lunedì 7 settembre 2009

Gli Inglesi che cantano, un libro a colori e Kaladze in mondovisione

(Gurrado per Quasi Rete)

Adunque tralasciamo per carità di patria altrui lo spazio gigantesco dedicato dalla stampa indigena all’amichevole dell’Inghilterra contro la Slovacchia, la Slovenia, boh, qualcosa di verdino. Certo, sempre meglio del cricket, ma dover saltare pagine e pagine di fenomenologia di Jermaine Defoe per scoprire il risultato di Ungheria-Svezia mi sembra oggettivamente troppo. Uno arriva a settembre che è già oberato di amichevoli estive, avendo guardato partite inutili per tutto luglio e tutto agosto, il Trofeo Tim, il Trofeo Pam, il Trofeo Bum (e quando non erano amichevoli erano preliminari di Europa League, che è peggio) – proporgli dopo due settimane di calcio vero il ritorno al gladiatorismo posticcio, alla questione se il rigore ininfluente ai fini del risultato superfluo fosse o meno netto. Qui lo dico e lì lo ribadisco, sia chiaro, nel senso che non è che ciò che vale per l’Inghilterra non valga per l’Italia. Quando torno, se ci arrivo vivo, vorrei che la prima amichevole internazionale dell’Italia fosse salutata da un enorme titolo su Brasile-Argentina, o sulla serie B.

Questo per dire che alle cinque e mezza di sabato (fuso di Greenwich) mi ero coscienziosamente sintonizzato su ITV1 per seguire Inghilterra-Slovacchia/Slovenia ma ben presto mi sono reso conto di essere profondamente invidiato da tutti i tifosi che erano a Wembley. Almeno io ero su un divano. Per quanto comodi possano essere i nuovi seggiolini post-hooliganismo (che poi, apro parentesi, parlare di post-hooliganismo in Inghilterra è come parlare di post-ideologismo in Italia, chiudo parentesi), loro erano pur sempre consapevoli di star perdendo due ore della propria esistenza che avrebbero potuto impiegare in maniera più costruttiva. Ad esempio ubriacandosi, per i sobri, e per quelli che erano già ubriachi ubriacandosi di più. È noto che il tifoso di calcio inglese canta sempre: canta quando la squadra vince (“sing when you’re winning”), canta quando la squadra perde (sempre che se ne rendano conto), canta quando la squadra entra in campo (“you’ll never walk alone”) e canta quando partecipa a Britain’s Got Talent, il format che in Gran Bretagna ha lanciato Susan Boyle e che a quanto pare in Italia lancerà Gerry Scotti. Sabato pomeriggio i tifosi inglesi cantavano per non addormentarsi.

Io medesimo, per non addormentarmi, subito dopo il rigore di Frankie Lampard ho iniziato a sfogliare un nuovo acquisto, quello che al momento credo sia il miglior libro di calcio in circolazione. Libro illustrato, sia chiaro, di quelli che non si leggono affatto. Infatti sulla copertina non c’è l’autore ma, nonostante gli sforzi compiuti dall’editore londinese DK (al secolo Dorling Kindersley) per celarne le identità, ho trovato in un recesso del colophon i nomi di David Goldblatt e Johnny Acton. Si chiama The Football Book e il suo sottotitolo – the leagues, the teams, the tactics, the laws – mi ricorda non so perché Scappo dalla città: la vita, l’amore, le vacche. Dopo essere passato dalla libreria mi sono ritrovato con 20 sterline in meno e 400 pagine in più.

Il libro è bello perché c’è tutto ma proprio tutto quello che possa riguardare il gioco rotondo, per quanto gli argomenti possano essere disparati – appunto come la vita l’amore le vacche. La prima parte si occupa di storia e varietà del calcio, ivi incluso il calcio paralimpico, il calcio a 5, il calcio individuale e perfino il calcio femminile. La seconda si intitola “How the game is played” ma poteva benissimo chiamarsi “E Dio creò il Subbuteo” visto che riguarda il campo, i ruoli, gli arbitri, le regole, le magliette, addirittura le pettinature, la palla, la rete e i tifosi. La terza si occupa del lavoro di squadra: come si distinguono le tattiche, come si allena una squadra, come la si finanzia e come si truccano le partite. La quarta ha a che fare con le capacità individuali del calciatore, ivi incluse la sua anatomia e la sua psicologia, nonché un’importante spiegazione su come si effettua una rimessa laterale. La quinta è un atlante del calcio mondiale in 130 pagine, diviso per federazioni continentali, per associazioni nazionali con un rapido sguardo ai club. Il campionato italiano risulta giocato da Inter, Juventus, Milan e Roma – a margine vengono citate però anche la Fiorentina, la Sampdoria, il Cagliari, il Verona; è la controprova che chi ha scritto sapeva di cosa stava parlando, non si era limitato a seguire gli ultimi cinque campionati. Infine una parte sulla storia delle competizioni internazionali: cinquanta pagine sono dedicate alla storia del Mondiale mentre per le restanti competizioni – non potendo dedicare altrettante pagine ciascuna – la brillante idea è stata di trasformare la storia in geografia appuntando su un planisfero le varie nazioni ospitanti e squadre vincitrici.

Oltre a servire per imparare l’Inglese (“tripletta” si dice “hat trick”, “calci piazzati” “set pieces”, “Gazzetta dello Sport” “Gazetta” e “Guerin Sportivo”, Dio solo sa perché, “Guido Sportivo”), The Football Book è apprezzabile per due caratteristiche. Nonostante nella miglior tradizione dell’editoria britannica sia pieno di informazioni minuziose scritte in piccolo, ogni due pagine compare una citazione sempre brillante su un determinato calciatore o una determinata partita o una determinata fase di gioco. Sono circa duecento, quando le si legge sono talmente auto-evidenti che sembra di conoscerle da sempre come le massime di un filosofo latino, poi quando come ora bisogna ricordarsene una a memoria per fare un esempio non c’è verso di raccapezzarsi. Pazienza. Però il meglio sono le immagini: i curatori hanno scelto di inserire solo foto che fossero storiche o avessero comunque un’immediata riconoscibilità, tanto che spesso non ci sono nemmeno le didascalie. In compenso le hanno colorate con un effetto acquerello simile a quello delle antiche foto dipinte a mano, ottenendo un effetto di straniamento romantico: che ritragga Pippo Inzaghi o Guillermo Stábile, ogni immagine sembra emergere dalla pagina come un ricordo nitido e pittoresco – più o meno come quello che serbo delle venti sterline lasciate in mano al commesso.

A proposito di amichevoli, non è stata male nemmeno quella disputata dall’Italia Olimpica in Georgia. Ah, non era un’amichevole? Mah, che io sappia tutte le partite che l’Italia gioca di questa stagione bene o male lo diventano, tanto più se non ci si ricorda a memoria la capitale dello stato avverso (Tbilisi? Atlanta? Casteggio?). Ah, non era l’Italia Olimpica? Allora perché c’era Marchionni? Ricordo ancora vent’anni fa, quando l’Italia Olimpica andava di moda. Il pallone a cinque cerchi non era ancora stato ridotto a competizione giovanile e l’Occidente, per salvaguardare una parvenza di dilettantismo senza sfigurare di fronte a selezioni parasovietiche che facevano paura, si era organizzato concedendosi di schierare nell’Olimpica giocatori senza limite alcuno di età o di tesseramento purché non fossero giammai stati convocati nella Nazionale maggiore. L’Italia Olimpica era l’azzurro di Virdis e Iachini. L’allenava Dino Zoff, che poi passò alla Juve e cedette il posto a uno a caso fra Francesco Rocca e Sergio Vatta. Andammo a Seul per perdere 0-4 dallo Zambia.

Immagino che più o meno tutti, a vedere l’autodoppietta di Kaladze, abbiano ricordato Comunardo Niccolai – l’autogollista seriale del quale Manlio Scopigno disse che la maggior meraviglia di Mexico ’70 non fosse Pelé ma “Niccolai in mondovisione”. Nelle autoreti c’è una goffaggine talmente gratuita e lesiva che passa la voglia di festeggiarla, come hanno invece fatto i nostri eroi, e i tifosi georgiani che hanno fischiato il loro capitano mi hanno rafforzato nell’idea che il calcio dovrebbe diventare sport d’élite, con lo stadio aperto a ingressi a numero chiuso, previo test d’intelligenza e umanità. Kaladze, poi: uno che in Italia si sente a casa propria (come ha effettivamente dimostrato sabato, giocando da terza punta non convocata); un buon giocatore che viene da una piccola nazione e sa a priori che mai e poi mai parteciperà a un Mondiale o a un Europeo; un uomo che una e una sola volta nella vita aveva l’opportunità di giocare a casa sua da capitano della propria Nazionale, contro la Nazionale campione del Mondo che per giunta è quella che ospita il suo club – e in quell’unico e solo giorno della sua vita infila due autoreti decisive.

Chi non ha mai fatto un’autorete scagli il primo fischio; lo scagli chi ha sempre tenuto i nervi saldi in circostanze anche meno probanti di questa, chi non ha mai sbagliato la seconda volta dopo aver sbagliato la prima. Per questo Kaladze mi ha ricordato non tanto Niccolai ma Evaristo Beccalossi, eternato dal monologo di Paolo Rossi (il comico, non il calciatore) (tanto meno il rinomato filosofo) nell’atto di decidere una lontana seminfinale di Coppa Uefa fra Inter e Slovan Bratislava. Racconta Rossi che nel primo tempo l’Inter beneficiò di un calcio di rigore e allora Beccalossi “guardò tutto lo stadio negli occhi, e tutto lo stadio gli disse Vai, vai! (...) Disse Lo tiro io, con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe sbagliato – e sbagliò. E io pensai: Per me resta comunque un uomo.” E quando, cinque minuti dopo, all’Inter venne assegnato un altro calcio di rigore “lui guardò tutto lo stadio negli occhi, e tutto lo stadio gli disse No, puttana Eva!”. Ma Beccalossi piazzò la palla sul dischetto “con la sicurezza dell’uomo che non avrebbe risbagliato – e risbagliò. E io pensai: Questi per me sono uomini veri! Un po’ sfigati, ma veri.”

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