venerdì 31 dicembre 2010

Il quinto motivo, ma certo non ultimo in ordine per importanza e anzi preminente rispetto agli altri, per il quale ringrazio Iddio quest’anno è che ho iniziato il 2010 su due gambe e l’ho finito su altrettante. Detta così sembra una banalità ma in mezzo – o meglio all’inizio, esattamente il 6 gennaio, per punirmi del fatto che stessi andando in ufficio durante una festività religiosa che nel Regno Islamico di Gran Bretagna e Pakistan è ovviamente feriale – c’è stata la rottura della caviglia destra dovuta a un sasso sbalzato sul marciapiede accuratamente coperto di una trentina di centimetri di neve, roba da affondarci il polpaccio a ogni passo. In condizioni climatiche normali (tradotto: altrove) sarebbe stata una storta, mentre in condizioni climatiche estreme (tradotto: a Oxford) è stata una frattura; ma per fortuna una frattura semplice, interna, roba che si rimette a posto al prezzo di un gesso, due stampelle, quaranta giorni di pazienza, parecchia depressione e un po’ di fisioterapia. Per fortuna il giorno dopo la definitiva consegna dell’ultima stampella ero già in grado di andare in Texas, per fortuna in aereo e non a piedi. Ora, lo sketch più famoso della tv italiana non è mai stato andato in onda per preventiva censura, in quanto si riferiva al presidente Gronchi (o Einaudi) che, accompagnando De Gaulle (o Francisco Franco) in un palco alla Scala, fece per sedersi ma non trovò la sedia: dalla platea si vide Gronchi (o Einaudi) che misteriosamente spariva mentre De Gaulle (o Franco) lo seguiva con lo sguardo preoccupato, divertito, imbarazzato. Per la trasmissione Un due tre Tognazzi e Vianello avevano architettato quanto segue: Tognazzi (o Vianello) doveva tentare di sedersi e cadere sul pavimento e allora Vianello (o Tognazzi) di rimando doveva chiedergli: “Ma chi ti credi di essere?”; al che l’altro doveva replicare: “Tutti possono cadere”. Ecco, il grande insegnamento del 2010 spezzaossa è che indubbiamente tutti possono cadere ma altrettanto indubitabilmente non tutti riescono a rialzarsi, quindi accontentiamoci e speriamo in meglio.

giovedì 30 dicembre 2010

Il quarto motivo per cui ringrazio Iddio nonché il più significativo avvenimento del mio 2010 è stata la scoperta dell’Italia, impossibile a verificarsi se non fossi stato tutto l’anno all’estero e anzi correlativo oggettivo di questa fortuita circostanza. Senza vivere in Inghilterra non avrei apprezzato l’avventurosità intrinseca del pigliare un treno da solo e andare in un posto ignoto o meno. Sono riapparso come di consueto a Pavia e ho presentato conferenze a Modena (anzi a Sassuolo); ho attaccato bottone con le viaggiatrici sui treni, ho offerto aperitivi a colleghe rimaste entro i confini patri, ho fatto ingresso nelle librerie più diverse, ho provato quotidiana sorpresa nello scoprire che attorno a me la gente parlava una lingua che capivo anche senza dover mettermi ad ascoltare. Ho scoperto la Venaria Reale, dove ho bevuto barolo leggendo Tondelli su una delle tre piazzette che ne delimitano l’unica via significativa, e dove mi sono intrattenuto con il portinaio siculo di un albergo che non aveva internet nemmeno alla reception ma che si pasceva di corposi trattati di storia revisionistica. Sono tornato a Roma dopo anni (l’ultima volta ci ero passato solo mezza giornata), dove solevo trascorrere periodicamente una settimana e dove ho trovato tutto come l’avevo lasciato, me compreso. Ho addirittura sostato un paio d’ore a Falconara Marittima, avendovi un poco agevole cambio di treno, e poiché la stazione era troppo piccola per restarci come un baccalà sono andato a esplorare il paesello valigia e tutto, prendendo caffè e cornetto di fianco a un tale operato alle corde vocali che ciò nondimeno le sforzava per dichiarare che quando la Juventus era stata retrocessa in serie B lui non aveva né mangiato né dormito per un mese intero. Poi, occasionalmente, ogni tanto facevo un salto a Oxford.

mercoledì 29 dicembre 2010

Il terzo motivo per cui ringrazio Iddio è che nel 2010 ho finalmente potuto ricordarmi di sapere l’italiano, cosa sulla quale iniziavo a nutrire dei dubbi dopo mesi e mesi di lavoro per commentare in inglese testi di letteratura francese. A maggio e a novembre ho tenuto, rispettivamente alla Venaria Reale e a Pavia, una conferenza e tre seminari sull’argomento che abitualmente costituisce il mio lavoro a Oxford, e che di solito viene trattato con fatica immane a causa del passaggio da una lingua all’altra anche perché, guardiamoci in faccia, se pure è dubbio che io abbia qualche talento con la lingua patria ciò nondimeno posso assicurarvi che il medesimo concetto da me espresso in inglese, che magari conosco anche benone, o in francese, lingua nella quale i miei sforzi si fanno più creativi, finisce inevitabilmente per avere un quarto o un quinto della potenza retorica che riuscirei a infilarci in italiano, perdendo sull’istante persuasività e fors’anche senso. Quando invece ho avuto modo di esprimere gli stessi concetti sullo stesso argomento di fronte a una platea di professori italiani come alla Venaria o a una classe di studenti italiani come a Pavia, è emerso che una minima potenza retorica la conservo ancora, che pertanto non parlo sempre costantemente al muro e che la permanenza a Oxford è stata molto utile nel consentirmi di saccheggiare il settore di italianistica della Taylor Institution, biblioteca di lingue e letterature straniere, così da avere ogni sera degli interlocutori all’altezza.

martedì 28 dicembre 2010

Secondo motivo per ringraziare Iddio quest’anno è il Texas, che indubbiamente stava lì da tempo ma che non avevo visitato prima del 2010. A dire il vero non avevo nessuna intenzione di andare negli Stati Uniti in vita mia ma, essendoci stato spinto in circostanze di lavoro, sono stato contento di poter iniziare da lì e non, ad esempio, da New York che è una città di interruttori scassati e luci che non si spengono mai. Il Texas, invece, è terra di bistecche, bikini e biblioteche. Ho passato qualche giorno a documentarmi nell’Harry Ransom Center, una silenziosa e funzionale sala di lettura che possiede centinaia di edizioni settecentesche di Voltaire, nonché vari altri tesori dell’umanità quali i fogli di lavoro di David Foster Wallace, la solita Bibbia di Gutenberg e le ben più rare lettere autografe di Jane Fonda. Quando finivo andavo a mangiare da Applebee (se riuscivo ad attraversare la strada, poiché in Texas i pedoni non sono previsti) dove per dieci dollari mi davano una fetta di carne nella quale avrei agevolmente potuto avvolgermi, oltre a anelli di cipolle fritte, patatine e infiniti altri cibi che fanno malissimo ma comunque preparano ad affrontare serenamente l’idea che prima o poi moriremo tutti, perfino i vegetariani. Poi faceva caldo: essendo marzo ero partito dall’Inghilterra con la giacca a vento col bordo di pelliccia, invece ad Austin c’erano passanti in shorts e signorine in due pezzi che ballavano l’hula-hoop sul marciapiede. Mi aspettavo di trovare un popolo trovo, pronto a fucilarti al primo starnuto, e invece ho trovato gente serena, sorridente, che quando incontra il tuo sguardo sorride e se ti vede passare da solo ti saluta per prima anche se non ti conosce. Sarà, credo, uno degli effetti collaterali della pena di morte, che suggerisce l’idea che non valga la pena di fare i nervosi. Di domenica mattina, insieme a infinite famigliole dei dintorni, ho visitato il palazzo del parlamento, che è stato costruito avantieri (seconda metà del XIX secolo) ma che custodiscono come una reliquia. Al centro del palazzo, sul pavimento, campeggia la stella solitaria che è il simbolo dello Stato; tutt’attorno, per tre o quattro piani, sono collocati i ritratti dei governatori in senso cronologico inverso a quello al quale si sono succeduti. Così una domenica mattina, nel luogo e nel punto in cui meno me lo sarei aspettato, mi sono trovato davanti un ritratto a olio di George W. Bush e ho scoperto di non essere più solo nel mio apprezzamento.

lunedì 27 dicembre 2010

Poiché dite se no che mi lamento solamente, passo questi ultimi giorni a elencare le cose positive per cui varrà la pena di ricordare il 2010. Anzitutto ringrazio Iddio per Alitalia. È stato il primo anno che ho trascorso interamente all’estero, da gennaio a dicembre, e vi pare cosa da niente un aereo che periodicamente vi piglia, si mette a correre a trecento all’ora, vi solleva dalle incombenze inglesi e vi porta a casa in giornata? Oltre a vantare le hostess più meravigliose della faccia della terra, Alitalia ha mostrato notevole carattere nella gestione della chiusura di Heathrow per neve ancora pochi giorni fa. Mentre la British Airways aveva sospeso i propri voli prima ancora che cadesse il primo fiocco, il mio aereo per Linate si spingeva disinvoltamente verso la pista con dieci centimetri di bianco al suolo, nonostante che l’aeroporto stesse per essere chiuso. Mentre l’aeroporto si adeguava alla chiusura implicitamente decisa dall’ammutinamento della compagnia di bandiera, il comandante del mio volo Alitalia restava barricato nell’aereo con i bagagli di tutti i passeggeri per impedire fisicamente che il volo venisse cancellato. Quando tutti i voli sono stati inevitabilmente cancellati, mentre la British Airways ha messo su un disco con una musichetta soporifera che è andata avanti per giorni allo scopo di far addormentare i clienti e impedirne le riprenotazioni, gli operatori Alitalia rispondevano dopo due minuti, cercavano di addolcire il dispiacere per le vacanze rovinate e si profondevano in scuse manco se la neve l’avessero inventata loro. A volo cancellato, il 18 dicembre, ho assistito all’aggressione di una hostess di terra dell’Alitalia da parte di due anglofoni furiosi, che prima l’hanno accusata di essere responsabile per il presunto comportamento scorretto di una fantomatica collega che non era mai stata lì, poi hanno iniziato a urlarle in faccia di essere maleducata, infine hanno iniziato a strattonarla per ricordarle la carta dei diritti del passeggero. Adesso io sono arrivato in Italia, benché con qualche giorno di ritardo, e di loro non ho più notizia ma spero che abbiano riprenotato il volo con le British Airways, così imparano.

mercoledì 22 dicembre 2010

Gli studenti che con la consueta lucidità hanno inchiodato Ignazio La Russa alle proprie responsabilità riguardo alla riforma universitaria, responsabilità innegabili trattandosi del ministro della difesa, e che per spiegarsi in maniera più eloquente hanno scaricato una caterva di letame davanti alla sua villa di Catania, ma hanno sbagliato casa come l’arcangelo Gabriele (e il cherubino che crea l’atmosfera) di Troisi Arena e Decaro, mi hanno ricordato un aneddoto risalente a una decina di anni fa, quand’ero del 33% più giovane di adesso. Voi sapete che a Pavia c’è un solo Collegio, no? Allora, all’alba del web 2.0 gli studenti di detto Collegio avevano magnanimamente deciso di accorrere in aiuto degli allievi di un noto seminario locale, l’allegro convitto borromeo, fabbricando per loro il sito www.borromeo.it, comprensivo di tutte le informazioni più utili, ivi inclusi i temi per l’ammissione al convitto negli anni precedenti (fra i quali “La mutina: una consonante piena di insidie”). Gli allievi dell’allegro convitto, per un imprevisto malinteso, non avevano gradito il favore offerto dagli alunni di detto Collegio (i quali nel frattempo avevano non solo fatto stampare migliaia di locandine, affisse in tutta Pavia, con l’indirizzo del nuovo sito, ma anche delle magliette con la scritta “una figura di merda è per sempre”) e avevano reagito scaricando, con mossa in netto anticipo sui tempi, una caterva di letame sulle scalinate di detto Collegio. Interrogato dalla stampa locale riguardo al gesto degli allegri convittori borromaici, il Rettore del Collegio aveva commentato parafrasando d’Annunzio: “Io sono quel che ho donato”; frase che oggi torna prepotentemente d’attualità.

martedì 21 dicembre 2010

Dunque, sabato mattina mi sono alzato alle 4, ho preso il taxi (cinque sterline), mi son fatto portare alla stazione delle corriere, ho preso l’autobus per Heathrow (venticinque sterline), sono arrivato in aeroporto, ho fatto il check in, sono salito sull’aereo, ha iniziato a nevicare, siamo entrati in pista, hanno chiuso l’aeroporto due minuti prima che partissimo. Allora ci hanno riportati in aeroporto,ho mangiato qualcosa (cinque sterline), poi dopo varie peripezie hanno cancellato il volo e ci hanno restituito i bagagli. Allora con un colpo di genio ho preso il treno suburbano per Londra, stazione di Paddington (ventuno sterline), sono riuscito a trascinarmi fino a un albergo cinese lì vicino, ho pagato una notte (quarantacinque sterline), ho mangiato qualcosa (sedici sterline), ho controllato da un internet point la situazione degli aeroporti (una sterlina) e sono andato a dormire. Il giorno dopo sono andato in stazione, ho scoperto che non c’erano treni per Heathrow a causa di un incidente, ho scoperto che non c’erano treni per Oxford a causa della neve, allora ho anzitutto fatto colazione (tre sterline), sono tornato in albergo, ho ripreso la valigia, mi sono trascinato sulla neve fino a Marble Arch e ho fortunosamente preso uno dei pochi pullman funzionanti per tornare a Oxford (sedici sterline). Poi ho aspettato un oretta per prendere un taxi (cinque sterline) che mi ha portato non a casa, per impraticabilità di strada, ma nella via più vicina possibile. Ho mollato la valigia e sono andato subito, prima che calasse il buio e si gelasse la neve e chiudessero i negozi, a fare la spesa per una settimana (trentasette sterline), per ripararmi da ogni evenienza. Poi ho prenotato un altro volo per dopo Natale, quando riprenderò un taxi (altre cinque sterline), mi farò portare alla stazione delle corriere, prenderò l’autobus per Heathrow (ventisei sterline perché, che ci crediate o no, nel frattempo il prezzo è aumentato), arriverò in aeroporto e spero di non essere costretto a prendere di nuovo il treno per Paddington (altre ventuno sterline?) né l’autobus per Oxford (altre sedici sterline?). Cinque più venticinque più cinque più ventuno più quarantacinque più sedici più uno più tre più sedici più cinque più trentasette più cinque più ventisei più ventuno più sedici fa duecentoquarantasei sterline, o forse duecentotrentasei, o forse duecentoquarantanove. Il prossimo che mi dice che lavorando in Inghilterra si guadagna bene lo prendo a ceffoni.

lunedì 20 dicembre 2010

Ecologici amministratori del comune di Oxford, chiuso in casa con un notevole accumulo di neve davanti alla porta, sotto la finestra (abito al piano terra), nel parchetto della mia piazzetta e lungo tutta la strada che porta al centro città, ho tempo e agio sufficienti a domandarmi se siate dei coglioni o dei ladri. Immaginando una vostra scarsa dimestichezza con l’Italiano, strettamente correlata alla vostra scarsa dimestichezza con qualsiasi cosa, vi spiego il significato dei due termini. I coglioni sono quelli che non sanno trovare una soluzione pur avendo gli strumenti per farlo. Ad esempio: nella mia piazzetta ci sono più di trenta di appartamenti, ciascuno di tre camere, per un ammontare complessivo di cento persone. Considerato che io, che sono uno di loro, vi pago centosessanta sterline al mese di tassa comunale, avreste potuto utilizzare questa somma, moltiplicata di appartamento in appartamento, non dico per mandare degli spalatori (operazione dalla quale forse vi trattenete per timore di incidere sul surriscaldamento globale) ma per convertirla in monetine da un penny utilizzando le quali lastricare agevolmente tutta la strada innevata che va da qui al centro città. Nella migliore delle ipotesi, vi siete dimenticati di farlo mentre io al primo di ogni mese non dimentico mai di mandarvi la rata di centosessanta sterline. I ladri invece sono quelli che prendono soldi senza dare nulla in cambio.

venerdì 17 dicembre 2010

L’altra notte ho sognato una vacca o meglio, per fugare ogni dubbio di zozzeria, ho sognato una mucca, pezzata, ruminante, scornuta. Ero in mezzo a un prato deserto con libri, quaderni di appunti, fogli stampati e uno dei miei portatili (presumo alimentato a batteria) quando d’un tratto sento un tremolio del suolo, come di terremoto, e quando è troppo tardi per raccogliere tutto mi rendo conto che sta sopraggiungendo a grandi balzi appunto la mucca, che mi punta direttamente e solo per una mia repentina mossa alla torero-torero-olè riesco a scansarla facendomi oltrepassare e mandandola al contempo dal lato opposto a quello del mucchio di lavoro che mi ero portato appresso, come fece Pelè col pallone di fronte a Ladislao Mazurkiewicz in Brasile-Uruguay di Mexico ’70. Però la mucca si ferma, si volta, mi fronteggia. Resto immobile di fronte a lei guardando ora il suo muso, che si direbbe pacifico e in netto contrasto con la furia e con lo scempio che ha deciso di fare di me, ora tutta l’opera del mio ingegno rimasta indifesa al centro del prato, più vicino a lei che a me. La mucca sta per caricare. Se non mi muovo mi prende in pieno; se mi muovo c’è il rischio che travolga il mio lavoro; mi sveglio sudatissimo. Tutto qui. Ah, e nello stemma comunale di Oxford campeggia un bovino.

giovedì 16 dicembre 2010

Paolo Guzzanti plausibilmente non avrà avuto né tempo né modo di notare che oggi, in un mio articolo di satira su Tempi, lo dileggio con ironia magari poco riuscita riguardo alla contraddizione fra il suo Mignottocrazia e la sua appartenenza al Partito Liberale, ricordando che all'epoca lo stesso Cavour non risparmiò sull'utilizzo del fascino femminile a scopi politici. Ovviamente mentre il giornale andava in stampa, e tanto meno mentre scrivevo l'articolo, non potevo immaginare che Guzzanti avrebbe intanto deciso di lasciare il PLI, di cui era unico deputato, a seguito dei dissapori con la segreteria nazionale: cosa della quale peraltro mi spiaccio, poiché il PLI è un partito glorioso, che non voterò mai per ragioni ideologiche ma nel quale vedrei un prezioso alleato di governo come è stato ai tempi della DC, se non fosse che meriterebbe di essere più esteso e meglio organizzato di come sia adesso; e poiché inoltre Guzzanti ne sarebbe stato un adeguato esponente qualora quest'ingrandimento e questa riorganizzazione fossero davvero stati posti in atto. Detto questo, pur non condividendo l'idea e i toni di Mignottocrazia, vorrei avanzare in difesa di Guzzanti (qualora ce ne fosse bisogno) due considerazioni sulla sua scelta di votare la sfiducia a Berlusconi e in particolare sulle reazioni belluine che ha scatenato. La prima è che se ci si proclama di destra bisogna tenere sempre presente la situazione individuale, ossia nel caso specifico di Guzzanti la nota querelle berlusconiana coi figli meravigliosi che ha (ho avuto modo di incontrare Sabina a Modena, mettendola in contatto con Zygmunt Bauman durante un FestivalFilosofia di un paio d'anni fa, e m'è parsa un'ottima persona), che andrebbe considerata con meno superficialità e molto più rispetto, non dimenticando che a ogni dito di onorevole che prema un pulsante è attaccato un uomo e un padre di famiglia. La seconda, intuitivo corollario, è che a vomitare improperi su un parlamentare mentre va a votare - per quanto in senso contrario all'auspicato - si fa una figura da governo Prodi.

mercoledì 15 dicembre 2010

Bisogna dare atto a Gianfranco Fini che tutto gli stava andando per il meglio. Il ruolo di alto profilo istituzionale. La progressiva smarcatura dal governo. La presa di distanza dal premier. L’incontrollata ira di Berlusconi. Il ditino puntato dalla platea. Briguglio, Bocchino, Granata. I probiviri. La ridicola espulsione dal Pdl. La campagna stampa orchestrata dai giornali di famiglia. Mirabello. I video su youtube. I fan su facebook. La creazione di un nuovo partito. Il nome affascinante. Il logo multicolore. Bastia Umbria. Una marea di sostenitori entusiasti. Luca Barbareschi. Il manifesto per l’Italia. Berlusconi travolto dagli scandali. Ruby Rubacuori. Il bunga bunga. Wikileaks. Putin e Gheddafi. Il terzo polo. Il calo di consensi del premier. La mozione di sfiducia dell’Udc. Bisogna dare atto a Gianfranco Fini che gli sarebbe bastato muovere un dito, una falange, per poter disfarsi di Berlusconi. Poi il PD ha indetto una grande mobilitazione di piazza.

martedì 14 dicembre 2010

Si è già scritto di tutto, non è ancora successo niente e la notte non mi ha portato consiglio. Non ho capito perché Berlusconi non si sia dimesso, non ieri sera ma un paio di mesi fa, quando si è iniziato a sentire puzza di bruciato tutt’attorno. Secondo me confonde la costituzione materiale (ciò che lui preferisce definire il mandato popolare dei cittadini che hanno votato un simbolo con il suo nome dentro) con le sue speranze di riforma, e si comporta come se fossero già attive. Magari oggi prende la fiducia, ma ciò non toglie che abbia fatto due errori. Uno politico, cacciando Fini e creandosi da solo un rivale che poteva tenere a bada dandogli il contentino di una corrente di mattoidi interna al proprio partito. Uno istituzionale, dimenticando che non sono cambiate né la costituzione, purtroppo, né tampoco i regolamenti parlamentari, e che quindi ad agitare troppo il mandato popolare si rischia di fare la figura dell’ultimo giapponese, combattendo da solo in un sistema politico che è bene o male rimasto uguale a trenta o cinquant’anni fa. Io non so se Berlusconi sia moderato; certamente è stato per quindici anni l’unica speranza per far governare i moderati in Italia, ma se fosse stato democristiano si sarebbe dimesso dopo avere ottenuto la fiducia a fine settembre, come la buonanima di Giovanni Goria “per dare vita a un governo più forte”. A quel punto avrebbe dovuto comunicare a Napolitano l’avvenuta scissione fra appoggio all’azione di un governo di centrodestra (certificato dall’ampia fiducia) e sostegno della sua persona (venuto chiaramente meno a seguito dell’ottovolante di Fini); e avrebbe dovuto lasciare il Quirinale indicando un nome di un esponente moderato del proprio partito da insediare a Palazzo Chigi, riservando per sé il ruolo di ministro pesante (agli Esteri, per esempio, che gli sono sempre piaciuti tanto). Con una mossa del genere avrebbe messo Fini di fronte alla propria responsabilità politica, scompaginato l’opposizione, plausibilmente aperto all’Udc; di più, avrebbe avuto l’agio di tramare nell’ombra, fare la figura dell’animale ferito ma restare nondimeno al governo, lasciare il cerino in mano al compagno di partito: il quale, se si fosse bruciato, avrebbe dovuto portare il Paese a elezioni anticipate per colpa sua; se se la fosse invece cavata, avrebbe finito la legislatura e preparato la via del 2013 a un Berlusconi carico di potere e scevro di particolari responsabilità. Che si voti domani o fra due anni e mezzo, sarà sempre il prossimo parlamento a eleggere il nuovo presidente della repubblica. Come quando pretendeva che il Milan di Capello vincesse campionati e coppe vincendo tutte le partite (o almeno non perdendone nessuna), Berlusconi sta commettendo l’errore di credere che in Italia si possa conservare il potere solo esercitandolo continuativamente. La storia gli insegna che non è così, e che nessuno è entrato al Quirinale da presidente del consiglio uscente (da presidente della camera invece sì, ci sarebbe da preoccuparsi).

lunedì 13 dicembre 2010

Il primo ministro, aperte virgolette, “si conosce, e conosce la gente che lo circonda: la stima poco, forse punto, ed ha il torto di darlo a vedere. Non tollera eguali, non essendo abituato a incontrarne molti. Chiunque pratica con lui, deve sottostargli, e rassegnarsi a vedersi rimestato, impastato dalla potente sua mano. Si comporta nella Camera assolutamente come se la sinistra non esistesse, come se egli fosse nel suo salotto, e in casa sua, tra’ suoi familiari, specialmente se è annoiato. Egli parla, ride, volta indifferentemente le spalle ai colleghi, si accoccola, sbadiglia, tormenta col tagliacarte il velluto della tavola… se fosse in America, appoggerebbe i piedi sul banco! Egli non vede là se non la Maggioranza, la sua Maggioranza, che è quanto dire gli amici a tutta prova, i seguaci, i confidenti… Il diplomatico è gigante; l’amministratore mediocre; l’uomo un’antitesi. Con lui non si resta mai in una posizione equivoca: o ubbidire o rivoltarsi”. Chiuse virgolette. Abbiamo trasmesso un passo scritto da Ferdinando Petruccelli della Gattina (I moribondi del palazzo Carignano, 1862) dedicato alla figura di Camillo Benso conte di Arcore.

venerdì 10 dicembre 2010

Moralisti dal ditino perpetuamente puntato verso l’uccello di Berlusconi (o di Fini, o di Marrazzo, o di Sircana, o di Mele: fa lo stesso e non m’interessa), time out! Fermatevi un attimo, rinfoderate l’indice e chiedetevi se preferite vivere in Italia o in Inghilterra. In Italia ci sono le Noemi, le Ruby, il bunga bunga, i trans in casa, i trans per strada, i party con la cocaina, De Michelis, Pomicino, tutto quello che volete. In Inghilterra non c’è niente di tutto questo: com’è noto, i politici britannici non ce l’hanno e, se poco poco si scopre che uno ha una storia con la segretaria o una giornalista (vedi l’ottimo ex ministro David Blunkett), non resta al suo posto per un istante di più. Per evitare di vedere l’ovvio in Inghilterra si applica una sorta di rimozione di massa, venuta prepotentemente a galla lo scorso 6 dicembre. Di primissima mattina il conduttore dell’approfondimento politico su una radio della BBC ha dichiarato che era un onore avere ospite il ministro della cultura Jeremy Hunt; solo che è inciampato su una consonante e l’ha chiamato Jeremy Cunt, traducibile in Geremia Fica. Imbarazzo. Poche ore dopo l’anchorman televisivo Andrew Marr, peculiare incrocio fra Bruno Vespa e Max von Sydow, ha riferito l’incidente occorso al suo collega ma, vuoi o non vuoi, nel tentativo di trovare una perifrasi per evitare l’impronunciabile è finito per inciampare sulla stessa consonante e ha fatto riferimento al ministro nuovamente come Jeremy Cunt. Ulteriore imbarazzo. Nel pomeriggio, alla Camera dei comuni, una parlamentare laburista ha rimproverato i tagli a un esponente conservatore, contestandogli una lista dettagliata di provvedimenti governativi. Ora, “tagli” in inglese si dice “cuts”. Giuraddio, il suo interlocutore le ha risposto irritatissimo: “Non accetto che questi siano dei tagli”, solo che anche lui è inciampato su un’altra consonante e ha dichiarato stentoreo: “I don’t accept that those are cunts”, “non accetto l’idea che si tratti di fiche”. Poi per fortuna la giornata è volta al termine e, più che archiviata, è stata censurata. Io ho l’impressione che in Italia ci si diverta di più e che nessuno rischi un lapsus.

giovedì 9 dicembre 2010

Non voglio compiere trent’anni, anzitutto perché gli italiani che compiono trent’anni diventano improvvisamente giovani: se si sposano sono dei giovani mariti, se fanno un figlio sono dei giovani padri, se scrivono un libro sono dei giovani autori e se muoiono erano giovani, che peccato. Cos’ho imparato dalla mia vita? Che sono nato in un posto dove oggi ci sono venti gradi e trent’anni dopo mi ritrovo in un posto dove per non restare congelato in mezzo alla strada devo indossare la calzamaglia come se ne avessi ottanta: che bel guadagno. D’altronde mi è stato detto di non preoccuparmi perché dimostravo trent’anni già da tempo; sarà stato perché nei due decenni scorsi, mentre i coetanei si divertivano, io mi esercitavo a diventare il più grande autore della mia generazione e oggi non posso permettermi un piano b in quanto, se pure rinunciassi all’inverosimile intento, ormai non potrei più divertirmi per raggiunti limiti strutturali (artrosi). L’anno scorso ho festeggiato da solo a San Pietroburgo, due anni fa ero andato apposta a Modena in giornata, vivendo più a portata di mano. Gli ebrei usano dire: “L’anno prossimo a Gerusalemme” e ognuno ha la Gerusalemme sua, chissà mai se ci arriverò; diciamo che sto facendo il giro largo. Non voglio compiere trent’anni ma d’altronde l’unica alternativa percorribile non sembra allettante.

mercoledì 8 dicembre 2010

Critici letterari convinti che non serva leggere un libro per recensirlo, devo sconfessarvi a malincuore: in realtà per recensire un libro non serve nemmeno saper leggere. L’altro giorno, alla Nuova Libreria il Delfino di Pavia, la figlia del libraio (quattordici mesi d’età) dopo essere stata estratta dal passeggino ha camminato sicura verso una pila di libri, ha accarezzato il faccione di Tony Blair sulla copertina della sua autobiografia, quindi improvvisamente s’è scurita in volto, ha iniziato a strillare e afferrato un altro libro lo ha scagliato a terra come il più incazzato dei Mosè con le tavole della legge di fronte al vitello d’oro. Giusto per curiosità, siamo andati a controllare di cosa si trattasse. Era per caso l’Alfabeto pirandelliano di Sciascia? Era mica la trilogia di Zuckerman di Philip Roth? Era l’ultimo libro del Papa? Macché: era L’Italia de noantri: come siamo diventati tutti meridionali, di Aldo Cazzullo.

martedì 7 dicembre 2010

Analisti politici che non vi capacitate delle percentuali della Lega su scala nazionale, eccovi un’esercitazione pratica in tre mosse per capire perché l’Italia diventerà leghista prima ancora che vi risvegliate dai vostri sondaggi. Prima mossa: andate all’estero per qualche mese, foss’anche nell’Inghilterra ormai interamente ostaggio degli immigrati. Seconda mossa: quando vi siete abituati a stare fuori dai confini patri, prendete un aereo per Linate e di lì la navetta per Pavia. Terza mossa: di fronte alla stazione di Pavia aspettate l’autobus per il centro. Noterete un rumeno e un marocchino che litigano, in italiano relativamente forbito. Il marocchino rimprovererà al rumeno i suoi scarsi successi col gentil sesso rifacendosi alla tradizionale dotazione corporale maghrebina. Il rumeno risponderà: “Guarda che io chiamo i carabinieri e ti uccido di botte davanti a loro, tanto danno ragione a me perché io sono cittadino europeo e tu sei meno di zero”. Il tutto senza bisogno di tredicenni ammazzate né di ciclisti investiti.

lunedì 6 dicembre 2010

Progressisti adepti di Saviano, forse addirittura più savianisti dell'originale, mi siete venuti in mente durante i lunghissimi controlli di sicurezza all'aeroporto di Heathrow: e metti l'orologio nel borsello, e sfilati il borsello, e levati le scarpe, e togliti non solo il giubbotto ma anche la giacca e la sciarpa, e non passare attraverso il metal detector se hai dimenticato addosso la cinghia, e ripassa attraverso il metal detector in un senso e nell'altro, e spalanca le braccia per farti perquisire, e scansa gli sguardi ostili nel minuto di tempo che hai per rimontarti da capo facendo attenzione a non mettere il borsello al posto delle scarpe e la cinghia al posto della sciarpa... Mi siete venuti in mente quando mi sono chiesto come mai una buona percentuale degli addetti ai controlli antiterrorismo fosse composta da mussulmani. Insomma, vorrei sapere come reagireste voi se attorno all'Italia venisse finalmente elevata una cortina anticamorra e chiunque cercasse di oltrepassarla venisse sottoposto a rigorosi controlli di sicurezza effettuati da personale in buona parte proveniente da Casal di Principe.

venerdì 26 novembre 2010

Finalmente posso vantarmi di essere d’accordo con Rosi Bindi. Il parlamentare piddino Roberto Giachetti, apprendendo che la ministra Gelmini aveva per errore votato un emendamento contro il proprio stesso decreto, aveva esclamato trionfante che si trattava di un segnale politico positivo “per tutta l’Italia che protesta”; al che la Bindi, che presiedeva temporaneamente l’assemblea al posto del capo dell’opposizione Gianfranco Fini, ha invitato Giachetti a non trarre conseguenze politiche da un errore facile a verificarsi date la distrazione e la confusione che imperversano in questi giorni a dir poco convulsi. Già che c’era, poteva aggiungere che una ministra che si vota contro sarà anche un notevole lapsus freudiano, ma che sicuramente è più facile fare una cazzata premendo un pulsante che salendo su un tetto.

giovedì 25 novembre 2010

Così, a occhio, ci sarebbe da interrogarsi sulla parentela degli studenti che ieri hanno protestato a Roma. Sono figli dei commessi del Senato ai quali hanno fatto venire un infarto e mezzo? Sono fratelli dei poliziotti che hanno costretto allo scontro fisico per poi accusarli di averli caricati? Sono nipoti dei professori e degli accademici che ricaverebbero un danno dalla riforma? Nessuno può saperlo. Fatto sta che a mio avviso chi cerca di entrare al Senato senza cravatta evidentemente merita di tenersi l’università che ha.

mercoledì 24 novembre 2010

Da qualche parte devo avere un gemello segreto che, mentre mi trasferivo a Pavia, quatto quatto è andato a iscriversi all’università a Bari e l’ha conclusa con estrema calma, un esame ogni tanto vivendo dai genitori e frequentando lo stretto necessario a cambiare aria da Gravina quando ne aveva voglia. Se le date di iscrizione coincidono nell’autunno 1998, la sua laurea cade nel 2007, il giorno in cui ho discusso la tesi di dottorato dopo avere vissuto anche un anno a Napoli e tre a Modena. Mentre cercavo lavoro lui ha continuato la stessa vita di prima: sveglia dopo le 8, pasti preparati dai genitori, tanta televisione pomeridiana, uscite in comitiva ogni due o tre sere e ogni tanto una bella vacanza a Praga o Barcellona pagata con non si sa quali soldi. Si è anche fidanzato, con la figlia del lattaio o del postino o di chi vi pare, e a tempo perso s’è iscritto alla SSIS per darsi all’insegnamento, unica carriera possibile che concepisce con la laurea in filosofia (presa soprattutto per svogliatezza, all’atto dell’iscrizione era quella con meno esami). Costretto a recarsi a Bari più spesso, nei due anni di corso post-laurea ha maturato per reazione uguale e contraria un maggiore attaccamento a Gravina, tanto che gli dà fastidio perfino quando la comitiva gli propone, for a change, di andare a prendere una pizza ad Altamura. Ora è abbastanza ben messo in graduatoria, insegna alle medie, si sposa fra qualche mese e va a vivere al piano di sopra, nello stesso stabile in cui vive ancora coi genitori. Forse riesce anche a farsi regalare l’abbonamento a Sky. Ogni tanto mi guarda dallo specchio e mi dice: “Starai pure a Oxford, tu, ma io ti ho fottuto”.

martedì 23 novembre 2010

Tutti i teologi protestanti che negano la rivelazione progressiva dovrebbero studiare il caso della stampa italiana (e inglese, e francese, e americana – insomma, della stampa in generale). C’è voluta la seconda intervista-fiume di Ratzinger a Peter Seewald, la prima concessagli da Papa, perché i giornalisti si accorgessero che nel Catechismo da decenni, se non forse da secoli, vige il principio della scelta del male minore. Allora tutti a dire: “Apertura del Papa, apertura del Papa!”. Prossimamente i giornalisti noteranno che per confessarsi bisogna prima pentirsi; che il genocidio è ritenuto più grave della palpata a un culo; che si digiuna solo il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo; che Natale cade sempre lo stesso giorno mentre Pasqua no. Allora scriveranno che questo Papa è innovativo ma cambia idea un po’ troppo spesso.

lunedì 22 novembre 2010

Signora Mara Carfagna, coi soldi delle mie tasse hai finanziato la capillare campagna “eterosessuale/omosessuale/non importa” che, oltre a essere indifferentista e come tale mendace, era completamente inutile in quanto il luogo comune che veicola già gronda da ogni talk show, da ogni fiction, da ogni espressione benpensante della cultura più mediocre; e inoltre era anche dannosa perché io avrei voluto vedere i miei stessi soldi utilizzati in favore delle pari opportunità dei disabili o dei figli innocenti dei carcerati, tanto per citare due questioni che mi sembrano più pressanti del libero utilizzo dei propri buchi. Poi, non contenta, ti sei erta a barriera fra ciascun uomo e le innumerevoli signorine che lo circondano inventando lo stalking, un reato americano che consente anzi raccomanda l’egocentrismo più impunito e la troiaggine isterica, aggiungendo un nuovo tassello alla già avanzata campagna di sterilizzazione dell’Italia (diceva un giudice inglese che senza molestie sessuali non ci sarebbero bambini). Nella storia della repubblica non sarai catalogata alla voce “grave perdita”.

venerdì 19 novembre 2010

Guardate gli uccelli del cielo, guardate i gigli dei campi ma soprattutto guardate quelli che a vent’anni e senza lavoro, figli può darsi di casalinga e cassintegrato, scodellano un figlio (magari il secondo) senza pensare ai soldi, senza pensare alla carriera, senza trasformarsi in Woody Allen ogni volta che il marito o la moglie spreme il tubetto del dentifricio dal centro invece che dal fondo, senza preoccuparsi di non sapere dove saranno l’anno successivo, senza tanto meno angustiarsi se non vivono come minimo a Oxford o in altri posti cultural-trendy (“altrimenti cosa dirà la gente sapendo che vivo a Campobasso”) – e che pure sono felici. Io sono a favore della ripopolazione dell’Italia da parte degli italiani ma se i figli devono somigliare ai genitori forse è meglio se loro ne fanno tanti e io no.

giovedì 18 novembre 2010

Il pur bravo Pierluigi Bersani sostiene che gli italiani non vogliano le elezioni: vogliono soltanto le primarie. Certo che deve stare attento, visti i precedenti: un anno e mezzo fa Veltroni fece finta di dimettersi per la batosta rimediata dal PD alle regionali sarde ma in realtà era rimasto tramortito dalla vittoria di Matteo Renzi nelle primarie fiorentine, a discapito del candidato dell’establishment del partito che oggi nemmeno si ricorda più chi sia. Fra un anno e mezzo magari si potrà dire che Bersani è stato fatto fuori dalle conseguenze della vittoria di Pisapia alle primarie milanesi, a discapito dell’architetto dell’establishment; personalmente non glielo auguro. Per questo motivo, onde evitare che anche a livello nazionale si verifichi la pericolosa tendenza al cupio dissolvi del PD, stanotte pensa che ti ripensa ho escogitato un nome sicuro sul quale puntare per frenare l’erosione di consensi a vantaggio di Nichi Vendola. Si potrebbe provare a candidare Francesco Boccia.

mercoledì 17 novembre 2010

Be’, le avete lette le tre pagine del Guardian di ieri su Berlusconi? Probabilmente no, e se le avete lette non le avete capite perché vi siete fatti distrarre dal ritratto di Berlusconi come novello Barry Lyndon (cosa che, se gli italiani sapessero l’inglese, gli guadagnerebbe un sacco di voti) e avete trascurato le principali verità che emergono dall’articolo dell’allegro Tobias Jones:
- l’affermazione iniziale secondo la quale l’Italia è “una delle più acculturate e importanti nazioni d’Europa” è probabilmente un errore di stampa;
- “Ruby Rubacuore [sic] ha descritto dei giochi di sesso orgiastico chiamati Bunga Bunga, termine che resterà per sempre nei dizionari italiani”;
- “Gli abitanti dell’Aquila vivono ancora in mezzo alle rovine delle proprie case”, a differenza degli abitanti dell’Irpinia che sono da decenni alloggiati in suite extralusso;
- “Come potranno mai gli italiani liberarsi di Berlusconi?”, visto che in questa nazione tanto importante e acculturata non si tengono regolari elezioni politiche ogni cinque anni e anche più spesso;
- “In dodici anni il centrosinistra ha cambiato leader così tante volte da sembrare impegnato in una forsennata gara di sedie musicali (…) e per quanto molti italiani detestino Berlusconi, molti di più, temo, trovano i partiti di centrosinistra abbastanza patetici”;
- “A Fini sembrano mancare i cojones [sic] per votargli la sfiducia”: un giornalista che ha imparato così bene l’Italiano deve per forza avere capito tutto dell’Italia.

martedì 16 novembre 2010

Sarà che sono tardo ma non riesco a capire perché un programma che si chiama Vieni via con me sia stato affidato a uno come Roberto Saviano, che ha fatto un’arte del proclamare: “Basta! Me ne vado! Me ne sto andando! Me ne andrò! Sto per andarmene! Sto quasi per uscire! Guardate che vado via! Be’, io vado. Mi dispiace, devo andare. Inizio a pensare di andarmene. Sono quasi in procinto di potermene andare” – e poi restare lì inchiavardato come l’Andreotti dei tempi migliori. (Avete ragione, è tutta invidia: a Saviano non ho mai perdonato il fatto di essermi trasferito in Inghilterra).

lunedì 15 novembre 2010

Bionde, rosse, castane, addirittura more: non conta il colore dei capelli né tampoco quello degli occhi, sono tutte dei gran pezzi di gnocca che non perdono occasione per correre a riversarsi sulle strade dell’Ucraina onde protestare contro non si sa bene cosa – anche perché, e temo di non essere l’unico, il dettaglio che scrivano i motivi della propria protesta sul petto nudo, unito alla manifesta superiorità fisica delle donne russe, mi distoglie dal contenuto per farmi, diciamo così, concentrare sulla forma. Se volete ulteriore documentazione, sappiate che si tratta di un gruppo organizzato, che si chiama “Femen” e che per fortuna protesta spesso e forse anche volentieri, per quanto mi preoccupi vederle svestite alle temperature inclementi di quelle latitudini selvagge. Poi, passata la naturale empatia che si prova vedendo bionde, rosse, castane e addirittura more tirate via da poliziotti che tentano di acchiapparle per i capezzoli, mi sorge spontaneo un dubbio: ma perché in Ucraina alla minima cosa le strade si riempiono di stangone in topless mentre in Italia, con tutto quello che succede, al massimo possiamo sperare che Anna Finocchiaro vada a indignarsi da Lilli Gruber?

sabato 13 novembre 2010

Gianfranco Fini, sono il fantasma di Giorgio Almirante. Ritorna subito dove ti avevo messo.

venerdì 12 novembre 2010

Gianfranco Fini, sono il fantasma di Giovanni Malagodi ed ero il segretario del PLI (con la “P”). Sono qui a ricordarti che il glorioso Partito Liberale Italiano affonda le proprie radici nell’immediato post-Risorgimento, tanto che alla costituzione della Repubblica si decise di rifondare il partito che era stato sciolto sotto il ventennio fascista in segno di ideale continuità. Per quanto limitato nei suffragi, il PLI costituiva il contrappeso anticlericale da destra alla Democrazia Cristiana, ruolo che veniva simmetricamente svolto da sinistra dagli orfani di Mazzini del Partito Repubblicano Italiano o PRI (con la “R”). In fin dei conti cambiava solo una consonante e per l’elettore che non volesse turarsi il naso era abbastanza facile orientarsi. Lo stemma del PLI constava di una bandierina dell’Italia unita repubblicana (i cui colori sono, dall’asta, il verde il bianco e il rosso), su ciascuna delle cui sezioni era scritta una lettera maiuscola: P, L, I. Insieme ai dirimpettai repubblicani, il PLI costituiva il residuo nobile dell’Unità d’Italia e la riconosciuta aristocrazia della destra, come il PRI era l’avanguardia decente della sinistra. Tanto ho ricordato perché, di là dall’assonanza del nome, mi è parso che con FLI (con la “F”) tu abbia voluto smarcarti dal berlusconismo tanto quanto dal clericalismo. Bene. Ma ti sei guardato attorno? Al posto di Enrico De Nicola c’è Carmelo Briguglio, al posto di Luigi Einaudi c’è Fabio Granata, al posto di Benedetto Croce, autore di Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, c’è Luca Barbareschi, protagonista di Cannibal holocaust. Ma d’altronde non contano tanto gli uomini quanto la forza delle idee e, come hai egregiamente detto tu stesso, “gli uomini passano, le ideologie restano”. Tanto ho ricordato solo per chiederti di controllare se non hai mica invertito i soggetti.

giovedì 11 novembre 2010

Gianfranco Fini, sono il fantasma di Severino Citaristi ed ero il tesoriere della DC più mangiona. Sia chiaro che non intendo negare che si rubasse, per quanto in inferno, in purgatorio e in paradiso si mormori insistentemente che la violenza sistematica nel perpetrare la debellazione del Partito Socialista Italiano vada ricercata, oltre che nell'effettiva colpa dei responsabili, nella legge sulla responsabilità civile dei magistrati voluta e votata poco prima dallo stesso PSI insieme ai Radicali (in Italia tutti vogliono che chi sbaglia paghi, ma se sbaglia un magistrato deve pagare l'imputato). Nell'allocuzione di Bastia Umbra tu invece sei stato chiaro: nel tuo nuovo partito non c'è posto né per carrieristi né per affaristi, sarebbe a dire che non ti metteresti mai in casa uno come Tulliani. Ciò nondimeno ti inviterei a riconsiderare quello che è avvenuto nei lontani mesi di vuoto di potere, a cavallo fra prima e seconda repubblica, al tempo in cui comandava soltanto la trasmissione in diretta delle imprese dei giudici, con me e Sergio Cusani principali sparring partner. Quando il ministro Conso ha presentato il decreto di depenalizzazione retroattiva dei reati che avevano portato alla persecuzione giudiziaria e al lancio delle monetine e ai suicidi in carcere, il tuo partito (il primo dei quattro) non ha esitato a mettersi di traverso contro il cosiddetto colpo di spugna. Non dubito che avesse agito in buona fede; ma ora non puoi lamentarti dei risultati. Con una saggia attuazione del decreto Conso gli italiani, sempre così refrattari alla ragionevolezza, avrebbero potuto iniziare a distinguere fra la colpa dell'individuo e quella del partito. Un partito non è mai colpevole perché è un simbolo distinto dal suo leader, dai suoi membri e pure dal suo tesoriere. Si sarebbe provveduto ad allontanare gli individui responsabili e i partiti sarebbero rimasti in piedi con la loro consueta e saggia distribuzione delle forze. Invece col terrorismo psicologico da colpo di spugna s'è ottenuto che alle elezioni del 1994 non si presentasse nessuno stemma che aveva corso per le elezioni del 1992, con la notevole eccezione della Lega Nord; perfino il tuo partito, fiutato il vento, aveva già cambiato nome. I bei risultati sono sotto gli occhi di tutti: partiti liquidi, leader smaniosi, popoli identificati nel loro arruffapopolo, elettori disorientati, radicalizzazione dello scontro, incapacità di conservare la minima decenza istituzionale, presidenti della camera e presidenti del consiglio che si pigliano a male parole. Tu, tre lustri dopo, ti rendi conto di questo annoso problema politico e che fai? Fondi un altro partito ancora.

martedì 9 novembre 2010

Gianfranco Fini, sono il fantasma di Vito Lattanzio e a Bari ero l'acerrimo rivale di Aldo Moro nonostante che a livello nazionale lo supportassi per conterraneità prima ancora che per comunanza di partito. Ci mancherebbe altro: tutti noi rimpiangiamo il suo stile come quello di Berlinguer, Almirante, La Malfa senior, Gava e Cirino Pomicino. Tu che insieme a Bossi sei l'ultimo leader traghettato dalla prima repubblica, hai mai visto un democristiano litigare col proprio presidente, portarsi dietro una pattuglia di deputati eletti sotto un altro simbolo e fondargli in faccia un partito diverso con lo stesso programma di governo ma con l'esplicito intento di pigliarlo a pesci in faccia? (Alla Democrazia Cristiana, per ovviare a questi istinti, avevamo delle correnti ma nessun programma di governo). Hai mai visto un Gronchi, un Ingrao, una Leonilde Iotti, un Brunetto Bucciarelli-Ducci andare dal più alto scranno di Montecitorio a Bastia Umbria per inveire contro il presidente del consiglio? Hai mai visto, che so, Flaminio Piccoli decidere di diventare leader del quarto partito diverso della sua vita perché aveva litigato con Andreotti o con Forlani?

[L'idea dei fantasmi che inveiscono contro il presente è tolta dall'ottimo Camillo Langone.]

venerdì 29 ottobre 2010

Stendhaliana, parte quinta. Stendhal, Stendhal, perdonami: avevo frainteso e ti avevo sottovalutato, invece tu mi hai dimostrato di avere capito tutto dell’Italia (nonostante ti sia incaponito a intitolare Rome, Naples et Florence un libro che parla per lo più di Milano) nel momento in cui sei andato in una bisca e hai assistito a questa scena che riporto in francese per miglior effetto, e chi non capisce s’attacca: “Le parterre impatienté criait: «Zitti! zitti!», et la loge n’étant qu’au second rang, le spectacle était en quelque sorte interrompu. «Va a farti buzzarare!» criait lun des joeurs. «Ti te sei un gran cojononon!» répondait l’autre en lui faisant des yeux furibonds et criant à tue-tête”. E ora vorrei tanto concludere con una considerazione salace su certe faccende che non cambiano mai, nemmeno a due secoli di distanza, nemmeno con l’unificazione, nemmeno con la costituzione; ma la tua maestria nell’individuare al volo il nostro spirito nazionale mi lascia senza niente da aggiungere e mi fa restare zitto e incerto come un cojononon.

giovedì 28 ottobre 2010

Stendhaliana, parte quarta. Io che detesto fare i bagagli, subire il check-in o prenotare uno scompartimento, rinunciare alle mie cose intrasportabili, dover selezionare il doloroso necessario, salutare gli amici e non tornare mai più ho trovato consolazione nel bon mot riportato in Rome, Naples et Florence. Un duca aveva proibito il passaggio attraverso le proprie terre a ogni mezzo di trasporto che non fossero i piedi. Interrogato sul motivo del singolare editto, aveva risposto: “Viaggiano soltanto i giacobini”. Era il duca di Modena, quindi aveva buone ragioni per voler restare dov’era. (Ma per contro si veda la risposta del duca di Bassompierre a chi lo rimproverava di frequentare gli angoli meno raccomandabili di Napoli: “Io vado dove mi pare, e rendo nobile ogni posto in cui passo”).

mercoledì 27 ottobre 2010

Stendhaliana, parte terza. Forse che in qualche trasferimento – in aereo, in treno, in pullman – mi è capitato di incontrare Enrico Beyle da Grenoble e di rattristarlo con la mia aria tacita e mesta? In Rome, Naples et Florence scrive che “l’Italiano non diviene comunicativo che verso i trent’anni”. Poi, quattro pagine dopo, scrive: “pioveva orribilmente; la tristezza disponeva alla filosofia”. De me fabula narratur: un tempo ero abile e disinvolto conversatore; poi, verso i trent’anni, mi sono trasferito in Inghilterra.

martedì 26 ottobre 2010

Stendhaliana, parte seconda. Beato te, Enrico Beyle da Grenoble, che puoi scrivere ad alta voce quello che gli italiani possono al massimo fingere di non pensare. “A Napoli si è troppo africani perché si possa gustare appieno l’espressione più fine delle sfumature dei sentimenti”; “il popolo romano è quello che, in tutta Europa, ama di più la satira fine e mordente”; “è passeggiando così che mi sono fatto un’idea della beltà lombarda, una delle più toccanti sebbene nessun pittore l’abbia mai resa immortale nei suoi quadri”; “nei momenti di slancio più appassionato, ogni donna imita sempre un po’ un romanzo sentimentale alla moda”; “il più grande svantaggio per questo poeta è che la lingua in cui scrive non viene più capita a dieci leghe di distanza da Milano, e che a Parigi, a Londra e a Filadelfia, si ignora perfino l’esistenza di detta lingua”; “sapreste dirmi il titolo di un libro italiano tradotto in francese negli ultimi due anni?”; “c’è una sola buona rivista letteraria, il Poligrafo di Baretti; sotto il nome di letteratura, tutte le altre pubblicano delle pesantissime dissertazioni che non passerebbero l’anticamera dell’accademia di belle lettere”; e soprattutto, descrivendo una processione cattolica: “In quell’istante, attorno a me non c’erano che fedeli, e io stesso non potevo che essere di una religione così bella!”. Sono passati duecento anni ma ci fai ancora fare la figura della mosca nella bottiglia, che non capisce di che forma sia finché non ne viene fuori.

lunedì 25 ottobre 2010

Stendhaliana, parte prima. Anche il più italiano degli autori francesi, Enrico Beyle da Grenoble, passa per la nostra penisola senza riuscire a capirla. Leggete qui che errore madornale si lascia sfuggire in Rome, Naples et Florence, sentendosi in vena di profezie: “L’Italia non potrà avere una letteratura vera e propria se non quando avrà due Camere”. Era il 1816. Centotrent’anni dopo l’abbiamo accontentato e quali sono stati i risultati? Prima ci sono stati Dante, Machiavelli, Manzoni. Il bicameralismo perfetto, alla lunga, ha prodotto Fabio Volo.

venerdì 22 ottobre 2010

Timothy Garton Ash è una persona intelligente. Ogni tanto lo incontro per strada a Oxford, in quanto s’aggira spesso nella stessa zona in cui lavoro. Indossa sempre una sciarpa, di solito un cappello, e dietro la barba scura mi guarda con gli occhietti vispi di chi spera di essere riconosciuto, o forse lo sa già. Di sicuro non giova alla mia privacy il fatto che sovente io vada a zonzo con una copia del Guardian sottobraccio; allora è ovvio che tutti i suoi corsivisti appena mi incrociano per strada mi guardino come una celebrità. Timothy Garton Ash però vive e insegna a Oxford solo metà dell’anno mentre il resto del tempo lavora in America, credo a Stanford. A questo proposito, sul Guardian di ieri ci informava di essere passato da New York e di essere andato a un night club. Buon per lui. Invece no: era entrato in questo locale, che si chiama New York Dolls come si evince dalla vistosa pubblicità sistemata sul tettuccio di un taxi su due, per dimostrare che la moschea a Ground Zero non è poi questa cattiva idea. O meglio: la moschea a Ground Zero sarebbe meglio evitarla ma, dovendo sorgere all’interno di un centro di studi islamici collocato a tre isolati da Groud Zero, si tratterebbe di un esercizio comparabile al New York Dolls che si trova un mero isolato più in qua. Se la moschea offende la memoria delle vittime dell’11 settembre, la stessa memoria non dovrebbe essere offesa anche dal night club? E invece la costruzione della moschea incontra difficoltà inaudite mentre il New York Dolls sta lì dai tempi in cui Arafat concedeva interviste a Playboy. Si tratta di un articolo lungo, ben architettato, molto ragionato e soprattutto intelligente: mi ha quasi convinto che l’attentato alle torri gemelle l’abbiano organizzato le spogliarelliste.

giovedì 21 ottobre 2010

Facciamo un salto indietro: primavera 2008. Vivo in una città universitaria e tutti dicono: se vince Berlusconi è un vulnus per la democrazia. Ma io ribatto: se Berlusconi prende più voti vuol dire che è eletto democraticamente. Allora tutti insistono: ma Berlusconi è un monopolista delle comunicazioni, l’incarnazione del quarto, quinto e sesto potere a reti unificate. E io: sine, ma preferireste Murdoch? E tutti: ma a Berlusconi piace oltremodo la gnocca, come si fa a diventare presidente del Consiglio seri e compunti senza essere asessuati? Io: scusate ma la gnocca piace anche a me, e preferirei che ciò non mi precludesse l’elettorato passivo. Tutti: ma Berlusconi parla a voce troppo alta, dice cucù, fa le corna e sostiene che i tedeschi sono dei kapò. Io: perbacco, sembra proprio un italiano. Tutti: basta, quand’è così se vince Berlusconi noi ce ne andiamo dall’Italia e lasciamo che questo paese affondi nella propria melma. Io: va bene, tenetemi aggiornato e vengo a salutarvi in aeroporto. Ora, come molti di voi sapranno, Berlusconi ha vinto le elezioni del 2008 con ampia maggioranza. Com’è che tutti sono rimasti dov’erano e ho dovuto andarmene io?

mercoledì 20 ottobre 2010

Hanno ragione quelli che mi dicono: “Di che ti lamenti? Stai a Oxford, hai un lavoro, guadagni bene e mangi a sbafo. Non ti piace la città? Che t’importa? Tanto passi tutta la giornata in ufficio e geograficamente parlando una scrivania vale l’altra. L’importante di questi tempi è avere un lavoro: tira avanti e non lamentarti sempre. Sai quanto pesa la parola Oxford in un curriculum? Quando finirai potrai trovare il lavoro che ti pare. Anzi l’ideale sarebbe che restassi un po’ più oltre i due anni stabiliti; magari un altro, magari altri tre, magari cinque. Più è lunga la permanenza miglior figura fa il curriculum. Va bene, dovrai continuare ad alzarti alle sei del mattino per scrivere, a parlare senza che nessuno capisca le sfumature di ciò che dici, a incontrare gente che non ha niente a che spartire con te; dovrai pagare le tasse al governo italiano e a quello inglese, alla regione Puglia e al city council; non potrai mai andare in edicola a comprare il Foglio, non riuscirai a guardare una partita in santa pace, perderai tutti gli amici e avrai figli che non parlano la tua lingua; ma sono dettagli. L’importante è la carriera. Se invece di cinque resti lì dieci, venti, trent’anni, sai come diventa importante il tuo curriculum? Fa’ un piccolo sacrificio, resisti e accontentati di vivere male oggi in funzione di un bel futuro. Resta lì, lavora lì, invecchia lì; poi magari morirai, ma con ottime prospettive”.

martedì 19 ottobre 2010

Sarà che della ragazza uccisa non m'importa niente, né tampoco dello zio, della cugina e del bisnonno; sarà che non mi sembrano eventi da meritare curiosità né persone alle quali dedicare tempo; fatto sta che salto a pie' pari tutte le pagine di quotidiano e le mezz'orate di tv che s'imperniano su questa o altra amenità di cronaca. Preferisco leggere un bel romanzo, a patto che non rechi il sottotitolo "una storia vera". Questi italiani si sa come sono: perché adocchino un libro ci vuole un festival letterario, perché lo comprino ci vuole una Feltrinelli, perché lo leggano ci vuole un miracolo; e il miracolo, nello specifico, dev'essere la trasformazione del regno delle idee pure e fantasiose in "storia vera". Vino tramutato in acqua; è già tanto piena di storie vere la vita mia, perché dovrei accollarmene altre per iscritto? Io me li vedo davanti, tutti quelli che mi rimbrottano di passare così tanto tempo sull'empireo dei libri; sono gli stessi che dedicano fervori e neuroni alle pagine di ammazzamenti, come se la cronaca esistesse più della narrativa. E se il ragionamento non è chiaro, ve lo faccio spiegare da Giuseppe Gioachino Belli, uno che certe cose le capiva meglio di Celentano: "Va' in d'una strada, indove sce se fa / cquarche gran scavo in de la terra, e ttu / vederai che ggnisuno sa ppassà / si nun z'affaccia e ssi nun guarda ggiù. // Che conziste sta gran curiosità? / Nun è la terra ggiù come che ssù? / Cosa spera la ggente in quer guardà? / che se scopri er burrò dde Bberzebbù? // Ma cquest'è 'r peggio ch'io nun zo ccapì, / che ssibbè nnun c'è un cazzo da vedé, / invetrischeno l'occhi, e sstanno llì. // Er monno dunque è ppiù cojjon de mé / che mme ne sto su sta loggetta, e cqui / gguardo in cielo le stelle e cquer che cc'è".

lunedì 18 ottobre 2010

Basta, è giunta l'ora di una controriforma della grammatica: "religione" deve diventare singularia tantum, non deve avere più il plurale. Che senso ha parlare di "religioni" se per definizione ogni religione è unica e una soltanto è vera? Si può parlare di "religione" se si cita il Cattolicesimo, che è la vera fede, o tutt'al più riferendosi a giudaismo e ortodossia, fratelli maggiori e minori che nel Cattolicesimo si riconosceranno e fonderanno nel giro di due o trecento anni (be', su, dimostratemi che ho torto). Questa riforma del linguaggio renderebbe più facile distinguere la religione dalle sette (tutti i protestantesimi), dai giochi di società (come il buddismo) e dalle associazioni a delinquere (l'Islam). Quanto agli atei, il problema non si pone: esistendo Dio, l'ateismo non esiste.

venerdì 15 ottobre 2010

Né mi stupirei che si possa fare libera conversazione con le prostitute (quand'anche esse risultassero negre francesi abbonate a La Difesa Della Razza). Perché non si dovrebbe? Non so con voi, ma con me attaccano discorso loro, sarà perché sono meno laido del cliente standard sarà perché viaggiando per lavoro giro spesso da solo. L'unica variante è a San Pietroburgo, dove le medesime non si palesano in strada (fa troppo freddo, loro diventerbbero stalagmiti e San Pietroburgo diventerebbe Pompei) ma mandano dei compari agli angoli di alcune traverse della Prospettiva Nevskij; tuttavia nemeno costoro riescono a star fermi ragion per cui, dopo aver provato a saltellare e a strofinarsi i palmi sui quadricipiti, cambiano strategia e iniziano a camminare su e giù per l'isolato, affiancando di volta in volta il passante che ritengono plausibile cliente - così che, nei miei quattro giorni petroburghesi di raccoglimento e silenzio (avete provato mai a parlare in cirillico?) l'unica parola che mi fosse stata rivolta consisteva in un'occhieggiante: "Russian girl: nice sex!" (Ora che ci penso, oggi queste mie candide pagine inesistenti avranno un'impennata di accessi grazie a coloro che abitualmente cercano su google le quattro summenzionate parolette). A Parigi le cose sono più delicate: domenica mattina, mentre passavo da Les Halles deserte con un libro sotto braccio, una m'è saltata pressoché al collo con la scusa di chiedermi cosa leggessi. Quando ha visto che era Stendhal, mi ha lasciato andare libero. Sarà che viaggio sempre da solo ma per principio due chiacchiere innocenti io non le nego a nessuno. Appurato che la prostituzione non è reato (a differenza dell'evasione fiscale, tanto per dire), la principale differenza è che loro vengono pagate per aprire le cosce mentre io per soldi accetto di scrivere in inglese saggetti che in italiano sarebbero ben meno incomprensibili e bolsi. Stiamo tutti sulla stessa barca, che peraltro affonda; e prima di giudicare ripeterei cento volte uno stornello ereditato da Giuseppe Gioachino Belli: "Ffior de limone / si Ccristo nun perdona a le puttane, / er paradiso lo pò ddà a piggione".

giovedì 14 ottobre 2010

Se Parigi avesse la statale 96 sarebbe una piccola provincia di Bari. Ha invece una zona, diciamo dalla Poissonnière fino al boulevard de Sébastopol, in cui la quantità di signore scese a prendere un po' d'aria al portone di casa loro dapprima sorprende poi desta sospetto. Io sono un passeggiatore, ragion per cui me ne tornavo a piedi da La Libreria (una rivendita di libri italiani, tanto in traduzione quanto in originale, che merita una visita per l'eroicità dei proprietari e soprattutto perché nel piano interrato ha una scelta di titoli niente male, non raccattati all'ingrosso ma considerati uno a uno, ivi incluso perfino Comme Te l'Aggia Dicere?, un atlante del gesticolare pubblicato da Intramoenia che in vita mia avevo visto esposto solamente in piazza Bellini a Napoli, nel caffè della medesima casa editrice, dove andavamo a farci belli con le colleghe, altri tempi) ai grandi boulevard che confluiscono verso la Senna. Vedendo l'incrementata densità di donnine, ne ho approfittato per levarmi una curiosità che covavo da tempo e appena ho trovato la prima prostituta negra le sono andato incontro (traduco) chiedendo: "Signorina, permette una domanda?" "Sono cinquanta euri." "Temo che mi abbia frainteso. Volevo chiederle come mai a Parigi le donne nere sono così belle: io sono italiano ma vivo in Inghilterra e posso assicurarle che né da un lato né dall'altro ne ho viste mai di paragonabili alle parigine. Eppure la negra è in media meglio della bianca; ma in Inghilterra particolarmente piuttosto che consegnarsi a queste specie di assi di picche ambulanti viene voglia di andare con un'inglese vera, il che è tutto dire. Come si spiega?" A questo punto l'adescatrice mi guarda con aria annoiata e mi dà una risposta che non mi sarebbe venuta nemmeno a pensarci una settimana: "Si spiega che noi siamo francesi mentre loro sono africane". Mica per niente è la patria di Gobineau.

mercoledì 13 ottobre 2010

Se Parigi avesse l'underground sarebbe una piccola Londra. Come tale sarebbe ingestibile: quest'anno ci sono andato tre volte da Oxford e due volte su tre all'andata ho trovato lo sciopero della metropolitana, non in Francia dove sarebbe stato verosimile ma a Londra dove credevo non scioperasse più nessuno dal 1848, ragion per cui ho in entrambi i casi rischiato di perdere l'eurostar delle 9:30 pur essendo arrivato in città già da due ore, presentandomi al check-in sudato e laido come un cencio dopo aver aspettato invano che passasse l'autobus indicato dagli immani dementi piazzati dal comune a dare informazioni a ogni isolato (sono talmente tanti che uno si chiede: non valeva la pena di usarli come guidatori temporanei di metropolitana? magari saremmo morti, ma almeno saremmo morti puntuali), combattendo con una muraglia di giapponesi inutili per definizione e ulteriormente dannosi nella circostanza, rincorrendo valigia in resta tassisti mussulmani che o non mi vedevano o fingevano di non vedermi, subendo angherie da indigeni increduli di poter finalmente scavalcare una fila - a riprova che l'Inghilterra non è nazione civile e che se ha colonizzato un posto come l'India vuol dire che se lo meritava. Senza contare che, al viaggio di ritorno, due volte su tre ho trovato la metropolitana interrotta per lavori riguardo ai quali si specificava che erano mirati a rendere il servizio più funzionale in futuro: al che mi sono chiesto, ma quando cacchio saranno funzionali se l'underground di Londra non prevede lavori in corso solamente quando c'è sciopero? Parigi invece ha la métropolitain dai vezzosi cartelli liberty che introducono agli scalini interrati: di fronte al Louvre una coppia di turiste l'altro giorno mi ha fermato per chiedermi - be', non hanno propriamente chiesto, si sono limitate a indicarmi scandendo in tono impercettibilmente interrogativo: "La métropolitain... à gauche". Forse volevano implicitamente, inconsapevolmente riferirsi alla matrice politica della grève generale a oltranza iniziata ieri come da tradizione, ma che di sicuro non renderà Parigi meno civile di quanto sia perché la civiltà non è questione di mezzi di trasporto bensì di eleganza anzi di decenza. Ho risposto loro tacendo, indicando appunto l'enorme scritta "métropolitain" alle loro spalle. Poi ho chiesto: "Etes-vous italiennes?", nel mio miglior francese senza accenti circonflessi. "Sì... italiane..." ha ammesso una di loro. "Si vede", ho replicato e me ne sono andato a piedi visto che a Parigi si può camminare e a Londra invece no.

martedì 12 ottobre 2010

Se Parigi avesse la Feltrinelli sarebbe una piccola Roma (Largo Argentina), una piccola Milano (Galleria Vittorio Emanuele), una piccola Napoli (Chiaia). Invece sul boulevard Saint Michel c'è l'enorme palazzo di Gilbert Joseph, dal quale mi servo più che volentieri nonostante che i miei colleghi più snob vadano altrove - e quando mi chiedono che differenza trovo infine fra le due grandi catene librarie rispondo che Gilbert Joseph non è morto su un traliccio. In realtà la differenza principale è che in una Feltrinelli io noto sempre gli stessi titoli mentre da Gilbert Joseph tanti libri diversi. Tradotto, in una Feltrinelli teoricamente infinita troverebbero spazio infinite copie dello stesso titolo (ovviamente di Saviano, ma forse anche di Jovanotti) mentre in una Gilbert Joseph teoricamente infinita troverebbe spazio almeno una copia di infiniti titoli, ivi inclusi libri che non sono mai stati scritti. Borges ci morirebbe dalla gioia, se non fosse già morto per conto suo. Per questo se si ha la pazienza, come ce l'ho io, di passare in rassegna tutti i dorsi di tutto il settore tascabili di Gilbert Joseph si scopre inevitabilmente testi di cui si ignorava l'esistenza e due ore dopo se ne esce con una cultura ben superiore a quella allegata alla laurea in lingua e letteratura francese. Per questo qualche giorno fa sono entrato da Gilbert Joseph per comprare l'ultimo romanzo di Houellebecq, ho visto che costava 22 euri, ho letto la prima pagina in cui si descrive Damien Hirst (quello che espone cadaveri di vacca) che prende un drink con Jeff Koons (l'ex fidanzato di Cicciolina), ne ho spesi 21 e sono uscito con Proust, Ionesco e Stendhal con la consapevolezza che mi avanzavano soldi per un caffè.

lunedì 11 ottobre 2010

Se Parigi avesse la Ghirlandina sarebbe una piccola Modena. In compenso ha la Torre Eiffel ma solo pochissimi (io) possono capire che il suo fascino non risiede nella sua forma ma nell’avvicinamento e nell’allontanamento. Passeggiando sul Pont des Arts con un collega maoista esiliato in Francia, poiché ormai nemmeno più i maoisti fanno carriera nell’università italiana, riesco a non essere vinto dalla vertigine delle fessure che sotto i miei piedi si aprono sulla Senna solo perché da qualche parte alla nostra sinistra si fa largo fra la nebbiolina un’ombra giallognola che è, scopriamo a più attenta osservazione, la Torre Eiffel che vigila sul nostro itinerario. A Parigi come a Modena è impossibile perdersi perché si è sempre protetti dalla Torre Eiffel come dalla Ghirlandina: basta scrutare l’orizzonte per capire dove si è, e quando si arriva fin sotto si vede la Torre Eiffel scomporsi e la sua slanciata sagoma universalmente nota dilatarsi in una figura che è la sua forma vera ma che nessuno sarebbe in grado di riprodurre a memoria, e si vede la Ghirlandina appiattirsi e incombere come un ponte infinitesimale fra la terra e il cielo irraggiungibile. Qui casca l’asino, diranno i miei piccoli lettori: la Ghirlandina è un campanile e come tale simbolo di Dio; la Torre Eiffel al massimo può essere simbolo di un turista giapponese con l’obiettivo a tracolla. Nossignore, invece, perché la Ghirlandina è il punto più alto e centrale di Modena, riferimento irrinunciabile e assoluto; mentre il punto più alto di Parigi è il Sacré Coeur, talmente alto che affacciandosi si vede la Torre Eiffel e ci si sente più sicuri.

venerdì 8 ottobre 2010

Carlodosseide, parte decimaseconda e ultima (anche se avrei preferito che fossero infinite). In un’epoca folle di mussulmane lapidate e di beagles vivisezionati, basta una frasettina di Amori per rimettere ogni cosa al suo posto. Una volta in più la sottoscrivo e vorrei averla pensata io per primo (ma non potevo, per colpe non mie sono nato centotrentun anni dopo): “Di tutte le bestie, però, quella che io preferisco, dopo la donna, è il cane”.

giovedì 7 ottobre 2010

Carlodosseide, parte decimaprima. Abbiamo pochi eroi perché abbiamo troppi monumenti. “Il marmo”, scrive Carlo Dossi nel Campionario, “costa poco in Italia”. Ne consegue la continua svalutazione della gloria: la nobiltà è diventata mediocrità, il lusso è diventato telefonino, il Risorgimento Costituzione.

mercoledì 6 ottobre 2010

Carlodosseide, parte decima (per solutori più che esperti, anzi, stavolta è una cosa fra me e lui, potete anche non leggere perché non capireste nulla). Carlo Dossi, che fossi di Pavia (be’, Zenevredo) lo sapevo già; ma non è che di nascosto sei mio compagno di collegio? Negli archivi del Ghislieri non risulti ma all’inizio inizio del Campionario ti lasci sfuggire una considerazione velenosa sulla “coronata humilitas dei Borromèi” che lascia sospettare da quale metà dell’università e della città battesse il tuo cuore. Cosa devo fare per renderti ghisleriano ad honorem?

martedì 5 ottobre 2010

Carlodosseide, parte nona (se non ho perso il conto). Prima che venissero inventate le classifiche dei libri più venduti, prima che venisse inventata Repubblica, prima che venissero anche solo concepiti Baricco e Saviano, nel suo Campionario Carlo Dossi aveva notato che “gli analfabeti son molti ma molti più ancora sono i leggenti che non capiscono nulla”. (Ma anche, più amaramente, che “contrattempisti, più che tutti, siam noi, noi scrittori, che ci ostiniamo a presentar libri a una Italia che non sa lèggere”).

lunedì 4 ottobre 2010

Carlodosseide, parte ottava (non preoccupatevi, continueremo ancora a lungo – e se non vi piace potete cambiare blog). Ditemi al volo i nomi di cinque autori italiani giovani. Che so, c’è dentro Gianluca Morozzi (39 anni)? C’è dentro Niccolò Ammaniti (44 anni)? In Dal Calamajo di un Mèdico Carlo Dossi si definiva “giovane abusivamente, (…) ho trentasett’anni”; e non indossava magliette né felpe, non parlava coi congiuntivi sbagliati né suonava la chitarra elettrica per rendere più sfrenato, sfrontato, patetico il proprio abusivismo.

venerdì 1 ottobre 2010

Carlodosseide, parte settima. Parlandoci chiarissimo, la prossima volta che qualcuno vi rimprovera perché vi accoppiate a casaccio, come se una valesse l’altra, prendete il raro volumone a cura di Dante Isella (Carlo Dossi, Opere, Adelphi, 1995, 1633 pagine, 100.000 lire fuori corso), apritelo su La Colonia Felice, parte prima, capitolo sesto, pagina 569 e puntate il dito medio sul rigo tredicesimo: “Che è un matrimonio, in tutti i paesi del mondo, per quanto premeditato, se non un getto di dadi?”. Poi fategli una pernacchia.

giovedì 30 settembre 2010

Carlodosseide, parte sesta. Parlandoci sempre più chiaro, meno ancora della moglie avreste bisogno di un arredatore. Se dovete star da soli, perché consentire a un estraneo di ficcare le mani nelle faccende vostre? Estremizzando, con Carlo Dossi, “per un uomo che non conosce un parente, che non incontrò mai un amico, che non ha tampoco amorosa, conta molto la càmera”. Per capire se la vostra vita è felice, chiudete gli occhi, allungate la mano e scoprite se le vostre cose sono ancora lì dove le avevate lasciate ieri sera.

mercoledì 29 settembre 2010

Carlodosseide, parte quinta. Allora, parliamoci chiaro, volete scrivere o volete sposarvi? Le due cose non si escludono a priori ma a posteriori sì, lo dimostra un’invettiva di Carlo Dossi in Goccie d’inchiostro ove rimprovera: “Eppòi tu se’ nato agli studii. Vògliono pace gli studii… Dove trovare mai pace fuorché in solitùdine? Distratto dalle quotidiane meschinìssime cure della famiglia, con un occhio alla pèntola aspettata dai tuòi figlioletti e l’altro alla tua letteraria coscienza, avresti tutta la vita, per dir così, loscheggiato, di te insoddisfattissimo”. Pensate se oltre a una moglie aveste anche un lavoro, sarebbe una tragedia.

martedì 28 settembre 2010

Ho letto Mia cugina Rachele in una tascabilissima edizione Oscar Mondadori del 1966 (prezzo: 350 lire). Comoda da scorrazzare su aerei e treni fra Inghilterra e Italia, l’edizione nasconde un pregio ulteriore nella biografia dell’autrice in seconda di copertina (per gli studenti dei master in editoria cartacea e multimediale: la seconda di copertina è la facciata che si trova sul retro della copertina colorata che vedete esposta nell’angolo-libri di Coop ed Esselunga). Daphne Du Maurier, vi si illustra, “attualmente vive a Menabilly in Cornovaglia e studia i grandi autori del passato”. Ho immaginato Daphne Du Maurier ancora viva, ancora intenta a studiare l’infinita mole di pagine lasciate in eredità dai grandi autori del passato e per un istante mi sono trasferito dal volgare 2010 all’eternità della letteratura.

lunedì 27 settembre 2010

Ormai Gianfranco Fini sa che il problema non è la casa di Montecarlo o la sua permanenza a Montecitorio. Il suo problema è che non è più lui. Se n’è reso conto lui stesso riguardando i dieci minuti di video lasciati su internet: Fini vi appare seduto in un ambiente dimesso, non confacente alla terza carica dello Stato, dietro di lui i libri sono in disordine, addosso ha una giacca troppo larga (forse sottratta a Fabio Granata), alla cravatta s’è fatto un nodo storto, legge da un gobbo che cerca con gli occhi incerti, ansiosi, timorosi di dire la parola sbagliata, e quando azzarda un’esclamazione la fa suonare retorica e indotta come se dentro di lui si fosse infilata una mano (la mano di Carmelo Briguglio?) a sancirne movenze indesiderate come una marionetta. Ve lo ricordate Fini venti, quindici, dieci anni fa? Io sì: parlava sempre in piedi, diritto e incrollabile, sempre a braccio, ricordando a memoria e quando non ricordava improvvisando, toccando l’asta del microfono quando il discorso si faceva più sentito, cercando con lo sguardo l’interlocutore o la telecamera, non recalcitrando di fronte all’opportunità della battuta pensata d’emblée. È la maledizione della presidenza della Camera, che trasforma e degenera: la Pivetti è diventata brutta anatroccola su Italia 1, Violante opinionista retrogrado, Casini non lo sa nemmeno lui, Bertinotti niente. Fini è diventato così, uno che prima faceva comizi infuocati e ora mette i video su youtube come un adolescente; se ne accorge, ci soffre e cerca di dire che la colpa è altrui. D’altronde c’è da capirlo, è passato da Almirante a Bocchino.

venerdì 24 settembre 2010

Cos’è il genio? In Amici miei rispondeva Philippe Noiret (o forse Duilio Del Prete, o forse Ugo Tognazzi): fantasia, intuizione, decisione, velocità di esecuzione. A Pavia, in piazza Vittoria e più precisamente nella libreria Il Delfino, io sto parlando col padrone mentre entra un’universitaria e chiede al commesso l’ultimo libro di Fabio Volo. Il commesso si perde d’animo e guarda il padrone. Il padrone tentenna e dice: “Non c’è, non credo che ci sia”. Io entro a gamba tesa e suggerisco: “Magari prova a cercarlo in Feltrinelli”.

giovedì 23 settembre 2010

A Modena, su Viale Monte Kosica, mentre trascinavo la mia valigia verso la stazione una ragazzina che avrà avuto sedici o diciassette anni e alle dieci di mattina già andava a spasso a braccetto con due amiche sue, appena le ho superate mi ha urlato dietro: “Anch’io voglio viaggiare: mi porta con lei?”. Peccati di gioventù; alla sua età vorrebbero partire tutti, perfino io. Mi sono voltato limitandomi a sorridere ma avrei voluto risponderle dal cuore: “Io preferirei restare: tua madre cucina bene?”.

mercoledì 15 settembre 2010

Io starò via per qualche giorno ma tu nel frattempo converti, per favore, quest’isola di

martedì 14 settembre 2010

Luigi Gualdo, mi hai deluso. Tu d’altronde te ne fotti, essendo già morto nel 1898; ma che bisogno c’era di scrivere un romanzo così così come Decadenza? Per carità, di romanzi appena potabili è pieno il mondo e uno di più non guasta la patria favella – tu d’altronde t’eri lanciato anche a scriverne in francese, lingua che posso giudicare fino a un certo punto, mais passons. Non sapevi che un giorno assieme al tuo romanzo sarebbe stata pubblicata una nota biografica? Ne risulta che eri ricco, vivevi a Parigi, vestivi all’ultima moda, frequentavi i salotti buoni, donne a non finire, gli intellettuali ti ammiravano, i poeti ti dicevano volentieri amico, d’Annunzio perfino ti aveva immortalato in rime disinvolte: “Quando Luigi Gualdo / a cui su’l rilucente / petto mirabilmente / folgora uno smeraldo / le sue parole lente / ne la barba di skaldo / lascia fluire, al caldo / odor del the virente, / affascinati stanno / a udirle i jockey rossi / dai lunghi volti equini / e di soave affanno / a quel dire commossi / tremano i tavolini”. Che l’hai scritto a fare un romanzo? Se avevi già tutto quel che merita, perché questa faticaccia inutile?

lunedì 13 settembre 2010

Umberto Eco, fatti ricrescere la barba. Quando ce l’avevi ancora scura, nel 1977, scrivevi sul Corriere della Sera: “Dire che Radio Alice sia stata la causa di episodi di rabbia giovanile è come dire che il Festival di Sanremo è la causa della stupidità nazionale: significa avere una fiducia quasi magica negli strumenti di comunicazione di massa”. Avevi ragione. Sarebbe come dire che Berlusconi vince le elezioni perché possiede tre canali televisivi.

venerdì 10 settembre 2010

Carlodosseide, parte quarta. A caval donato non si guarda in bocca ma alla vostra fidanzata, se permettete, sì. In tre momenti sparsi in altrettanti racconti di Goccie d’inchiostro (sì, con la “i” frammezzo) Carlo Dossi compone un piccolo manuale d’amore gastronomico. Primo movimento, la scelta dell’amata: “Da che reggo il collegio, non mi è mai capitata una fanciulla più ghiotta. Va in seconda a ogni cibo. E sì che tra i pasti non fa che spazzare scàtole di canditi, e pasticche e cioccolatte e mentini! Jeri di là, ad esempio, mi ha furato e vuotato il mastelletto della mostarda. Poi, ride sempre, di tutto”. Secondo movimento, il rifiuto delle aristocratiche inappetenti, che vedendovi mangiare più di loro si considereranno automaticamente superiori senza considerare che “disgraziatamente, per quanto poco si mangi – ahimè! – non tutto va in sangue, ed anche le più vaporose fanciulle… (dove troverò io espressione che non offenda le mie gentili lettrici, tanto caste d’orecchio?...) sono obbligate di fare da sé ciò che non possono far fare dalla lor cameriera. Il che, per la forma, è il capolavoro della infernale malizia: dìgitus diàboli est hic; benché io ci ravvisi piuttosto quella sapienza divina che mette tutti nel mondo per un’ùnica strada”. Terzo movimento, il criterio a monte della selezione: “Amore vuol polpe”.

giovedì 9 settembre 2010

Carlodosseide, parte terza. Carlo Dossi ce l’aveva coi preti, ce l’aveva ancor più coi monsignori, ce l’aveva a maggior ragione coi cardinali, e col Papa non ne parliamo nemmeno di quanto ce l’avesse. Questione di tempi e risorgimenti, presumo, di Stati della Chiesa e brecce di Porta Pia. Però il Signore l’aveva dotato di un cervello e, sempre per la solita questione dello Spirito che soffia dove vuole, nel 1873 gli era scappato di concludere un capitolo de Il Regno dei cieli con uno slogan che valeva un’enciclica sana: “Riconciliàtevi al Cielo. Siate egoisti davvero”.

mercoledì 8 settembre 2010

Si può giudicare la vita di un uomo dal titolo della sua autobiografia? Proviamo. Bisogna riconoscere che Laurent Fignon è stato una persona molto più interessante di Tony Blair: questi ha intitolato la propria autobiografia A Journey (“un viaggio”: nemmeno “il viaggio”, com’era stato anticipato; gli è improvvisamente venuta la smania dell’understatement sugli articoli), quegli invece l’aveva intitolata Nous étions jeunes et insouciants, “eravamo giovani e incoscienti”. La cosa divertente, se ce n’è una, è che essendo stati rispettivamente un ciclista e il leader del New Labour avrebbero fatto meglio a scambiarsi i titoli.

martedì 7 settembre 2010

Titolone del Guardian di ieri, su due pagine: “Avere fede: quant’è nero il futuro del Cattolicesimo?”. Sottotitolone: “Dieci giorni prima della visita del Papa in Gran Bretagna, le posizioni del Vaticano su argomenti quali l’aborto, l’omosessualità e il sacerdozio femminile sembrano sempre più distanti dalla realtà del mondo contemporaneo”. Non so voi, ma mi sembra che il titolone e il sottotitolone si contraddicano ingenuamente: finché permangono le attuali visioni su questi temi, il futuro del Cattolicesimo è roseo. La vedo piuttosto nera, invece, per il mondo contemporaneo.

lunedì 6 settembre 2010

Si può vivere a Gravina? Camillo Langone mi segnala un passo di Cesare Brandi, il cui Pellegrino di Puglia è stato scritto cinquant’anni fa ma primeggia nella lista dei libri da comprare alla mia prossima calata in Italia: “C’è un monumento, una fontana senz’acqua, una strana torre dell’orologio, come se si fosse in Turchia. Ma soprattutto c’è il semaforo. Mi dovetti accorgere che era, questo semaforo, il primo cittadino di Gravina: sempre che si domandasse come fare ad andare qui o là, era il semaforo a cui con malcelato orgoglio, ci rimandavano anche se non aveva nulla a che fare con la direzione da prendere. Ma Gravina oltre alla torre dell’orologio e al semaforo, ha un albergo, e una trattoria, bolognese per giunta. Insomma c’è di che viverci”. Ora è rimasto solo il semaforo. L’orologio della torre, che è vicino a casa mia, sovente segna le dieci e venti indipendentemente dall’orario. Al posto del grande albergo in periferia, presumo il Peucetia, sono proliferati i bed & breakfast nel centro storico senza considerare che metà della popolazione locale non sappia cosa significhi e l’altra metà non sappia pronunciarlo. La trattoria bolognese non l’ho mai sentita; s’è scorporata in infinite trattorie locali in cui il conto muta secondo troppe variabili che non ho ancora colto. Quasi tutte chiudono entro un anno dall’apertura; ciò non dissuade dal sorgere di nuove al loro posto o altrove. In una strada ad alto scorrimento avevano aperto il primo lounge bar, quest'estate; sono sicuro che entro Natale non lo ritroverò più.

venerdì 3 settembre 2010

Carlodosseide, parte seconda. Vi siete iscritti all’università? Avete scelto lettere, non importa se antiche o moderne? Ignoranti, magari non sapete nemmeno chi è Carlo Dossi e che ognuna delle sue tante pagine meriterebbe riflessione approfondita; magari non sapete che prima che voi iniziaste a studiarlo coi più raffinati e moderni strumenti critici lui vi avrebbe già smontato rimproverandovi, all’inizio della Vita di Alberto Pisani, di ammuffire sulla “voluminosa sèrie delle gramàtiche, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi il montare a cavallo”.

giovedì 2 settembre 2010

Carlodosseide, parte prima. Dovete sposarvi? Vuole presentarvi i genitori? È sconosciuta ma vi sorride in metropolitana? Prima di fare qualsiasi mossa mandate a memoria questa lettera che Carlo Dossi disperato spedì all’amico Gigi Perelli nel 1873: “O che le donne sono tutte furfanti o che le furfanti capitano proprio a me o che mi diventano tali, a contatto, non dico della bontà, ma della dabbenaggine mia. Dopo la Ester, splendida oca, malvagia per cretinismo, ecco l’Amelia, la ragazza pulita, che studia l’amore sull’abaco, e volendo accasarsi, cerca prima del cuore, la casa, anzi le case, e dopo lei, una serva, l’Erminia, che imbandisce ai padroni gli avanzi della cucina e fà la ritrosa agli abbracci ma non ai ventagli e alle sciarpe”. La prossima volta che vi propongono una quota rosa, pensate a quante Ester quante Amelie e quante Erminie possano finirci dentro.

mercoledì 1 settembre 2010

Santo cielo, è proprio vero che lo spirito soffia dove vuole. Uno va in cerca della definizione più efficace del Cattolicesimo all’italiana, questa curiosa religione un po’ démodé un po’ self-service, di praticanti non osservanti e credenti non convinti, di preti atei e fedeli che non s’inginocchiano, di moralismo d’accatto e buoni sentimenti alla rinfusa – e dove la trova? In un romanzo di formazione sacerdotale? In un’inchiesta sociologica coi controturiboli? In un saggio Mondadori di Vito Mancuso? None, la rinviene fra una tetta e l’altra a metà di Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda. Un fratacchione chiede: “Dimme un po’, e te sei rincongigliato cor Signore?”; e Pippo Franco risponde: “Lo saluto! Ma nun ce parlo”.

martedì 31 agosto 2010

Ma vi pare? Più vado in giro per Oxford più incontro degli originali. L’altro giorno non sapevo come fare a passare la giornata (festiva) e per ripararmi dalla pioggerellina ero entrato in una libreria; me ne fregava poco, d’altronde, perché leggo solo libri in Italiano – quelli in Inglese li lascio alle professoresse di scuola media, ho già dato in altri tempi. Più che le pagine guardo dunque le copertine e le clienti, quindi non presto attenzione a uno stravagante che mi si avvicina porgendomi cinque romanzi e farfugliando qualcosa riguardo alle firme. Lì per lì non capisco perché questi voglia il mio autografo su cinque libri che non solo io non ho scritto ma che forse lui non ha nemmeno comprato, col rischio che poi mi ritrovi a pagarli; il mattoide comprende il mio disorientamento, indica il nome sconosciuto sulla copertina e spiega che esso è lui. Voglio comprare i suoi libri? Lui è in libreria apposta per autografarli. O Dio santo, penso, chi è l’imbecille che comprerebbe romanzi a caso solo perché un bischero scrive il suo nome sulle pagine di rispetto? Una coppia inglese di mezz’età si avvicina a chiedergli quanto costano, similia cum similibus.

lunedì 30 agosto 2010

Scusate se torno sull’argomento ma a furia di leggere ho scoperto che le due burinelle ostiensi, quella della bira e del calipo, non sono roba nuova ma erano state inventate cinquanta e passa anni fa da Alberto Moravia, nel più bello dei suoi potabili Racconti romani (si intitola Il Provino e si piazza a pari merito con La Ciociara). Le due ragazze non si chiamano Deborah e Romina ma Iris e Mimosa. Le corteggiano due spiantati che fingono di essere un gran signore e un produttore cinematografico, per essere all’altezza delle due che risultano figlie di un ingegnere di grido e sono appena tornate dalle ferie a Viareggio. Costoro insistono per ottenere un provino ma il finto produttore, che non sa come cavarsela, controbatte che per il prossimo film gli servirebbero due burine, mica due figlie di ingegnere. Al che Iris e Mimosa sbottano: ahò, argomentano, abbiamo finto di essere ingegneresse ereditarie ma in realtà siamo burine dalla testa ai piedi. Frase immortale: “Macché Viareggio, abbiamo preso la tintarella a Ostia!”. A quel punto i maschietti rivelano di essere degli spiantati e tutti si godono meglio la giornata facendo ciò che è, così come quest’estate le due burinelle ostiensi hanno irritato soltanto chi ignora che non vale fingere.

venerdì 27 agosto 2010

Ho letto il Solus ad solam di d’Annunzio, ossia il suo diario in onore di un’amante di cui non mi va di ricordare il nome, tanto per noi sono tutte uguali nell’essere tutte inadeguate alla statura (non fisica s’intende) del grand’uomo; a parte la Duse, ci mancherebbe, che secondo la leggenda a storia finita respinse il vate inginocchiato a ripeterle “Voi non sapete quanto vi ho amata” col memorabile one-liner: “E voi non sapete quanto vi ho dimenticato”. Ho letto il Solus ad solam e vi ho trovata scritta dietro ogni riga la disperazione dell’uomo troppo grande per le donne che incontra e ho lasciato su ogni pagina il rimpianto per il gran traffico di bigliettini dolci o sconci o furiosi che per secoli ha sopperito all’impossibilità di parlare di persona con l’amata. Ora ci si nasconde per mandare mail e messaggini ma è solo fumus diaboli perché un bel giorno tutto verrà cancellato e fra cent’anni nessuno potrà sapere se un uomo è stato all’altezza delle sue donne o viceversa.

giovedì 26 agosto 2010

Mi dicono dall’Italia che, beato me, io sono a Oxford per la carriera. Mi dicono pure che in Italia c’è un clima da non sopportare: trenta, quaranta, cinquanta gradi di canicola opprimente; beato me che sono a Oxford dove per miracolo è già autunno inoltrato, dove piove forte da due giorni ininterrotti e ci vuole il maglione pesante. Io, va bene, a Oxford ci resto e magari cerco pure di far carriera; ma se putacaso non riesco, se putacaso finito quest’altro anno accademico mi ritrovo punto e a capo, se putacaso domani muoio investito da una carovana di ippopotami, chi me lo ridà il caldo, chi me lo ridà il sole, chi me la ridà l’estate?

mercoledì 25 agosto 2010

Quando inizia la scuola? Chi lo sa, non la frequento più dagli anni ’90. In compenso ritengo che per capirla possa bastare leggere Edmondo De Amicis – ovviamente non Cuore ma Amore e ginnastica. La storia verte su tutt’altro ma vi è incastonato nel mezzo il lamento del provveditore, che riproduco per intero: “E non dico del resto, dei lamenti senza fine che ci piovono dalle famiglie per una votazione ingiusta, per un rimprovero non meritato, per la scuola troppo fredda o troppo calda, per le tossi, per gli orecchioni, per le malattie d’occhi. E poi, signore offese per una parola, maestre che si credono perseguitate, direttrici… queste benedette direttrici, che son come le madri badesse dei tempi andati… E aggiunga un ginepraio di questioni per ogni esame di concorso, per ogni trasferimento, per ogni distinzione, per ogni castigo… Immagini le difficoltà, mio caro signore, immagini la delicatezza, immagini il tatto che ci vuole”. Era il 1892, è stato il 1992, sarà il 2092.

martedì 24 agosto 2010

In quest’epoca di Balotelli gonfiati, in cui basta mezzo goal per conseguire ore e ore di replay e titoloni per giorni e giorni, fa piacere un dettaglio della vita di Pepìn Meazza che ieri avrebbe compiuto cent’anni esatti. Adolescentello o “Balilla” ancora, come da perfido soprannome appioppatogli dal capitano dell’Inter, alla sua prima partita segnò due goal uno più bello dell’altro. Al che, uscendo dal campo, il capitano medesimo gli disse: “Giusella, sei in gamba”. Tutto qui: tre parole che valevano più di mille interviste a Controcampo. Viene da commuoversi a immaginare la contenuta emozione del Balilla; una commozione superata solo dalla delicata notizia, emersa sempre ieri sul CorSera, che la moglie di Livio Berruti custodisce amorevolmente in naftalina la tuta olimpica che gli lasciò Wilma Rudolph.

lunedì 23 agosto 2010

Consiglieri comunali di Oxford, che vi si rimpicciolisca l’uccello (e se siete femmine, pure). Non ho fatto in tempo a cambiare casa che subito ho trovato la vostra richiesta di novecento e rotte sterline di tasse municipali. In cambio, specificate, mi assicurerete servizi pubblici da capogiro. Io vivo qui da più di un anno ed è bastato per capire come funzionate: con le mie novecento sterline e rotte cosa farete? Ripulirete il centro dagli straccioni ubriachi, mazzolerete un po’ di adolescenti molesti? Farete passare i pullman secondo gli orari teorici? Manderete addirittura i bidoni per la raccolta differenziata che nella mia vecchia casa avevo richiesto a febbraio e che a luglio non erano arrivati ancora? None, specificate, fornendomi una ricca lista di servizi alternativi dei quali non mi può fregar di meno in quanto, essendo dipendente dell’università, usufruisco delle sue infrastrutture e non di quelle per i vostri concittadini deformi e ottusi. In compenso mi fate sapere che aggiungendo una piccola somma all’imposta comunale potrò ottenere l’asilo nido per mio figlio. Be’, figli non ne ho e se li avessi non avrei la minima intenzione di farli crescere in questo cesso di città: vivere a Oxford è il migliore anticoncezionale in circolazione. Consiglieri comunali di Oxford, io le novecento e rotte sterline ve le do; che vi vadano tutte in medicine e che siano medicine inutili.

sabato 21 agosto 2010

Tomizzeide, lato B. Fulvio Tomizza, La miglior vita è un volume tracagnotto, sfora le trecento pagine e anche in brossura presenta un dorso adatto a venir suonato sulle tempie dei miscredenti. Lo farò senza meno al prossimo che addossa a Dio le colpe dei preti. Prima però gli leggerò due frasi fingendo di averle pescate a caso: “Lo sconforto mi spingeva a cercar Dio sulla croce più alta dell’altare, al di là della sua persona”. E giù la prima volumata. “Sentivo di servire la Chiesa e con essa di servire la comunità, non i preti destinati tutti a passare”. E giù la seconda, se è ancora in piedi.

mercoledì 18 agosto 2010

Tomizzeide, lato A. Fulvio Tomizza, per chi voti? Per nessuno ormai, sei morto al morire del secolo. Io non andrò a cercare le tue impronte digitali sulle vecchie schede elettorali, potresti avere messo croci chissà dove e invece da La miglior vita ho ricavato due delle frasi più di destra che io abbia mai sentito (sottolineo: io, non Che Guevara). La prima è una verità verticale e definisce la storia: “È destino che la nostra vita impoverisca rispetto a quella del padre”. La seconda è orizzontale e racchiude l’eternità: “Ogni rapporto fra uomo e donna si chiama amore”.

martedì 17 agosto 2010

Francesco Cossiga magno, beato te che sei fuori dalle misere pastoie del tempo: hai avuto una vita piena e adesso puoi riposarti con buona coscienza. Io però non posso trattenermi dal fare due calcoli. Allora, tu eri diventato presidente della repubblica nel 1985 e Giorgio Napolitano nel 2006. Quando eri entrato al Quirinale avevo cinque anni, quando c’è entrato Napolitano ne avevo ventisei perché sono nato nel 1980. Però Napolitano è del 1925 e tu eri del 1928, vale a dire di tre anni più giovane. Come viene che quando tu sei uscito dal Quirinale avevo dodici anni e quando ne uscirà Napolitano ne avrò trentatre? Siamo rimasti fermi a ventuno anni fa? Com’è che io invecchio e l’Italia non cresce?

venerdì 13 agosto 2010

Certo che se nel giro di vent’anni uno, in linea meramente ipotetica, venisse eletto segretario di un piccolo partito, lo sciogliesse per fondarne uno più grande, si alleasse con un partito più grande ancora, vincesse le elezioni, diventasse ministro, chiedesse continuamente al proprio stesso governo di lavorare un po’ meglio, auspicasse la tattica delle tre punte, perdesse di conseguenza le elezioni successive, litigasse con il suo principale alleato, lo accusasse di essere alle comiche finali quando questi fonda un nuovo partito sempre più grande, sciogliesse il proprio partito per confluire in quello ancora più nuovo e ormai grandissimo, stravincesse le elezioni, venisse investito di notevole responsabilità istituzionale, criticasse il governo, criticasse il partito, criticasse soprattutto il capo di governo e partito, si lamentasse quando viene espulso dalla compagine che lui stesso ha cofondato, non si dimettesse dalla propria carica istituzionale, creasse dal nulla una nuova formazione politica che siede in parlamento senza essere mai stata votata da nessuno, sottraesse la maggioranza alla coalizione vincitrice delle elezioni, si alleasse con l’opposizione per dar vita a un nuovo governo e magari accettasse di presiederlo lui, allora, sempre in linea meramente ipotetica, sarebbe proprio un bel puttano della politica.

giovedì 12 agosto 2010

Il genio di Ennio Flaiano supera la scansione del tempo e germina nella produzione dell’aforisma preventivo. Tutta la bolsa retorica che ha avvelenato i Mondiali di quest’anno col ritornello del riscatto di un intero continente, coi luoghi comuni su suoni e colori, con il filantropismo colonialista che contraddistingue le coscienze ottuse, era già stata demolita in quattordici parole con sessantatre anni d’anticipo, nel capitolo secondo di Tempo di uccidere che è del 1947: “L’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza”.

mercoledì 11 agosto 2010

Santa Chiara, io sono tuo cliente e voglio il trattamento. La prossima volta che sento qualcuno chiedermi a cosa servano le monache di clausura, e cosa le tengano a fare a pregare e basta quando c’è bisogno di suore missionarie che curino gli ammalati e provvedano ai bisognosi, posso sferrargli un cazzotto in piene gengive? O preferisci direttamente scendere tu dal cielo e spiegare loro che il beneficio della preghiera non si misura in termini di utilità immediata? Che dici? Taci? Non meritano risposta?

martedì 10 agosto 2010

Pare che il cardinale Newman avesse sempre una buona parola per coloro che intendessero pensare di testa propria. “Imbecilli”, avrebbe detto se non fosse stato né cardinale né inglese, “quando per credere agli invisibili cromosomi dovete fidarvi degli scienziati vi sentite intelligenti; quando per comprare un libro incellofanato vi fidate delle recensioni vi sentite intelligenti; quando vi vengono propinati dati incontrollabili sulla crescita economica, sul mercato del lavoro e sull’animaccia vostra vi sentite intelligenti; e quando un prete tenta di convincervi dell’evidente esistenza di Dio, tutt’a un tratto vi sentite stupidi?”. Certo che se parlo così non mi beatificheranno mai.

lunedì 9 agosto 2010

Dal volume di Roderick Strange, John Henry Newman: una biografia spirituale (Lindau), apprendo che di mestiere Newman originariamente non doveva fare né il prete né il cardinale né tampoco il beato: si era iscritto all’Oriel College di Oxford per diventare avvocato. La laurea conseguita con pessimi voti, nonostante fosse uno studente brillante, gli fece cambiare idea e prese i voti. Se i professori dell’epoca avessero avuto la manica larga, quest’anno il Papa non andrebbe a beatificare nessuno in Inghilterra. Se i professori italiani avessero la manica più stretta, avremmo qualche avvocato in meno e qualche sacerdote in più.

venerdì 6 agosto 2010

È stata l’estate del tipo che incontra la tipa che l’ha mollato (o che non gliela smolla) e fra una cosa e l’altra l’accoltella per benino. Poiché se ne sono verificati continui casi senza distinzione di censo, nazionalità o latitudine, propongo una soluzione che non sarà ideale dal punto di vista etico ma di sicuro successo dal versante politico: bisogna istituire i Fornicalia. Bisogna insomma istituire una settimana di utilità pubblica nel corso della quale chiunque, maschio o femmina, possa godere per una volta dei favori sessuali di chiunque scelga. Ora, voi accoltellereste la vostra ex fidanzata sapendo che il mese dopo potete portarvi a letto Melita Toniolo? Indubbiamente Melita Toniolo avrebbe una settimana piuttosto intensa, e questa è una controindicazione; ma, per il bene della società, questo e altro. Nel giro di un paio d’anni perfino la sua lista resterebbe sguarnita perché a lungo andare ci si annoia e si preferisce fare altro. Nel giro di cinque anni frotte di signorine smaniose di farsi accoltellare per finire sui giornali lasceranno i propri fidanzati più volte al dì, infinite vergini andranno a caccia di giovanotti sconosciuti ai quali negarsi a priori, sentendosi tutte immancabilmente rispondere: “Che me ne frega? Basta che c’è la Domenica Sportiva”.

giovedì 5 agosto 2010

È stata l’estate della rave parade, del love party, di tutti i termini turchi utilizzati per indicare una masnada di fessacchiotti che si riuniscono per saltellare in una brutta città tedesca e di tutte le perifrasi in giornalese sfruttate fino al midollo per evitare di avanzare l’unica considerazione ragionevole: ossia che, con tutto l’accapigliarsi per pochi posti di lavoro di infiniti giovani europei, senza possibilità di distinguere gli scemi a prima vista, un po’ di selezione naturale non guasta.

mercoledì 4 agosto 2010

È stata l’estate di Gemma Gaetani, anche se non potete saperlo, e del suo Elogio del tradimento edito da Vallecchi col geniale sottotitolo “conquista, tradisci, nega!” – a mezza strada fra il “difendi, conserva, prega!” di Pasolini e il “produci, consuma, crepa!” che si legge ancora sui muri delle poche città convinte di essere rimaste agli anni ’70. Si tratta di un capolavoro in incognito, un volumetto preziosissimo che cela fra le sue pagine lievi verità insindacabili: contro gli omosessuali che “reclamano i diritti civili” invece del “diritto all’orgia in pubblico”; contro quelle che credono all’amore eterno e alla perfezione proprio fidanzato (uso il femminile perché lo fanno solo le donne; gli uomini fingono con classe), senza considerare che “nel momento in cui ci comportiamo come se il nostro partner fosse nostro Dio, prima di tutto contravveniamo a quel primo comandamento”; contro quelli che infiorano la sovrastruttura sentimentale dimenticando che “l’amore non è che una scusa per copulare” (lo dice anche Trilussa, che gode di una delle migliori piazze di Roma). Ma poiché chiaramente, se siete ammogliati o accoppiati, non potete dire in giro queste verità inconfutabili con altrettanta soave leggerezza, la stessa Gemma Gaetani vi dà il permesso di mentire, fingere, tradire dicendo che per voi e per voi soli è stata l’estate del Compendio di meccanica quantistica e geometria proiettiva astratta per principianti del dottor Eugene Brown Haan.