giovedì 4 marzo 2010

L'uomo wafer

Se c'è una cosa che detesto è scrivere sui libri (o sottolinearli) ma contemplo un'unica eccezione. Se si tratta di un volume preso in prestito da una biblioteca e viene riscontrata una nozione sbagliata, è il caso di intervenire con un leggero tratto di matita onde evitare che generazioni successive di lettori (se mai ci saranno) cadano vittime dell'imprecisione, del refuso e della propria ignoranza che impedisce loro di capire che un nome è messo al posto di un altro o che un numero è sbagliato. Ragion per cui, su una vecchia edizione Feltrinelli de Il Principe e I Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio avendo trovato segnalata una traduzione francese di Amelot de la Houssaye del 1863, ho ritenuto opportuno ristabilire storia cronologia e matematica facendo una ics sulla cifra e annotando a margine "1683". Spero che le generazioni future degli oxoniensi più ottusi mi siano grate per averle preservate dal sostenere nei loro saggi che l'Anti-Machiavello di Federico II di Prussia, pubblicato nel 1740, era basato su una traduzione che doveva apparire più di cent'anni dopo.

Non era invece un errore di stampa quello che ho trovato citato dall'introduttore Giuliano Procacci quando viene a raccontare di quando i gesuiti di Ingolstadt, a metà XVI secolo, misero al rogo l'effigie di Machiavelli "quoniam fuit homo vafer ac subdolus, (...) cacodaemonis auxiliator". In Latino la v e la u sono indistinguibili come per Martufello e stando ai dizionari più forniti uafer significa una serie di bei complimenti che potete facilmente immaginare se pensate alle parole che uscirebbero dalla bocca di qualcuno che desse fuoco a un manichino tale e quale a voi.

In Germania, in Francia, in Inghilterra Machiavelli non è stato capito ed è stato condannato a diventare l'incarnazione della propria parodia. In Italia si tende a non leggerlo e io medesimo, fino a pochi giorni fa, conoscevo i Discorsi sopra la Prima Deca solo per sentito dire. Andrebbero resi lettura obbligatoria  nelle scuole, al posto per esempio di Vincenzo Cerami. Il Machiavelli dei Discorsi sarebbe il politico per il quale voterei immantinente in quanto
1) realista: "è necessario a chi dispone una republica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei";
2) monarchico: "mai o di rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene (...) se non è ordinato da uno";
3) profeta della camorra e di Tangentopoli: "nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte corrotte";
4) psicologo: "la natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa: talché essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede";
5) accusatore di ogni dipietrismo: "quegli magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà";
6) propugnatore della Chiesa militare: "e benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il Cielo, nasce più sanza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l'ozio e non secondo la virtù. Perché se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo ed onoriamo";
7) severo critico del basso clero: "abbiamo adunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo: di essere diventati sanza religione e cattivi";
8) nemico del compromesso molle: "un governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti, o con beneficarli in modo che non sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di mutare forma";
9) favorevole all'uomo forte: "a volere essere ubbidito è necessario saper comandare";
10) scettico riguardo alle quote rosa: "come per cagione di femine si rovina uno Stato".

Già non l'abbiamo capito in Italia, figuriamoci se lo capiscono all'estero. Uno dei momenti più commoventi della mia vita è stato quando sono tornato a Modena, lo scorso settembre, e ho avuto l'onore di presentare a Sassuolo la lezione sui Discorsi tenuta da Maurizio Viroli, professore a Princeton e autore de Il sorriso di Niccolò: storia di Machiavelli. Fu talmente trasportante che alle tre del pomeriggio, in una piazzetta con il sole a picco, chiosai le sue parole dicendo: "Leggete Machiavelli, amate la patria", sicuramente trascinato dall'implicita considerazione che patrioti quantunque vivevamo all'estero sia io sia lui. Machiavelli fu invece straniero in patria, quando nel 1513 fu rimosso dalla carica di Segretario Fiorentino e dopo breve prigionia si scoprì troppo vecchio per poter coltivare alcuna carriera politica. Fu allora che decise di scrivere e grazie a questo posso chiudermi in camera a leggerlo con lo stesso atteggiamento con cui lui rifuggiva alla solitudine, all'amarezza e al fraintendimento di contemporanei e posteri immergendosi nei classici: "e non sento per quattro ore di tempo la noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro". La sdegnosa delusione di Machiavelli che già previde di non essere capito in patria e altrove mi giunge postmoderna, mediata dall'esclamazione di Totò ne I due colonnelli: "Sono rimasto solo, solo, contro tutta la Gran Bretagna!".

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