venerdì 27 febbraio 2009

Letterine letterarie (21)

Gurrado,
nel pezzo su Benigni e gli omosessuali hai fatto bene a precisare che non bisognerebbe deportare né torturare nessuno. Non si deve dare nulla per scontato leggendo questo blog.
Anonimo educato

Anonimo educato,
io ogni volta che porto una signorina fuori a cena la convinco (o costringo) a partecipare subito dopo a una gara di rutti, che talvolta vince lei; e però nel pezzo su Benigni e gli omosessuali mi è parso opportuno specificare appunto che non bisognerebbe deportare né torturare nessuno, che sia Benigni o omosessuale. Per quanto sorprendente possa apparire ai benpensanti progressisti un'affermazione del genere, se proveniente dalla mia bocca (cfr. al riguardo la gara di rutti di cui poco più sopra), non si deve dimenticare che io, per quel che posso, con pensieri parole e opere non ho mai nemmeno disidratato nessuno.

Gurrado,
la tua lettera a Veltroni di venerdì scorso era ironica e apprezzabile Però sparlare di Prodi come professore mi sembra eccessivo.
Anonimo educato

Anonimo sempre più educato,
io vagheggio di potermi un dì presentare a un raffinato consesso del demi-monde intellettuale in mio onore e rivolgermi alla platea, che attende speranzosa una mia allocuzione, allo stesso modo di Renato Pozzetto ne La casa stregata: "Per prima cosa, tutte le puttane da una parte e tutti i froci dall'altra"; e però quando ho dato una lettura veloce al suo commento ho pienamente concordato con lei sull'idea che parlare di Prodi come professore mi sembra eccessivo.

Avevi ragione, Gurrado,
quando scrivevi che il Milan non vincerà la Uefa.
Mirko

A parte che ho sempre ragione, e conoscendomi da tre anni dovresti averlo capito, dovresti aver capito anche che qualcosina capisco pure di calcio. Nel pezzo dello scorso, pensa te, 29 agosto (venerdì), e quindi prima ancora che iniziasse il campionato, scrivevo testualmente: "Mi piacerebbe vincere finalmente la Coppa Uefa, ma temo che verrà considerata per lo più un dente da cavarsi quanto prima, facendosi eliminare da qualche imbarazzante squadra rumena subito dopo la ridicola fase a gironcini." E infatti. Ho sbagliato solo la nazionalità della squadra imbarazzante. In compenso se rileggi il pezzo scoprirai che ho sbagliato, posso dirlo con relativa sicurezza già ora, tutte le altre previsioni, tranne quella dello scudetto alla Juventus.

giovedì 26 febbraio 2009

Torero, torero, olè

Qualsiasi rivista letteraria italiana dedicherebbe volentieri una ventina di pagine alla pubblicazione di racconti inediti di un giovane autore spagnolo che, quantunque negletto in patria - magari incompreso, magari osteggiato, magari sfortunato -, potrebbe un domani fare il botto e rinfacciare universalmente: "Sì, ma la prima rivista che ha voluto pubblicarmi sulla fiducia non era in Spagna, ma in Italia".

Il quadrimestrale iberico Riff Raff: revista de pensamiento y cultura, sovvenzionato dal ministero della cultura del Governo spagnolo, ha dedicato ventitre pagine del suo trentottesimo numero (autunno 2008) alla pubblicazione di tre miei racconti inediti nella sezione Pasajes, tradizionale vetrina d'anteprima per future novità editoriali. I racconti, tradotti e introdotti dall'amico storico (sia nel senso che è passato un po' di tempo da quando ci siamo conosciuti, sia nel senso che è un amico che di mestiere fa lo storico) Nacho Duque Garcia, si intitolano Un dia antes, Por Inglaterra, la Patria y la Beldad e Durmiendo la siesta (dentro y fuera). Pur essendo passato un paio di mesi dalla pubblicazione, l'ho ricevuta solo qualche giorno fa e solo allora ho potuto leggere la paginetta introduttiva di Nacho Duque Garcia, che traduco maccheronicamente:

Antonio Gurrado è nato nel sud Italia, a Santeramo in Colle, provincia di Bari, in un giorno di lutto universale. La notte prima, a New York, moriva assassinato John Lennon. E per quanto questi due avvenimenti non avessero fra loro assolutamente niente a che vedere, è certo che la traiettoria di Gurrado potrebbe perfettamente leggersi come l'intento di restituire una parte di questa genialità flemmatica e di questo cattivo sangue [spagn. "mala leche", letteralmente "cattivo latte"] prodotti muovendo dall'eleganza e dal buon gusto che da allora casualmente rimpiange la letteratura dei nostri giorni. Autore di due romanzi, Il gatto che si morde la coda (editore Schena, 2001) e 2 5 98 (editore Di Salvo, 2005), come ogni scrittore che si rispetti Gurrado è, anzitutto, un lettore insaziabile, cosa che gli frutta una sfilza di recensioni che vengono periodicamente pubblicate su testate web tanto difformi come Books Brothers, Il Sottoscritto o il blog della Gazzetta dello Sport. A questo impegno va aggiunta la sua traiettoria filosofica che lo ha portato via da Gravina in Puglia fino a Pavia, e poi a Napoli, a Modena e alla Voltaire Foundation di Oxford: come risultato di queste esperienze, di questi viaggi e delle letture obbligate che gli servivano da pretesto per ciò che ognuno può immaginare, nasce la sua tesi di dottorato, intitolata Teocrazia e monarchia ebraiche: Voltaire fra esegesi e politica, voluminoso studio sull'enciclopedista francese che, così come non poteva essere altrimenti - per il soggetto e per l'oggetto -, e così come accade in tutti gli scritti di Gurrado, è impregnato di satira raffinata e di potente ironia che si mescolano perfettamente in uno stile colto e in un'onestà ben apprezzabile in ciascuna delle sue parole. Bisogna ringraziare i testi che si fondano sull'humour, finestra critica e lucida dalla quale possiamo vedere il mondo e che, senza dubbio, faremmo male a non prendere molto sul serio.

mercoledì 25 febbraio 2009

Scribi e farisei: gennaio 2009

(Gurrado per Books Brothers)

Libri letti (11): Né qui né altrove, di Gianrico Carofiglio; I promessi sposi, di Alessandro Manzoni; Eat Pray Love, di Elizabeth Gilbert; Il Re Sole, di Guido Gerosa; Addio alle armi, di Ernest Hemingway; Teatro, di Samuel Beckett; Io, Gesù, di Gilbert Sinoué; Half a Life, di V.S. Naipaul, Un orso sbrana Baricco, di Carlo Martinelli; Il grande uomo, di Kate Christensen; I sapori della modernità, di Gian Paolo Biasin.

Libri acquistati (1): Exit Ghost, di Philip Roth (Vintage)

Accade un giorno che mentre faccio colazione mi viene un’idea: così nitida e distinta che mi pare quasi di non averla avuta io. Non solo vedo – e distintamente – l’idea in questione, nel suo splendore lampante e nel preciso, raffinato groviglio di tutte le sue interconnessioni logiche; vedo addirittura le parole esatte con cui esprimerla, quasi non mi trovassi davanti a una tazza di latte ma stessi già leggendo cosa scriverò.

Ma, disdetta, proprio quel giorno ho un pranzo fuori. Non potendo liberarmene porto l’idea a passeggio con me, faccio attenzione che non mi cada e non si rompa; controllo reiteratamente la gabbia in cui l’ho rinchiusa per timore che le parole fuggano via – o, peggio, che si lascino sostituire dalle cugine sgraziate, come talvolta hanno, piuttosto umoristicamente, l’ardire di fare non appena sistemo le dita sulla tastiera. Facendo conversazione durante il pranzo, approfitto di ogni momento in cui non mi si rivolge nessuno per tornare a giocare con l’idea rinchiusa, lucidarle le metafore, spolverarle le citazioni, oliarle le virgole, moltiplicarne i sottintesi.

Poi, con una scusa, a dolce finito riesco a fuggire dall’ospitalità e a rinchiudermi solo col portatile (se uno se ne va dicendo che deve fare una cosa, nessuno gli dice che può anche farla più tardi; ma se se ne va dicendo che deve scrivere una cosa, tutti giù a dirgli che può scriverla dopo, con calma). Mi siedo e con rapidità napoleonica stendo 13.476 caratteri (spazi inclusi) in circa due ore, magari un’ora e mezza, forse anche meno tanto facilmente mi sembra di star tirando un filo d’inchiostro dal mio cervello, che con piacere quasi futurista ne segue i volteggi e i ghirigori. Le virgole girano a meraviglia. Le citazioni si incasellano come se originariamente fossero state scritte apposta. Le metafore non ne parliamo, un bijou. I sottintesi sono evidenti. Soprattutto è l’idea, monumentale, cristallina, a svettare in tutta la sua verità quasi assiomatica dalla prima riga all’ultimo punto fermo.

Per questo non resisto e, mentre di solito sono pudico e non parlo mai di quello che scrivo, l’altro giorno a pranzo con un amico approfitto di una considerazione teoretica sulla trippa ai fagioli per chiedergli con sforzatissima associazione d’idee: “Ma lo sai che ho scritto un pezzo proprio sulla trippa, no, proprio sul rapporto fra cibo e linguaggio nei Promessi sposi?”. Al che lui mi guarda e dice che ha giusto quello che fa per me; e mi consegna, pressoché seduta stante, un vecchio saggio del Mulino (inevitabilmente fuori commercio, fuori catalogo, fuori corso, fuori qualsiasi cosa possiate immaginare) intitolato I sapori della modernità. Sottotitolo, manco a dirlo, cibo e romanzo.

Così, la sera dopo, a seguito di una cena frugale e in vista di una levataccia, m’infilo a letto alle nove e un quarto per leggermelo tutto d’un botto. Il primo capitolo si diffonde per venti pagine sui Promessi sposi appunto, e non per niente si chiama il sugo della storia. Allibito, m’imbatto pari pari, sin dalle prime righe, nella stessa identica idea che con tanta premura ho incubato: la ritrovo fatta adulta, sviluppata oltre il confine delle sette cartelle, libera di stiracchiarsi a piacimento e di correre dove le pare. Le virgole magari lasciano a desiderare, le metafore sono quelle che si possono trovare in un saggio del Mulino, i sottintesi sono spiegati uno a uno come a una platea di bambini deficienti – ma l’idea, la mia idea, è tutta scritta lì. Coincidono perfino le citazioni, come se originariamente fossero state scritte soltanto per farmi dispetto.

Il volume è del ’91 (e costava, giova ricordarlo, ventiquattromila lire); all’epoca avevo undici anni ma, neppure cresciutello, mai mi sono interessato alla questione cibo e linguaggio (né tampoco ai saggi del Mulino) finché il mio amico non m’ha messo in mano il volume. La mia idea, controllo, risale all’8 gennaio 2009, quindi arriva con diciott’anni di ritardo. Altro che incubazione, è una maggiore età tutta intera. Eppure nella mia testa è arrivata prima, e il libro di diciott’anni avanti è giunto a tardiva conferma del mio geniale intuito.

Ieri mi chiama Valentina e chiede: “Ma lo sai che Pascoli dice le cose proprio come le penso? Io so già per fatti miei che i buoi sono placidi, so che masticano e ruminano, so che ripetono sempre gli stessi gesti e non fanno praticamente altro. E lui s’inventa un verso, il mite rimastico dei bovi, che esprime esattamente le mie idee al riguardo con le uniche parole che servivano a dirlo, evitando di usare quelle che avrei usato io, e impedendomi di usarne altre da oggi in poi.” A tutti, la consolo, capita di leggere cose che pensano. Sapessi, vorrei aggiungere, alle volte mi capita anche di leggere cose che ho già scritto.

venerdì 20 febbraio 2009

Letterine letterarie (20)

Illustre Gurrado,
ho sbagliato, mi scuso e me ne vo.
W

Illustre onorevole,
poco m'importa che lei abbia fallito (e sottolineo l'ausiliare abbia, non sia): per il suo partito poteva fare i migliori numeri di questa terra, comunque non l'avrei votato giammai, e comunque avrei continuato a preferirle istintivamente, per sotterranea simbiosi fra cattivi, la persona che l'ha appena fatta fuori e che è la stessa ad aver fatto fuori, in saecula, già Natta, Occhetto, Prodi la prima volta, Rutelli e Prodi la seconda volta. Non parlo di Berlusconi, lo sa meglio di me.
Piuttosto, caro W, lei s'è dimesso in un Paese dove non si dimette mai nessuno (e sa meglio di me pure questo: ossia che le regionali in Sardegna erano una scusa, mentre il vero motivo erano le primarie di Firenze). Questo le schiude orizzonti nuovi. Non è riuscito a cambiare la politica dal di dentro come voleva (ma voleva veramente? e, soprattutto, volevano?), ora ha l'occasione di cambiarla dal di fuori. Non se ne vada in Africa, per carità, si trattenga dal gesto estremo. Si rilassi e legga. Scriva. Guardi dei film. Quando le viene l'uzzolo mandi qualche lettera ai giornali, coi toni di Arbasino però, non di Veronica Lario. Non vada all'Isola dei Famosi ma cerchi di entrare in giuria. Sia ospite al Festival di Sanremo fra un paio d'anni, ma senza voler condurlo. Curi i suoi figli, ma non nella maniera minacciosa in cui Prodi intendeva badare ai propri nipotini, che staranno facendo il count-down per la maggiore età. E non faccia come lui, che questa settimana è andato a Oxford a fare il dottor Balanzone; accetti invece serenamente di non avere niente da insegnare, si sieda ai bordi della strada e guardi - con un accenno di derisione - i poveracci che devono camminare spediti o correre per non finire da nessuna parte e per non arrivare comunque in tempo. A sorpresa faccia un salto in Parlamento, finché può, e voti contro qualsiasi cosa.
Le parlo sinceramente e non c'è ombra di dileggio nelle mie parole. Non ho mai letto un suo romanzo (costano troppo e la vita è breve), ma so bene che li ha scritti per passione - non per sete di gloria o di pubblicità - e che con ogni probabilità sono veramente frutto della sua penna, o della sua tastiera, a seconda. So perfettamente, perché lui lo leggo, che lei è stato un personaggio di un romanzo di Ian McEwan (mica come il sindaco Alemanno, che ieri avrà pur rilasciato una monumentale intervista al Foglio ma che tutt'al più è stato personaggio mascherato in un film di Virzì). So che ama il cinema come forse nessuno in Italia, che s'intende (anche per geni ereditati) di comunicazioni di massa, che ha una predilezione per la commistione fra generi alti e bassi, che intende recuperare la cultura pop e restituirla generosamente a piene mani. Lei è uno dei pochi che, qualora la politica dovesse miracolosamente sparire da un giorno all'altro, non resterebbe inebetito e disoccupato.
Allora abbia coraggio, per un'ultima volta ancora. Dimostri che anche in Italia dalla politica si può uscire vivi. Non marcisca nel partito che ha fondato, non s'incartapecorisca sul seggio che occupa da trent'anni. Non tenti di ritornare sindaco della sua città: sia felice di essere un romano fra milioni, un cittadino fra tutti, e si goda il meraviglioso posto in cui abita. Realizzi il sogno di tutti gli Italiani: alzarsi ogni mattina senza dover combinare qualcosa di spiacevole per sopravvivere fino al giorno appresso; si dedichi all'ozio, nel senso latino del termine. Lasci che gli altri si azzuffino, si dannino, si menino - e dedichi la sua non poca intelligenza a ogni insenatura della cultura.
Adesso può finalmente entrare in una libreria quando le pare e uscire ogni volta con due sporte piene di novità e grandi classici. Adesso può andare ai giardini e sprofondare nei libri tanto intensamente che tutti la riconosceranno e nessuno vorrà venire a disturbarla. I suoi scritti potranno finalmente durare più pagine, oppure venire stampati in carattere più minuscolo. Può unirsi a noi nel tentativo di scrivere una volta per tutte il Grande Romanzo Italiano: ormai questa nazione dovrebbe conoscerla piuttosto bene. Smetta di sentire il dovere di presentarsi all'Olimpico con la sciarpa della Roma se vince la Roma, o con la sciarpa della Lazio se vince la Lazio: ogni due settimane invece pigli la sciarpa bianconera e vada a Torino a fare il tifo per la squadra che ama davvero. Se casa sua ha un terrazzo, si goda i tramonti portando con sé l'enciclopedia delle figurine Panini dal 1960 all'altro ieri, e veda i suoi cari ricordi (Dal Sol, Lodetti, Mastropasqua) trascolorarsi nell'orizzonte infocato. Vada ogni sera in un cinema diverso e faccia i complimenti agli spettatori per il film che hanno scelto di vedere. Guardi la tv cambiando canale ogni volta che finisce la pubblicità, così le trasmissioni della De Filippi o della D'Eusanio non interromperanno l'emozione. Si dedichi a un'approfondita rassegna di tutti i quotidiani Italiani, tranne l'Unità: strappi a una a una le pagine di politica, le accartocci e ci giochi col gatto (ce l'avrà un gatto, lei, vero?). Passi ore e ore su Facebook, senza rimorso alcuno. Dorma dieci ore a notte. Ogni tanto telefoni a Franceschini, con l'occultamento di numero, e gli faccia una pernacchia, ma senza esagerare.
Caro W, lei ha sbagliato i suoi calcoli credendo che la sua irripetibile occasione storica fosse la fondazione del nuovo partito, del quale ha azzeccato soltanto il simbolo tricolore (lo so, lo so, avrebbe azzeccato anche altro se solo gliel'avessero lasciato fare). La sua irripetibile occasione storica invece è questa: dilatare all'infinito le sue dimissioni, lasciando che si ripercuotano su tutto il resto della sua vita; non dover fare più niente e poter fare tutto ciò che ama. W lei, dunque, se riuscirà finalmente a darsi a un rilassato mecenatismo intellettuale senza chiedere alcun voto in cambio. Se mi spedisse un suo romanzo, potrei addirittura leggerlo.

giovedì 19 febbraio 2009

L'errore di Benigni

Dite la verità, voi volete che vi parli della scoperta dell'acqua calda, della follia improvvisa di Walter Veltroni che si dimette non già perché ha perso le regionali in Sardegna, e fin lì, ma perché ha perso le primarie a Firenze, anche se i giornali non lo scrivono, figurarsi. E invece vi parlerò di Benigni.

Quest'anno Sanremo non lo vedo per vari motivi contingenti: sto andando a letto presto, la sala tv è sovente occupata, ho parecchio da leggere, i cantanti non mi entusiasmano, Bonolis, eccetera. Lunedì sera ho solo sbirciato Benigni, ma giusto un po', nel breve lasso di tempo che separava la fine dei Simpson dall'inizio di S.O.S. Patata (Fox tv è una grande risorsa per l'umanità, quando non c'è il calcio), e sono capitato nell'istante della lunga marchetta pro-omosessuali.

Fermo restando che non bisognerebbe deportare né torturare nessuno, mi è parsa un po' bolsa la solita predica sul fatto che l'unica colpa degli omosessuali fosse di amare qualcuno. Senza voler fare discorsi cattolici, che sarebbero sprecati, mi pare evidente che a livello neurologico quello che viene comunemente definito amore sia un residuo psico-sociale dell'attrazione riproduttiva, che negli uomini (a differenza degli animali) si problematizza a livello individuale e collettivo. (Cercate di seguirmi, sto tentando di dimostrare che laurearmi in filosofia è servito a qualcosa). Non nego che un uomo possa provare piacere sessuale con un altro uomo, né che possano vivere insieme felicemente per cinquant'anni: ma nel primo caso sono dei porci, cosa peraltro legittima, nel secondo caso dei coinquilini. Possono fare quello che vogliono, ma l'amore non c'entra.

Tutt'al più è una colorita parodia, come purtroppo avviene spesso anche fra gli eterosessuali - basta che vi facciate due chiacchiere con una trentenne frustrata, sempre ammesso che ce ne siano di non frustrate, sentendola sbrodolare su sentimentalismi adolescenziali, e vi renderete conto che l'era di Facebook, dei call center e della Champions League è soprattutto l'era di una ridicola pornografia dei cuoricini.

Benigni, che è un comico intelligente che quando smette di fare il comico smette pure di essere intelligente, c'è cascato con tutte le scarpe, come se sotto il palco dell'Ariston ci fosse stata un'apposita botola. Ve lo dimostro.

Come controprova della nobiltà dell'amore omosessuale e della sua sostanziale identità con l'amore eterosessuale, cioè quello vero, ha parlato di Oscar Wilde che, incarcerato per omosessualità in piena Inghilterra vittoriana, scriveva al suo giovane amato lettere struggenti una delle quali è stata declamata sotto lo sguardo vigile di Paolo Bonolis.

La lettera non era male, d'altra parte Wilde sapeva scrivere. Se non che Benigni ha tralasciato alcuni dettagli fondamentali, non so se per malafede o ignoranza. Non ha specificato che l'amato al quale Wilde si rivolgeva era Bosie Douglas, un giovanotto tanto bello quanto stronzo che lo ha fatto soffrire sadicamente mostrandogli un simulacro di sentimento mentre se la godeva un po' con tutti (e con tutte). Né ha specificato che l'attrazione di Wilde per Douglas era una proiezione narcisistica, poiché dal primo incontro a Wilde era parso di aver visto in carne e ossa lo stesso Dorian Gray uscito dalla sua penna. Tradotto, agli occhi di Wilde il miglior pregio di Douglas era quello di sembrare creato da lui.

Bosie Douglas, vessato dal padre marchese di Queensberry (uno dei principali artefici della federazione pugilisitica britannica), utilizzò Wilde per disfarsi del padre ingombrante. Wilde fu condannato, ma in un processo che aveva voluto lui, facendo causa a Queensberry su istanza dello stesso Douglas. Queensberry, in un biglietto minatorio, aveva accusato Wilde di essere un sodomita - a dire il vero, intendendosi più di pugilato che di ortografia, lo aveva accusato di essere un "somdomita" - e Douglas aveva insistito perché Wilde lo querelasse per diffamazione. In questo modo, il processo per stabilire se Queensberry avesse o meno diffamato Wilde, dandogli del "somdomita", si trasformava automaticamente in un processo per stabilire se Wilde fosse sodomita o meno, con o senza m. A conti fatti, per la proprietà transitiva, a condannare Wilde non fu tanto la società vittoriana quanto la folle sconsideratezza del ragazzo che credeva di amare.

E la dolce, meravigliosa lettera recitata da Benigni, che Wilde scrisse a Douglas e che ognuno di noi vorrebbe poter scrivere a chi sa lui, è una delle tante che restò senza risposta. Wilde trascorse due anni in galera senza ricevere una riga da Douglas, se non contiamo i biglietti di insulti. Lo dice Wilde stesso nella sua ultima lettera a Douglas (e ultima opera letteraria), il lungo e disperato De Profundis: epistola in carcere et vinculis: le sue prime parole sono di rimprovero all'amato per non essergli stato di nessun conforto nei due anni di giorni tutti uguali, e ognuno peggiore del precedente, nei quali Douglas stesso l'aveva cacciato. E per questo, dice Wilde in un passo che Benigni ha dimenticato di citare, quello fra lui e Douglas non è amore ma (non ricordo precisamente gli aggettivi, ma il tono è uguale) "disgraziata e malintesa amicizia".

Non potendo raccontare tutto questo nel dettaglio, per esigenze sceniche, l'allegorica regia del Festival di Sanremo ha ritenuto opportuno sottrarre ogni credibilità al discorso di Benigni sulla dignità dell'amore omosessuale inquadrando immediatamente e in primo piano Franco Grillini.

mercoledì 18 febbraio 2009

Il falso è un momento del vero

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Carlo Martinelli, cinquantenne, giornalista e trentino, ha una evidente predilezione per la levità e il disimpegno. Non pare amare i discorsi tronfi né i volumi ponderosi; e dal suo curriculum traspare una certa preferenza per le case editrici di nicchia (Priuli & Verlucca; Curcu & Genovese) e per una produzione più occasionale che sistematica. Lui stesso specifica che suoi racconti, brani, interviste e quant’altro sono sparsi un po’ dappertutto. Un orso sbrana Baricco, lungi dal voler esaurire tutta la produzione di Martinelli, raccoglie un po’ di quant’è stato sparso e lo riunisce con alcuni pezzi inediti così da fornire una visione d’insieme stuzzicante e per nulla banale.

Di questi tredici raccontini il più lungo misura quindici pagine, il più breve cinque righe e mezza. Stando ai contenuti, nessuno ha nulla a che vedere con gli altri, se non la frequente ambientazione trentina e una frase ricorrente che può essere presa come unità di misura della poetica di Martinelli: “il falso è un momento del vero”. Come riprova valga il primo racconto, che dà il titolo al volume. Prende spunto dall’effettiva attività di un personaggio realmente esistente, Alessandro Baricco che va in Trentino per girare un film; aggiunge un elemento di rottura non rispondente al vero, ossia l’orso che sbrana l’autore/regista, o che anzi dovrebbe sbranarlo; rende posticcia perfino l’invenzione, poiché la disgrazia avrebbe dovuto venire inscenata da un gruppo insurrezionale ambientalista; sposta la prospettiva complessiva raccontando il fatto non in presa diretta, ché anzi non è mai avvenuto nemmeno nel racconto, ma con le parole di un poliziotto che riferisce al ministro; e per finire offre al lettore solo metà della conversazione, tacendo le domande e le risposte che il poliziotto sente provenire dall’altro capo del telefono.

Il lettore viene tenuto sempre a una certa distanza di sicurezza dalla narrazione che gli viene via via sottoposta: questo tramite piccole incongruità che segnano gli sbalzi da una scena all’altra nell’ambito dello stesso racconto, oppure per mezzo della ricostruzione flebile, quasi acquerellata, del passato di grandi uomini, o anche solo grazie a scelte stilistiche che rasentano, volutamente s’intende, il grottesco – e che perciò finiscono per essere più rivelatrici.

Un esempio per ciascuna tipologia. La funicolare di Cislenko, il racconto più vibrante d’umanità e forse più vicino alla biografia di Martinelli, procede per piccoli sbalzi dalla prima alla terza persona ma, soprattutto, dal variopinto mondo interiore di un ragazzino di Mezzocorona che passa i pomeriggi a tirare la palla contro il muro, accompagnandosi con una telecronaca fai da te che coinvolge tutti (ma proprio tutti) i partecipanti ai Mondiali del 1966, al contrastante mondo degli adulti che giocoforza vien fatto di immaginarsi in bianco e nero. Il suo principale appiglio al mondo reale è la supremazia indiscussa nel ricordare a memoria le formazioni intere delle sedici nazionali, compresa l’impronunziabile filastrocca della Corea del Nord. Attende fiducioso di stupire gli adulti con quest’ultima sua capacità, ma nessuno glie ne chiede; il tempo passa, diventa adulto, e quarant’anni dopo, della Corea, ricorda a stento un paio di nomi che sanno tutti.

Sabato d’agosto riproduce il refolo di freschezza all’albeggiare, poco prima che giunga la canicola a sommergere ogni cosa. Un uomo, di ritorno in Svizzera, fa improvvisamente fermare il suo autista e scende a prendere una boccata d’aria sulla strada che costeggia San Michele. Una coppia in cinquecento, che sta andando a sposarsi nonostante l’ora estremamente antimeridiana, chiacchiera con lui. O meglio, a mo’ di nuova edizione del V dell’Inferno, con lui chiacchiera solo la donna, mentre l’altro tace – in Dante piange, in Martinelli più prosaicamente si apparta per far pipì: sunt lacrimae rerum. Guardano insieme l’Adige che scorre e si sentono impercettibilmente uniti, come se gli esili fili delle loro storie individuali si intersecassero una e una sola volta. Lui è Georges Simenon; loro sono Mara Cagol e Renato Curcio.

Ne ho viste di cose, porzelàna, è il martellante monologo interiore – con le minuscole dopo i punti – del barista di una stazione di servizio, che ora presta servizio a est “quella che porta le auto e i camion (…) verso i miei amici crucchi”, ora sostituisce qualche collega a ovest, sull’“autostrada che porta in terronia”. Lui è il punto fermo per il quale passano infinite rette, e nella sua impassibilità (invisibilità quasi) vede fermarsi, scendere dall’auto e ripartire ogni possibile tipologia d’Italiano e ne spia per un attimo l’esistenza, come se di ognuno assaggiasse un cucchiaino.

E forse l’intero volumetto di Martinelli è così. Un’antologia del curioso che, con lieve disincanto, guarda dalla serratura gli attimi irripetibili di una realtà in ebollizione: la coglie, la penetra e la incornicia.

martedì 17 febbraio 2009

Sardegna, nazione

Lassa s'arbeche
picca su caddu
curri curri a ti cambiare
pur lu twisti ballare
bogarì su gambale
(ah ah ah ah)
pro ballare su twist
.
(Benito Urgu)

Non so se devo preoccuparmi di trovarmi all'improvviso del tutto d'accordo con Cossiga (padre). Forse deve preoccuparsi lui, visto che stamattina ha dichiarato al Corriere le cose esatte che stavo pensando ieri sera dopo gli ultimi (ultimi...) aggiornamenti sulle elezioni in Sardegna.

Confidando che i risultati definitivi vengano resi noti prima della nuova tornata elettorale, prevista per il febbraio 2014, dal trend di ieri e dai risultati quasi stabili di oggi emerge in maniera lampante che la Sardegna ha scelto di uniformarsi appieno al resto dell'Italia, forse sorprendendo gli stessi sardi.

Ha vinto Berlusconi all'atto stesso di imporre Cappellacci perché - come mi confermava ieri un amico sardo attivista del Pd - "se avesse candidato Beppe Pisanu o Cossiga (figlio), non si sarebbe nemmeno stati a discutere sull'eventualità che Soru vincesse, ovvero che Berlusconi perdesse." Invece, candidando Cappellacci contro lo stesso volere dell'establishment isolano di Forza Italia e Alleanza Nazionale, Berlusconi ha catturato con una sola fava i due piccioni che gli storici americani dell'Antica Roma solevano distinguere in internal situation ed external situation.

L'external situation esigeva la sconfitta del Pd, come ormai siamo fin troppo abituati a vedere (con la preoccupante eccezione del Trentino; preoccupante per i Trentini, intendo) - ma soprattutto esigeva la sconfitta di Renato Soru, che del Pd si candidava a Obama bianco, quando invece è solo un Berlusconi malmostoso e pallido. (Come la Settimana Enigmistica, Berlusconi vanta innumerevoli tentativi d'imitazione; come la Settimana Enigmistica, la Torre Eiffel o la Chiesa Cattolica, Berlusconi è un prototipo originale talmente perfetto da rendere inesorabilmente kitsch ogni tentativo di somigliargli, superarlo o riprodurlo in scala). L'internal situation, indipendentemente dall'impazzimento individuale di Fini, esigeva l'imposizione di Berlusconi sulle gerarchie partitiche locali, del predellino sulla sezione, del Popolo della Libertà come valore aggiunto sulla somma aritmetica di Forza Italia e Alleanza Nazionale.

Se controllate i risultati delle liste in maniera più seria di come facciano i quotidiani, noterete che il Pd non è crollato affatto, come invece si crede: ha preso molti meno voti delle politiche 2008, com'è inevitabile e com'è capitato anche al Pdl. Il paragone va fatto sulle regionali del 2004: il Pd ha preso grossomodo la somma di Ds e Margherita cinque anni fa; il Pdl ha preso circa il 7% in più (ferme restando le cifre ballerine di questo scrutinio a dorso di mulo) della somma di Forza Italia e Allenaza Nazionale nel 2004. Udc stabile al 10%, Italia dei Valori stabile al 5%. Tradotto, il Popolo della Libertà viene percepito dall'elettorato come valore aggiunto, il Partito Democratico no. Berlusconi ha avuto ragione. Soru ha sbagliato. Veltroni è come se non ci fosse.

Renato Soru, per gli amici "sardo nel buio", ha sbagliato soprattutto nel non annusare il desiderio di nazionalizzazione della Sardegna - confermato anche dai risultati in fin dei conti modesti ottenuti dalle liste, ehm, Unidade Indipendentista e Indipendentzia Repubrica de Sardigna. Il mio stesso informatore sardo e democratico (che, come se non bastasse, è pure ingegnere e interista) un po' sospettava e un po' sperava che molti elettori delle liste di centrodestra votassero per i due candidati indipendentisti. Errore pure qua.

Soru ha puntato tutto sull'altezzosa diversità dell'isola, sulla Sardignitas, sui lunghi silenzi nelle interviste e sugli spazi incontaminati dai turisti. Berlusconi su tutto il contrario. S'è cercato di far passare per buono un modello-Soru che invece era un coacervo di luoghi comuni passatisti, ottenuti per deduzione a contrariis partendo dalla loquacità talvolta eccessiva di Berlusconi, e dalla sua passione per le ville. Soru, che aveva ben in mente quest'idea del berlusconismo imperante (e del briatorismo, visto che tende a confonderli) che invadeva la brulla, riottosa verginità della Sardegna, ha puntato tutto sull'idea radicalmente alternativa, ossia restituire l'isola ai ritmi (lenti, visti gli scrutini), ai silenzi, ai paesaggi intimamente sardi. Ha chiamato la sua lista "La Sardegna che cambia" e ha commesso un lapsus e mezzo, non essendosi accorto che negli ultimi cinque anni, in Sardegna, ha governato lui.

E così, la Sardegna accoglie l'invito di Soru e cambia mica poco. Soru s'è bruciato nel giro di tre mesi, congratulazioni, nemmeno Veltroni era riuscito in tanto. Né dirò una parola sul Pd che a Firenze è stato perfino in grado di perdere le sue primarie.

Invece vado a ballare il twist con Benito Urgu.


lunedì 16 febbraio 2009

Ventiquattresima giornata

E non crediate, uomini di poca fede, che io oggi abbia tergiversato ad aggiornare il blog per non affrontare di petto la partita di ieri sera. Come se non avessi mai perso un derby. Come se non avessi mai perso uno scudetto (a febbraio, vabbe'). Come se il Milan non avesse mai gettato all'aria una stagione (ma in realtà c'è ancora la Coppa Uefa - io ci tengo anche se ha smesso di essere una cosa seria a metà anni '90).

Niente da dire sul derby, anzi peggio, poco da dire sul derby. L'Inter ha giocato meglio dall'inizio alla fine e solo l'ubriachezza molesta di Adriano, specialmente solo davanti ad Abbiati sdraiato, e la conclamata incapacità di Ibrahimovic di incidere sui big match hanno evitato un passivo più pesante. Un 3-0 sarebbe stato ragionevole, né il tardivo risveglio del Milan serve a poter dire che abbiamo giocato meglio nel secondo tempo, primo perché le partite si guardano (e si giocano) intere, secondo perché l'Inter aveva ben donde tirare i remi in barca e ha risparmiato fiato - è triste dirlo - per i futuri impegni europei.

Forse sarà l'ultimo derby che guardo, pensavo stanotte nell'ardimentoso tentativo di digerire un tiramisù che era un'arma impropria: questo della primavera (be', primavera...) 2009 l'ho visto e abbiamo perduto 2-1; quello dell'autunno (be', autunno...) 2008 l'ho ascoltato su 7 Gold raccontato da Tiziano Crudeli (mea culpa mea culpa etc.) e abbiamo vinto 1-0; quello della primavera 2008 l'ho fugacemente ascoltato da qualche radiolina accesa qua e là in giro per Trento e abbiamo vinto 2-1; quello dell'autunno 2007 l'ho visto in un pub a Modena, pieno di interisti, peraltro quasi tutti amici miei, e abbiamo perso 4-3; quello della primavera 2007... vabbe', inutile continuare con questa manfrina, tediarvi con l'elenco dettagliato. Sappiate che ormai mi sono abituato: se non vedo un derby il Milan vince; allora m'ingolosisco, mi piazzo davanti a Sky al derby successivo e il Milan perde; allora mi deprimo, decido che non vedrò mai più un derby, ignoro più o meno scientemente il derby successivo e il Milan vince. Nella primavera 2005, col derby del Venerdì Santo (mah), il fatto di non poterlo guardare per digiuno e astinenza mi aveva conferito una tale sicurezza nella vittoria che controllare il risultato sul televideo mi sembrava sacrilego e superfluo.

E così, l'Inter ha quasi vinto il suo primo scudetto vero a vent'anni da quello straordinario e memorabile (io me lo ricordo come se fosse ieri) del 1989. Non è un caso che ciò avvenga con Mourinho in panchina: prende una squadra come il Porto, che non vinceva una competizione internazionale dal tacco di Madjer, e le fa vincere Uefa e Champions League in rapida successione; prende una squadra come il Chelsea, che aveva vinto un solo campionato e cinquant'anni prima, e le fa vincere non uno ma due campionati uno dietro l'altro; prende una squadra come l'Inter, ormai abituata a vincere per decreto giudiziario o per eliminazione delle concorrenti o per generali circostanze poco trasparenti, e le mette in mano già a febbraio uno scudetto che, lo dico sin d'ora, sarebbe cristallino.

Lo dico sin d'ora sapendo che solo una squadra può riaprire il campionato. Non la Juventus, che ieri ha giocato a tirassegno coi pali. Non la Roma, figuriamoci. Il Manchester United, fra dieci giorni, ci dirà di che pasta è fatta l'Inter: se, come al solito, al primo ostacolo vero la Champions League sarà finita per l'ennesima volta, nessuno vieta che ci sia un contraccolpo psicologico, anzi psicotico, come quello dello scorso anno nelle immediatezze post-Liverpool; se, come io penso, l'Inter si qualificherà e andrà avanti fino alla finale di Champions (perdendola, ovviamente), la cavalcata potrebbe portar via qualche energia di troppo al campionato e rimettere in corsa le dirette concorrenti italiane, se ancora ce ne fossero.

Ma se vinceranno, come vinceranno, il loro quattordicesimo scudetto vero, sarò il primo a stringere la mano ai miei amici interisti, talmente forte che gliela stritolerò quasi.

venerdì 13 febbraio 2009

Letterine letterarie (19)

Gurrado, san Cabrón,
¿que semanita, eh?
Nacho

Hai ragione mica poco, è stata una settimanella o settimanaccia paragonabile (fatte le dovute proporzioni) a quella del lontano maggio 2005 durante la quale vedemmo, in rapida successione:
- di lunedì, al Palabasket di Bologna, l'adorata Lottomatica venire utilizzata come materassino rimbalzevole dalla Fortitudo;
- di mercoledì, il Milan vincere 3-0 al primo tempo contro il Liverpool in finale di Coppa Campioni salvo poi pareggiare 3-3 e perdere ai rigori (che a raccontarla così non si rende nemmeno lontanamente l'idea);
- di sabato, Paolo Savoldelli, il ciclista grigio, vincere il secondo Giro d'Italia per pochi secondi guadagnati rocambolescamente su tre concorrenti (Simoni, Rujano, Di Luca) che meritavano più di lui.
Oggi, tanto per dire, non più tardi di venti minuti fa mi stavo facendo la barba e m'è sfuggita dalle mani la pietra d'allume, sfasciandosi in mille minutissimi pezzi sul pavimento del cesso, roba che a stento mi sono trattenuto dall'esprimere salaci considerazioni generiche al riguardo dell'1 e del 2 novembre. Sono sicuro che entro la giornata succederà di peggio, ma è stato un venerdì 13 iniziato giorni e giorni fa, forse da venerdì scorso, nel momento in cui Giorgio Napolitano ha sovvertito l'ordine naturale per scodinzolare dietro alla prassi istituzionale. Ma io, ora che ci penso, avrei dovuto capire che era una battaglia persa - avrei dovuto capire che avrebbero finito per vincere tutti i Beppini Englari del mondo - già l'estate di qualche anno fa, la sera in cui mentre ero a Gravina e aspettavo una pizza da asporto e stavo a prendere il fresco sui gradini della rosticceria ho visto con la coda dell'occhio un signore che si stava intrattenendo nella rosticceria a mangiare panini e patatine fritte con moglie e figlia piccola; il quale signore a un certo punto si alza, mi passa vicino sui gradini e s'avvicina alla sua macchina parcheggiata di fronte; apre lo sportello, ripone qualcosa nel cruscotto, richiude lo sportello e torna nella rosticceria. Voi dovevate essere lì e accorgervi come me che prima non avevate visto un bambino handicappato seduto sul sedile posteriore, tenuto chiuso nella macchina; dovevate vedere come stava passando la serata abbracciato a un pallone da calcio, mollato lì perché in rosticceria avrebbe fatto fare brutta figura o si sarebbe sbrodolato o avrebbe fatto casino e non avrebbe consentito di godersi panini e patatine; dovevate vedere con che occhi di speranza ha guardato il padre che apriva la portiera, come s'è letto chiaramente sul suo volto il desiderio di venire portato in rosticceria, dovevate vedere che effetto gli ha fatto la portiera che si richiudeva. Io non sono sentimentale ma avrei voluto prendere il padre, infilargli le patatine nelle narici, occludergli il culo col ketchup e fargli provare almeno per cinque minuti la sensazione di muta inadeguatezza che suo figlio provava dalla nascita e avrebbe provato per sempre, anche in quest'istante dovunque egli sia.
Ma la battaglia del bambino handicappato sul sedile di dietro era persa in partenza, com'era persa quella della Englaro (non ha cervello! vuole così suo padre! vuole così il Presidente della Repubblica!) e combatterla è stato un ultimo rigurgito da galantuomini che è servito a delimitare per bene i confini di una minoranza decente. Gli altri pensano al diritto, alla democrazia, alla separazione dei poteri; hanno ritenuto che, piuttosto di dar ragione a Berlusconi una volta che fosse una, anche in un caso di ragione lampante cristallina, sarebbe stato meglio farsi fucilare impiccati; hanno avuto il coraggio di dire che la Englaro era morta 17 anni prima, e non si rendevano conto che la morte di lunedì, la morte vera, la morte per sentenza stava scatenando conseguenze che non si sarebbero verificate se la Englaro fosse davvero già morta nel 1992.
Se fosse davvero già morta nel 1992, lunedì sera a un'ora pressoché folle non mi sarei messo a scrivere a Langone lamentandomi per le cose che questa triste vicenda porta con sé:
- la consapevolezza che per la Presidenza della Repubblica il senso dello Stato sia superiore al senso della vita, e che quindi per un vizio di forma Giorgio Napolitano sarebbe pronto a far morire cinquanta milioni di Italiani;
- la scoperta di una quantità sorprendente e teoricamente infinita di cattolici molli o a doppio taglio, che al "sì sì no no" antepongono il "sì però", compresi preti progressisti e vescovi ambigui tanto che uno si domanda a che serva la riduzione allo stato laicale;
- per non dire di buona parte dei miei amici che s'è rivelata aggressiva e vigliacca (tranne uno che, lo riconosco, pur nel suo cieco beppinismo e napolitanismo s'è posto dei problemi, m'ha fatto un gran discorso, ha cercato di ricucire); ragion per cui mi sono sentito come se volessero privarmi del mio diritto di difendere la loro vita, sfilandosi dal loro dovere di difendere la mia.
E lo stesso distinto sentimento di avere chiaramente ragione e sentirsi dare torto - dall'opinione comune, dall'establishment, dalla politica, dall'ottusità della stampa - riemerge chiaramente sulla querelle del Festival Filosofia, durante questa stessa settimana orribile, in un inquietante intreccio cronologico fra un evento privato, l'uccisione per affamamento della Englaro, talmente universale da diventare pubblico/politico, e un evento pubblico/politico, la rimozione della Borsari, che va a colpire e affondare i tre anni migliori della mia vita, 2005-2007, e la città che ho amato di più, Modena per chi non l'avesse intuito da alcuni indizi sparsi qua e là. Anche qui c'è una maggioranza che chiacchiera per sentito dire, la stampa che (vedi Aldo Grasso ieri) ignora i dettagli fondamentali, la politica che divora gli eventi, le pale dei mulini a vento che girano vorticose e un'altra battaglia da perdere in scioltezza, venendo accusati magari di chissà quali interessi, nel solo tentativo di difendere il sacrosanto diritto di una persona che ha lavorato bene a continuare a lavorare, nel solo interessarsi a che colleghi più giovani di cui non so nemmeno i nomi abbiano lo stesso standard qualitativo del mio dottorato e siano concesse loro le stesse possibilità di carriera, mentre vedo a uno a uno sfilarsi gli amici, i ponzipilati, gli englaristi della situazione i quali davanti sono tutti vaghe promesse e dietro iniziano a calcolare i pro e i contro, dando ragione al torto e sperando che magari il loro silenzio venga ricompensato con un posticino. Consoliamoci pensando che anche qui siamo la minoranza decente, un giorno qualcuno ce ne renderà merito - o forse non è detto, quindi preferisco rendermene merito da solo.
Sdrammatizziamo, ci manca solo che domenica il Milan perda il derby con un punteggio ridicolo, tipo 5-6, e la semanita - la settimanella settimanaccia - sarà completa. Ma ora vado a fare colazione, io che posso, e poi mi metto a lavorare, io che posso.

giovedì 12 febbraio 2009

La distruzione dei filosofi

Avrete letto sicuramente qua e là della querelle sul Festival Filosofia di Modena, culminata nella protesta di quaranta professori di tutta Europa, a seguito del mancato rinnovo del contratto alla prof. Michelina Borsari, direttrice scientifica della Fondazione San Carlo, l'ente che organizza il Festival. I giornalisti, con un po' di fantasia, hanno definito questa protesta "la rivolta dei filosofi".

La stampa non ne parla, ma l'affaire-Borsari porta con sé un effetto meno spettacolare ma estremamente preoccupante. Il Festival è strettamente collegato alla Scuola di Alti Studi, un ente che dal 1995 mette a disposizione borse di dottorato per studenti italiani e stranieri specializzati in scienze umane e scienze della religione. Il mancato rinnovo del contratto alla direttrice Borsari in dicembre, e la sua sostituzione col prof. Carlo Altini ai primi di gennaio, ha portato alle immediate dimissioni del prestigioso Comitato Scientifico della Scuola, composto dai proff. Remo Bodei, Tullio Gregory, Giovanni Filoramo, Francisco Jarauta, Maurice Olender e Wolfgang Schluchter e in carica dal 2002.

Il consiglio d’amministrazione della Fondazione San Carlo, presieduto da Roberto Franchini, è parso sottovalutare enormemente le conseguenze del suo gesto, nonostante la "rivolta dei filosofi" e nonostante un appello di cinquanta ex allievi della Scuola (quorum ego), oggi ricercatori o affermati professionisti in tutta Europa, che avevano subito espresso il loro sostegno alla direttrice Borsari.

Al momento il sindaco di Modena, Giorgio Pighi (Pd), ha proposto una soluzione di compromesso: sottrarre l’organizzazione del Festival Filosofia alla Fondazione San Carlo, e quindi a Roberto Franchini, affidandola a una costituenda Fondazione diretta dalla stessa Michelina Borsari.

Resta tuttavia insoluta la questione riguardante la Scuola di Alti Studi. A quanto pare, la situazione della Scuola per l’anno accademico 2008-2009 oggi è la seguente:

- dei sei corsi organizzati dalla direttrice Borsari (tenuti dai proff. Schluchter, Bodei, Berti, Hoffmann, Nancy e Barbaras) ne sono al momento confermati solamente due (Hoffmann e Barbaras), né si ha idea di chi possa sostituire gli altri quattro professori che hanno rinunciato;

- l’inizio dei sei ipotetici corsi, che devono comunque tenersi entro l’estate, è stato posticipato a fine aprile;

- la discussione delle tesi di dottorato prevista per la fine di marzo è stata rinviata a data da destinarsi, né al momento si può intuire la composizione di una qualsiasi commissione d’esame;

- le cotutele o partnership con università estere sono ferme al punto in cui erano state lasciate nell’ultimo giorno di lavoro della direttrice Borsari;

- i nuovi allievi ammessi al dottorato hanno scelto la Scuola di Modena per poter collaborare coi membri del Comitato Scientifico, ancora in carica a dicembre, al momento corrono il rischio concreto di non poter collaborare con nessuno dei professori dimissionari, né hanno idea di quali professori potranno sostituirli, vista l’ostilità esplicitamente espressa nei confronti della nuova gestione della Scuola da decine di rinomati professori italiani ed europei (fra i quali Marc Augé Irving Lavin, Christof Wulf); un allievo su cinque ha già rinunciato alla propria borsa.

È dunque evidente che la nuova gestione della Scuola Alti Studi, in meno di due mesi, ha permesso che la situazione non restasse immobile ma anzi regredisse visibilmente. Ieri il Consiglio d'Amministrazione della Fondazione San Carlo ha emesso un comunicato stampa, forse dai toni un po' sopra le righe, in cui risponde genericamente alle lettere individuali di dimissioni dei sei professori del Comitato Scientifico. Fatto sta che al momento il presidente Franchini, che pure ha invitato il Comitato Scientifico a ritirare le dimissioni, non lo ha ancora ufficialmente convocato a Modena, nonostante l’urgenza della situazione e le estreme difficoltà in cui versa la Scuola di dottorato.

Da ex allievo, non posso che sentirmi amareggiato e pessimista per il destino della Scuola di Alti Studi, uno dei migliori (e più trasparenti) dottorati in scienze umane. Questo, almeno, fino a ieri. E domani? Se la "rivolta dei filosofi", intesi come grandi professori, non avrà riscontro nelle decisioni del Consiglio d'Amministrazione, la conseguenza sarà una lenta, progressiva, inevitabile "distruzione dei filosofi", intesi come giovani ricercatori.

mercoledì 11 febbraio 2009

È arrivato il nostro Carnevale

(Gurrado per Quasi Rete - il pezzo è stato scritto lunedì pomeriggio, quindi "oggi" va inteso in tal senso)

Maxima debetur puero reverentia.
(Giovenale, Satira XIV)

Se ne saranno accorti solo i più attenti di voi, i più fissati, i più maniacali: oggi è iniziato il Torneo di Viareggio. Il quale in realtà si chiama ormai Viareggio Cup (in omaggio alle varie Tim Cup, Uefa Challenge Cup, Dio Solo Sa Cup) ma ha saggiamente conservato il sottotitolo che lo rende tanto celebre quanto amabile: Coppa Carnevale.

È una piccola bizzarria del nostro calcio, infatti, questo torneo coloratissimo e folle con dieci gironi da quattro squadre giovanili ciascuna, equamente ripartite fra blasone patrio (le solite), commovente provincia (il Novara, il Pisa, la Cisco Roma) e recessi esotici (il Leichhardt, il Midtjylland, il New York), su campi che in buona parte non hanno mai visto una partita di Serie A, ma nemmeno di B, forse neanche di C. A dirla così sembra un assurdo, ma sarà quest’aprioristica implausibilità che conferisce alle due settimane di torneo (da oggi fino al 23 febbraio) il tipico andamento sorridente, quasi ariostesco nello spostare la sua attenzione da un campo all’altro su e giù per la Toscana. È un Carnevale, non una carnevalata.

Tanto per dire: il campionato primavera (ormai Primavera Tim) è iniziato nel 1962; il Torneo di Viareggio nel 1949. Vinse il Milan, e il Milan riaffiora qua e là nell’albo d’oro per otto volte complessive, l’ultima nel 2001. C’è ovviamente tanta Juventus, con le tre vittorie di fila dal 2003 al 2005, e un po’ meno Inter, che è ciò nondimeno detentrice del trofeo: ma se, come ormai pare inevitabile a più alti livelli, la lotta fosse limitata alle tre grandissime il torneo perderebbe nove decimi del suo fascino. A scorrere l’albo d’oro, invece, si nota parecchia Sampdoria, il Lanerossi Vicenza, tantissima Fiorentina e il sempre ottimo Torino; ma anche Cesena, Atalanta, Brescia, Bari, Empoli, Genoa. Fra le straniere, va notato il dominio del Dukla Praga, che dal 1964 al 1980 vinse sei edizioni, e che è stata l’ultima non italiana a vincere prima degli uruguagi della Juventud, tre anni fa.

Trofeo sghembo, di accostamenti arditi, anche quest’anno la Coppa Carnevale si fa paladina di un internazionalismo onnicomprensivo e più che democratico. I fortunati che vivono in Toscana, e non lavorano alle tre del pomeriggio, potranno vedere il Maccabi Haifa che gioca a Quarrata, l’Independiente Santa Fe a Empoli, il Pakhtakor alla Sciorba, lo Spartak Mosca a Montemurlo, il Nacional Asunción a Serrazzano. Questo, signori, solo oggi. Domani c’è l’Anderlecht a Cogoleto.

Si dirà: va bene, ma tutti questi Anderlecht, Spartak Mosca e Independiente, con annessi Milan e Inter Juventus Bari Genoa, sono squadre giovanili e niente più, il calcio vero è ben altro – anzi, il calcio vero è altrove. Balle. Innanzitutto perché sui campi di Viareggio e dintorni ho visto con questi miei occhi un giovanissimo Roberto Mancini, con la maglia del Bologna, Cravero col Torino, Del Piero col Padova e poi con la Juventus. Ogni anno mi viene voglia di ritrovare su vecchi giornali le foto delle squadre vincitrici e riconoscere a colpo d’occhio quelli diventati famosi, quelli diventati fondamentali, o quelli che – come a scuola – avrebbero potuto fare di più se si fossero applicati.

Soprattutto, il Torneo di Viareggio va oltre le squadre giovanili perché è una vetrina internazionale che, per due settimane, mette in mano a dei ragazzini la difesa dell’onore della propria maglia di fronte a mezzo mondo pallonaro. In quel momento il Milan, lo Spartak Mosca, il Dukla Praga sono quei ragazzini lì: e da tempo vado sostenendo che nelle due settimane di Viareggio andrebbero sospesi i campionati professionistici, come durante le Olimpiadi.

Prima ho guardato cinque minuti di Inter-Queen’s Park Rangers, la partita inaugurale, e il portiere dell’Inter era un fuscello che se qualcuno gli dà un ceffone si ritrova le narici al posto delle orecchie. Eppure indossava la maglia dei grandi, e questo solo gli conferiva un quarto di nobiltà, un che di invulnerabilità, quasi. Quando mi destreggio fra questo e quello riuscendo a piazzarmi davanti alla tv per guardare un po’ di Viareggio, torno a gustare il calcio delle maglie, in cui non conta la faccia ma cosa c’è sul petto – e, in uno slancio di retorica sanvalentinistica, anche nel cuore.

Ma se ne saranno accorti solo i più attenti di voi, i più fissati, i più maniacali. Un tempo il Viareggio andava in onda su Rai 3. Poi è stata la volta di Rai Sport, ora di Rapi Sport Più, l’anno prossimo chissà – forse di Rai Sport Quasi. Per sapere il risultato finale di Inter-QPR, a trasmissione spenta, ho dovuto fare i salti mortali. Per dire, la pagina calcistica della Gazzetta al momento parla di, nell’ordine: Costacurta che abbandona il Mantova per Martina Colombari, Adriano e Ronaldinho che vogliono giocare contro l’Italia, l’attacco di Gussoni a Mourinho, il quasi record di vittorie casalinghe del Palermo, la tripletta di Totti con Ilary (!), De Rossi punto da un pappataci, la guida turistica di Brema per la trasferta del Milan, la cena di San Valentino di David Beckham e costosissima signora, la cronaca del posticipo di ieri sera, la cronaca della Roma di ieri pomeriggio. Nessuna traccia della partita di oggi. Il sito del Torneo di Viareggio, alla voce Inter-QPR, riporta “in programma alle 15:00”. Sono le 18:32. Un sito sportivo, a metà della ripresa, riportava un risultato diverso da quello che avevo visto in diretta televisiva.

E invece il Viareggio andrebbe fatto vedere a tutti, proiettato in diretta durante i turni di scuola pomeridiani, per far capire che il calcio non è un reality impazzito. Il calcio consta di ventidue ragazzi che inseguono un pallone, con la maglia che sognano di indossare un giorno, sapendo che è difficile riuscirci. Per questo amo il Viareggio, apoteosi del possibile, Champions League della speranza.

lunedì 9 febbraio 2009

Za-la-mort

Un tempo i comunisti mangiavano i bambini. Ora hanno gusti più sofisticati.

Io per fortuna non ho studiato né legge né medicina, quindi non parlo di persone "tecnicamente vive" o "legalmente morte": mi limito a distinguere le persone in vive e morte. Se una persona respira (o può venire alimentata, o ha le sue cose, etc. etc.), è viva. Altrimenti, è morta. Quando una persona che non viveva inizia a vivere, è nata: alla stessa maniera, quando una persona che viveva passa a non vivere, è morta. Se si compie un atto per il quale una persona viva diventa morta, la si uccide. Non sembra particolarmente difficile, e dovrebbero riuscire a capirlo anche i laureati in legge o in medicina.

Silvio Berlusconi era l'unico che potesse fare qualcosa, e poteva fare solo una cosa. L'ha fatta. Mi fanno un po' pena i cattolici di sinistra i quali, pur di non ammettere che Berlusconi ha fatto una cosa giusta, hanno separato il grano dal loglio anche quando era tutto grano: dicendo che non bisogna cadere nell'illusione di un Cavaliere salvatore, di Berlusconi uomo della Provvidenza, etc. Se l'ha fatto, dicono, lo fa per difendere i propri interessi. Mah. Io non credo, perché in un colpo solo Berlusconi s'è messo contro il Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera e parecchi parlamentari del PdL che saranno costretti a votare contro la propria coscienza. Ha intrapreso una battaglia persa a priori, perché per quanto lui possa accelerare l'iter, la Englaro verrà uccisa in tempi rapidi. Non a caso, fino a pochi giorni fa, era sempre stato piuttosto morbido sui temi eticamente sensibili, ad esempio evitando di prendere posizioni drastiche sull'aborto. Gli conveniva? Per di più s'è messo contro la maggioranza degli Italiani, che sono un popolo comodo, versato nello scarico indifferenziato delle responsabilità e storicamente infastiditi dall'idea di dover accudire un debole o un malato. Forse è la prima volta che Berlusconi agisce senza tener conto dell'opinione pubblica. E se anche fosse? Trattandosi di un uomo portato alla semplificazione istintiva, ha capito che nell'affaire-Englaro sono in gioco non astratti principi morali o legali, ma il bene e il male tout court. Ha scelto la porta stretta e l'ha trovata sbarrata dallo Stato aconfessionale, da una pseudo-cultura egemone e dall'isterismo collettivo.

Per dire, io a parti invertite avrei difeso perfino Romano Prodi, se l'avesse fatto. Ma non l'avrebbe mai fatto, lui, perché è un cattolico adulto.

Giorgio Napolitano poteva fare solo una cosa, e non l'ha fatta. Se non ha firmato il decreto legge perché la sua coscienza resta indifferente di fronte all'uccisione per fame di una persona viva, è una bestia. Se non ha firmato il decreto legge perché frutto di Dio solo sa quale procedimento irrituale, vuol dire che tiene allo Stato burocratico più che alla vita (altrui): cosa che non sorprenderebbe, in un uomo che cinquant'anni fa esultava per i carri armati sovietici che entravano in Ungheria. In entrambi i casi, fra pochi anni dovrà renderne conto.

Gianfranco Fini secondo me è impazzito. Prima l'uscita in favore dell'insegnamento del Corano a scuola - e allora si disse che forse era eterogenesi dei fini, e che voleva impedire il proliferare di scuole coraniche incontrollabili, e vabbe'. Poi quella sulla compiacenza della Chiesa nei confronti del nazismo - e lì si pensò che il bue dicesse cornuto al ciuccio, o che si facesse più realista del re, per fugare da sé ogni sospetto di residuo nostalgico, e rivabbe'. Ora, la sua ultima sortita sulla Englaro - è chiaro che tre indizi costituiscono una prova. Lo aspetta la fine dei suoi predecessori Bertinotti e Casini, auguri.

Sto cercando di fugare da me il sospetto che il signor Englaro sia un Barbablù formato famiglia, come il marito di Terry Schiavo. Presumo e spero che non ragioni più per il dolore, quindi non gli do importanza. Rinfacciare a una figlia un'opinione espressa nell'adolescenza, e lasciare che la uccidano per quest'opinione, mentre lei è prigioniera del proprio corpo e non può in alcun modo esprimere il suo disaccordo - trovate voi l'aggettivo giusto per definirlo. Indizio: non è "eroico".

I peggiori di tutti sono i cattolici immaginari. Guardo e passo.

E i miei amici che tifano per la morte indotta, ritenendola un segno inequivocabile di civiltà: da un lato mi preoccupano perché sono gli stessi che tifano per i mussulmani, denotando un certo cupio dissolvi. Dall'altro mi terrorizzano perché, se domani loro dovessero trovarsi nelle condizioni della Englaro, io starò lì a pregare che Dio li tenga in vita, e che gli uomini si adeguino; loro invece faranno un carnevale in piazza per difendere il mio diritto di essere ucciso.

sabato 7 febbraio 2009

Poche parole

Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? (...) Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.
(Matteo 25, 35-40)

Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano per le vostre anime, come chi ha da renderne conto.
(Lettera agli Ebrei 13, 17)

venerdì 6 febbraio 2009

Letterine letterarie (18)

Gurrado,
ma perché non passi a Sky?
Fiorello

Ci stavo pensando e pure seriamente, ieri: la classica serata in cui in tv non c'è niente, anzi peggio, in cui c'è Annozero - a proposito, voi non sapete che mio padre è ospite fisso ad Annozero, in quanto si piazza in cucina e provvede a controbattere alle cose inimmaginabili che vengono dette nel corso della trasmissione. Il suo ruolo non è marginale. Ad esempio fu lui a urlare "adesso te ne devi andare" a Lucia Annunziata, qualche settimana fa, e Lucia Annunziata prontamente eseguì. Non giunge tuttavia agli eccessi della madre di un mio amico la quale qualche anno fa, quando Annozero ancora non c'era ma Santoro purtroppo sì, passò alla storia per essersi avvicinata al televisore e aver preso a ceffoni Fabio Mussi. Ci stavo pensando ieri sera mentre sfogliavo il decoder vagando fra infiniti canali, indeciso fra l'ennesima replica dei Simpson (replica della puntata di domenica scorsa, eh, non credevo che la Fox avesse materiale solo per cinque giorni), un'incertissima semifinale di Coppa del Re fra Barcellona e Maiorca (nota per mia madre: l'aggettivo "incertissima" va inteso in senso ironico), il Dottor House a reti unificate o il consolante immobile cartello sulla rete della Camera dei Deputati: Il Parlamento è convocato per le ore tot del giorno tot (fra parentesi, per la serie "la felicità è una piccola cosa", faccio notare che da questa legislatura la Camera ha iniziato a riunirsi, e di conseguenza i deputati a lavorare, anche di venerdì - inaudito). Alla fine sono capitato su Espn classics, canale che solitamente trovo di una tristezza sconfortante e che invece ieri mi ha consentito di appigliarmi a un'ampia sintesi di Francia-Portogallo, appassionante semifinale dei Campionati Europei, Vélodrome di Marsiglia, 23 giugno 1984. Allora ho capito che Sky è la salvezza. Nel primo tempo c'è una punizione per la Francia: tutti aspettano Platini e invece arriva Domergue (Domergue! me l'ero dimenticato pure io) che tira esattamente nel punto opposto. 1-0. La Francia domina in lungo e in largo, Battiston fa quello che vuole, Tigana pure, Platini non ne parliamo, il portiere del Portogallo (Bento) passa una serie di brutti quarti d'ora, l'unico portoghese che dia segni di encefalogramma ondulato è l'ala sinistra Chalana, la punta (col numero 3) Rui Manuel Trinidade Jordao è una specie di Luther Blisset involuto: e infatti a pochi minuti dalla fine Chalana piglia la palla sulla sinistra, crossa al centro per Jordao, il quale sbaglia il colpo di testa in maniera tanto marchiana che il portiere della Francia (Bats) viene scavalcato da una traiettoria surreale e non può combinare niente. 1-1. Ai supplementari, nemmeno il tempo di girare su Fox e vedere se hanno deciso di trasmettere dei Simpson più moderni, che quando torno su Espn il Portogallo è passato in vantaggio. Ha segnato di nuovo Jordao, non oso immaginare come. 1-2. Il tempo passa, la Francia domina, il Portogallo resiste, Chalana dà segni di vita, arrivano i minuti conclusivi e il Vélodrome ammutolisce. Io so benissimo che la Francia, per aver vinto l'Europeo, deve necessariamente aver vinto la semifinale, ma per come procede la partita coltivo il ragionevole dubbio che possa perdere in differita. Pochissimo al termine, un batti e ribatti in area, Platini allunga la palla per cercare il rigore, si accascia al suolo come un'eroina tragica, i Portoghesi alzano simultaneamente il ditino per dire no, Domergue si avventa sulla palla e, lui che all'inizio non doveva nemmeno giocare, fa doppietta. 2-2. All'ultimo minuto il Portogallo attacca, col solito benemerito Chalana, al quale tuttavia fregano palla lasciando partire un contropiede esattamente sulla fascia di campo che lui lascia sguarnita: dal fondo un Francese che non ricordo, forse Battiston, fa pervenire la palla a Platini appostato al centro dell'area di rigore (è noto che, in tutta la sua carriera calcistica, Platini non ha mai corso; tutt'al più ha camminato, ma il più delle volte si limitava ad apparire lì dove ce n'era bisogno). Un Portoghese cerca di contrastarlo; un altro, curiosamente, si sdraia (questo peculiare atteggiamento tattico dei Portoghesi mi ha fatto pensare che forse doveva pensarci due volte, Moratti, prima di spendere 22 milioni per Quaresma; la Storia ha sempre da insegnare). Platini segna. La partita finisce. La Francia vince. Ed è stata una partita sensazionale, 25 anni ne hanno lasciato immutato il fascino. Che peccato che il tempo scorra in avanti.

Gurrado,
com'è che non dici niente su Eluana? Da te mi aspettavo delle considerazioni pepate, o un articoletto almeno.
Umberto

Sull'argomento ho una cosa sola da esprimere, e vado ripetendola da qualche mese sintetizzandola in un mirabile ma efficace anacoluto: tutti questi giudici e medici che hanno voglia di ammazzare la gente è ora che inizino ad ammazzarsi fra di loro.

giovedì 5 febbraio 2009

Vip e dintorni, il catalogo è questo

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Nell’impossibilità di leggerlo tutto da cima a fondo senza diventare autistici, o senza esserlo già prima, per il Catalogo dei viventi 2009 mi sono orientato su due letture parallele: una stocastica, che contemplava la lettura integrale della sola lettera A, e una capricciosa, che comportava comunque l’obbligo di sfogliare ogni singola pagina del volumone soffermandomi a leggere le voci (o parti di esse) che per interesse o passione personale mi incuriosissero di più. È la stessa natura del Catalogo che spinge a esperimenti di questo tipo. Da un lato infatti intende essere esaustivo, così da venire consultato quando sorge qualche dubbio o quando l’ignoranza spinge a voler sapere tutto ma proprio tutto su un Italiano vivo e celebre, da Abatantuono Diego a Zuzzurro & Gaspare. All’inverso, lo stesso volume è una compagnia più che sufficiente per trascorrere una giornata intera a trottare su e giù per l’alfabeto alla scoperta di nozioni trascurabili o paradossali o imprescindibili.

La lettera A, dunque. In poco meno di cento pagine, al ritmo di due fitte colonne a pagina, presenta 363 voci. La struttura è solitamente questa: luogo e data di nascita; professione (fra le quali spiccano: politico, giornalista, cantante, camorrista); un proclama icastico, il più delle volte a firma del catalogato medesimo, che ne riassuma in poche parole l’essenza; la sezione “Ultime”, che anticipa la sezione “Vita” quando qualcuno ha fatto le cose in grande nei due anni trascorsi dall’ultima edizione del Catalogo; dopo di che la sezione “Frasi” riporta aforismi (anche involontari) del singolo catalogato e testuali giudizi altrui; all’occorrenza si aggiungono le sezioni “Politica”, “Religione”, “Vizi”, “Tifo”, e quant’altro.

La voce d’apertura, quella appunto su Abatantuono, pare messa lì apposta per dettare il ritmo a tutte le altre, ed è una vera e propria biografia professionale e umana in sedicesimo; rende edotti dei più significativi fra i dettagli insignificanti e fa finire per voler automaticamente bene al catalogato. Proseguendo indefessi la lettura integrale della lettera A, si registrano delle considerazioni ardite di Alfonso Signorini sulle pudenda di Accorsi Stefano; si apprende che Adinolfi Mario ha partecipato ai mondiali di poker; si ritrovano teorie complesse felicemente sintetizzate in una riga soltanto (ad esempio: Agnolin Luigi è “da sempre contro la moviola in campo”); si prende coscienza della crisi d’identità di Albanese Antonio, secondo il quale “fra tutti quelli che conosco sono la persona che mi somiglia di meno”; si tenta inutilmente di ricordare chi sia il mago Alexander, ché se è catalogato un motivo dovrà pur esserci; si compiange la povera Alice, ormai ridotta a otto righe miserelle; si scopre che il cognome di Alexia è Aquilani; si accompagna Aragozzini Adriano da dichiarazioni autoelogiative (“Il sottoscritto ha fatto cantare a Sanremo (…) il meglio del mondo”) a repentini ritorni alla dura realtà (“Condannato nel 1996 a 3 anni e 6 mesi”); si resta un po’ delusi trovando in apertura della voce Arbasino Alberto la solita frase su “brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro”; si apprende che Avati Pupi non va quasi mai al cinema; si termina infine con Azzolini Lauro, terrorista convertitosi dalle Br a Cl.

Quando spuntano opere che intendono catalogare qualsiasi cosa secondo criteri oggettivi che si traducono in scelte dimensionali, è molto difficile resistere alla tentazione di contare, misurare e paragonare – tanto più che una pubblicazione tanto curata fa sospettare che nulla sia lasciato al caso. Io non ho resistito affatto e ho contato che, su scala assoluta, ci sono 10 Agnelli, 8 Berlusconi, 10 Conti, 5 Cordero (di cui 4 di Montezemolo), 9 Costa, 15 Ferrari, 9 Fontana, altrettanti Giordano, 8 Leone, 7 Moratti (con Letizia più lunga di Massimo), 4 Prodi, 7 Romano (con Sergio più corto di Olindo), 9 Russo, 7 Savoia e ovviamente Rossi a profusione, 17 in tutto.

Però i conticini su scala relativa sono più divertenti e inducono ad abbandonarsi a un certo sadismo cullato su giustapposizioni grafiche o squillanti associazioni d’idee. Argento Asia e Argento Dario hanno lo stesso spazio, come pure Baccini Francesco e Baccini Mario. Ballan Alessandro, campione del mondo di ciclismo, non ha una riga in più di Balotelli Mario, interista alle prime armi; in compenso Basso Ivan è lungo la metà di Cunego Damiano. Arbore Renzo è il doppio di Boncompagni Gianni; Baudo Pippo la metà di Bongiorno Mike; Buongiorno Giulia la metà di Forleo Clementina. Alle volte si rasenta la follia: ad esempio scoprendo che Cappelli Gaetano è più breve di Carcasi Giulia (mah). Chiambretti Piero è più lungo di Chiamparino Sergio. Cossiga Francesco è il doppio di Ciampi Carlo Azeglio. Fazio Antonio è leggermente più breve di Fazio Fabio, e Floris Giovanni è la metà di Santoro Michele. Galasso Giuseppe, grande storico, è niente in confronto a Galasso Pasquale, discreto camorrista. Milani Maurizio è il quadruplo di Milani Mino. Gelmini don Pierino supera Gelmini Mariastella, Lippi Marcello surclassa Lippi Claudio, Riina Totò supera nettamente Provenzano Bernardo. Prodi Romano ha poco meno di cinque pagine, Veltroni Walter poco di più.

La voce più estesa è prevedibilmente dedicata a Berlusconi Silvio, che supera le 9 pagine: 4 di “ultime” a fronte di 3 di “vita”. Se ne deduce che ha avuto un anno intenso. Se ne deduce altresì che questi viene considerato il prototipo di super-Italiano, visto il taglio del volume: il quale, con la maniacale elencazione delle caratteristiche peculiari di celebrità difformi a migliaia, intende tratteggiare in maniera rapsodica e quasi dadaista un’istantanea-mosaico che ritragga la Nazione com’è oggi.

Fosse stato un saggio sistematico, avrebbe forse impiegato molte meno pagine per conseguire risultati simili ma ci si sarebbe divertiti decisamente di meno e non si sarebbe verificata la sindrome da ciliegia, per la quale una voce tira l’altra. Rifacendosi in pieno alla grande tradizione settecentesca dei dictionnaires, ovvero a quando gli Illuministi inventarono l’ipertesto, il Catalogo punta visibilmente ad accattivarsi il lettore con pari dispendio di sostanza e lustrini, e invita ciascuno – più che a dominare le pagine consultandole – a perdersi nel tentativo di costruirsi un suo percorso salubre e ozioso come una lunga passeggiata senza meta.

Bisogna saper leggere il Catalogo fra le righe per penetrare nella psiche dei catalogati; ad esempio ove dice, nell’ordine, che Lotito Claudio “ama la parola avulso” e ha un figlio. Si deve sorridere degli scherzi dell’alfabeto, che creano curiosi accostamenti: Frassica Nino, diventato celebre come Frate Antonino da Scasazza, precede immediatamente Frate Elia degli Apostoli di Dio. Alcuni riferimenti incidentali sono di perfidia assoluta – “Caduto Prodi (vedi Mastella Clemente)” – e talvolta capita qualche piccolo sbracamento sul gossip come nella biografia di Siriana Silvio, dove si parla per lo più di transessuali. Quella di Villari Riccardo, aggiornata come tutte al 5 ottobre 2008, risulta ovviamente monca della sua parte più avventurosa e nota. Vengono svelati il mistero per cui D’Alema Massimo non usa l’orologio e la leggenda secondo la quale De Crescenzo Luciano non usa i soldi. Viene fuori che non solo Fede Emilio, ma anche Bossi Umberto e Ferrara Giuliano hanno cambiato la squadra per cui tifano; e che Filippi Alessia, (adorabile) nuotatrice professionista, ha terrore del mare. Baudo Pippo spara alto: “Sono un cattolico come Benedetto Croce”. Per Baggio Roberto nel settore “Vizi” è catalogato il buddismo. A un processo contro Vincino fu chiesto di far testimoniare il Papa.

Personalmente ho trovato il Catalogo estremamente utile a capire finalmente che Casalegno Elinoire e Caldonazzo Nathalie sono due persone diverse, e a esprimere entusiasmo per le righe dedicate a Buzzi Aldo, scrittore lombardo che viaggia ormai verso i 99 anni d’età. Ero convinto che Patruno Lino fosse il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, e invece pare che sia un cabarettista, già membro de I Gufi. Il Catalogo in fin dei conti gioca con le identità di una Nazione in crisi, appunto, di identità. Ci sono quelle incerte: “Ferrante Elena. Scrittrice (scrittore? Domenico Starnone? Goffredo Fofi?)”. Ci sono quelle mitologiche – note, come Ultimo, uno degli sbirri che catturarono Riina, e ignote, come Unabomber: Zornitta Elvo ha una sua voce a sé stante, per fortuna. C’è Zappacosta Pierluigi, l’inventore del mouse. C’è un cavallo, Varenne, che non sfigura frammezzo a 7246 esseri umani: la sua biografia è visibilmente più lunga di quella di Varriale Enrico, tanto per dirne una. Nemmeno il Catalogo è al corrente della misteriosa data di nascita di Langone Camillo.

Ovviamente in un’opera di respiro mastodontico gli errori sono inevitabili e quasi giustificabili. Ad esempio non si capisce bene perché Elio delle Storie Tese sia stato catalogato alla voce Belisari Stefano, Facchinetti Roby alla voce Pooh, Linus alla voce Linus e Luxuria Vladimir alla voce Vladimir Luxuria. Di Trinca Jasmine si dice che è stata lanciata col Caimano, quando invece era La stanza del figlio. Quagliariello Gaetano perde tragicamente la “i” dal cognome. Alle elezioni del 2008 parrebbe che si fossero presentati i Ds, e questo è abbastanza grave.

Gravi o giustificabili quantunque, non darei gran peso agli errori: il Catalogo dei viventi è molto più di un’opera di consultazione. Per quanto curata anche da Massimo Parrini con la collaborazione di una schiera di valentissimi ricercatori e compilatori, l’operazione resterà inevitabilmente legata al nome di Giorgio Dell’Arti. Ne ricalca lo stile micro-plutarcheo che era emerso anni fa con i suoi articoli in pillole per Sette, che persiste tuttora nella sezione “altri mondi” della Gazzetta dello Sport e che regola mirabilmente il Foglio rosa di ogni lunedì. Con la sua capacità di andare al succo del superfluo e di trovare nell’incontrollabile varietà delle vite celebri un aneddoto, una spia, una virgola di minimo comun denominatore, Dell’Arti ha prodotto un Catalogo in grado di far specchiare nel molteplice e nell’irraggiungibile vizi e virtù di tutti gli Italiani – a riprova che anche de te fabula narratur.