado se ne perdono le tracce: cosa accade nel frattempo? Dove finiscono i libri italiani tradotti in inglese? Chi sono i nostri autori noti al lettore medio britannico, ovvero quali prodotti dell’editoria italiana possono verosimilmente finire in mani inglesi? Per scoprirlo ho utilizzato un metodo stocastico: mimetizzarmi fingendo di cercare nelle tre principali librerie di Oxford qualche bel romanzo italiano tradotto. Ne sono uscito in lacrime.

Tutte le grandi librerie inglesi hanno un bar all’interno, ergo non c’è metodo migliore per giudicare della qualità di una libreria che assaggiare il caffè che vende. Borders è un bazar americano e quindi convenzionato con Starbucks: fra una pagina e l’altra si può sorseggiare il dark chocolate mocha frappuccino, ragion per cui intuisco che sarà difficile scovare libri decenti. I titoli italiani presenti nella narrativa di Borders sono 37; primeggia Calvino con 12 titoli seguito da Valerio Massimo Manfredi con 6. Umberto Eco e Primo Levi hanno 4 titoli ciascuno, curiosamente entrambi con una doppia edizione: ovviamente The name of rose per il primo, stranamente The wrench o The monkey’s wrench – ossia La chiave a stella – per l’altro. Lusinghiera la presenza di due titoli di Elena Ferrante, forse perché non si sa chi sia. Le altre fugaci apparizioni, con un titolo ciascuno, sono di Niccolò Ammaniti, Giorgio Bassani, Luther Blissett e Simonetta Agnello Hornby, nonché dei classici Carlo Levi e Lampedusa. Ben nascosti ci sono anche First Execution di Domenico Starnone e Margherita Dolce Vita di Stefano Benni, entrambi tradotti dall’americana Europa Editions – la quale nel primo caso esagera e riporta endorsement tratti dal Manifesto e dalla Gazzetta del Mezzogiorno; nel secondo si limita all’autorevole avallo del “Nobel laureate” Dario Fo, del quale però Borders ha a disposizione solo Francis the holy jester. E basta.

Waterstone’s è la libreria istituzionale britannica, dislocata in tutti gli incroci fra tutte le strade principali di tutte le città decenti. Serve caffè Costa, sedicente miscela italica selezionata chicco per chicco – relata refero – da un pingue signore di nome Gino che se la ride dai manifesti pubblicitari. Da ciò confortato entro sicuro di trovare scaffali interi di solida narrativa patria ma presto concludo che sarebbe stato meglio se invece dei chicchi il signor Gino avesse scelto i libri. Non è che i titoli italiani sono solo 22, né che 8 di loro sono di Valerio Massimo Manfredi, né che ci sono 9 copie del suo Pharaoh, manco dovessero volantinarlo (per dire, di The name of rose ce ne sono solo 4). Non è nemmeno che riappare Baricco con tre titoli, tanti quanti Eco, né che gli altri rappresentanti dell’Italia sono Ammanniti, Bassani e Benni, stavolta con Timeskipper. È che da Waterstone’s abbondano i romanzi “italian style” arrivati dritti dall’America: scritti da falsi italiani come Laura Santoro, Domenica De Rosa o l’orrendo Nicky Pellegrino, raccontano un’Italia fasulla fatta di vecchiette vestite di nero, sposalizi che durano tre giorni e marciapiedi su cui si spara all’impazzata. E basta.

Da Blackwell’s è facile incontrare fior di professori oxoniani; è convenzionata con Caffè Nero, compagnia che si vanta di produrre il miglior espresso a nord di Milano e per di più lo fa servire da una graziosa cameriera di Mosciano Sant’Angelo. Entrando già mi figuro pile di narrativa d’élite, l’opera omnia di Sandro Veronesi, il meglio del meglio di Tommaso Pincio, l’edizione extralusso di Alcide Pierantozzi. Invece siamo alle solite e anche peggio, con 17 titoli: Calvino, Eco, Ammanniti, Baricco, Luther Blissett, tutta roba già vista altrove. Valerio Massimo Manfredi è ridotto a una solinga copia de The lost army. Scorgo tre sorprese: quattro copie di The father and the foreigner di Giancarlo De Cataldo, Coppi’s Angel di Ugo Riccarelli (Middlesex university press, nientemeno) e Fists di Pietro Grossi per i tipi della Pushkin Press, editore coi controfiocchi che traduce anche Stefan Zweig e Julien Gracq. Camilleri è confinato nelle crime stories, settore da tre lire che non ho preso in considerazione perché qui le leggono solo camionisti e avvocati. E basta.

Saturo di caffè non sempre encomiabile, esco dalla terza libreria confidando nella lunga gittata dei nostri classici imperituri. Poi mi ricordo all’improvviso che da Borders il volume “Canti, Leopardi” era catalogato in ordine alfabetico d’autore sotto la lettera C.

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