giovedì 30 settembre 2010

Carlodosseide, parte sesta. Parlandoci sempre più chiaro, meno ancora della moglie avreste bisogno di un arredatore. Se dovete star da soli, perché consentire a un estraneo di ficcare le mani nelle faccende vostre? Estremizzando, con Carlo Dossi, “per un uomo che non conosce un parente, che non incontrò mai un amico, che non ha tampoco amorosa, conta molto la càmera”. Per capire se la vostra vita è felice, chiudete gli occhi, allungate la mano e scoprite se le vostre cose sono ancora lì dove le avevate lasciate ieri sera.

mercoledì 29 settembre 2010

Carlodosseide, parte quinta. Allora, parliamoci chiaro, volete scrivere o volete sposarvi? Le due cose non si escludono a priori ma a posteriori sì, lo dimostra un’invettiva di Carlo Dossi in Goccie d’inchiostro ove rimprovera: “Eppòi tu se’ nato agli studii. Vògliono pace gli studii… Dove trovare mai pace fuorché in solitùdine? Distratto dalle quotidiane meschinìssime cure della famiglia, con un occhio alla pèntola aspettata dai tuòi figlioletti e l’altro alla tua letteraria coscienza, avresti tutta la vita, per dir così, loscheggiato, di te insoddisfattissimo”. Pensate se oltre a una moglie aveste anche un lavoro, sarebbe una tragedia.

martedì 28 settembre 2010

Ho letto Mia cugina Rachele in una tascabilissima edizione Oscar Mondadori del 1966 (prezzo: 350 lire). Comoda da scorrazzare su aerei e treni fra Inghilterra e Italia, l’edizione nasconde un pregio ulteriore nella biografia dell’autrice in seconda di copertina (per gli studenti dei master in editoria cartacea e multimediale: la seconda di copertina è la facciata che si trova sul retro della copertina colorata che vedete esposta nell’angolo-libri di Coop ed Esselunga). Daphne Du Maurier, vi si illustra, “attualmente vive a Menabilly in Cornovaglia e studia i grandi autori del passato”. Ho immaginato Daphne Du Maurier ancora viva, ancora intenta a studiare l’infinita mole di pagine lasciate in eredità dai grandi autori del passato e per un istante mi sono trasferito dal volgare 2010 all’eternità della letteratura.

lunedì 27 settembre 2010

Ormai Gianfranco Fini sa che il problema non è la casa di Montecarlo o la sua permanenza a Montecitorio. Il suo problema è che non è più lui. Se n’è reso conto lui stesso riguardando i dieci minuti di video lasciati su internet: Fini vi appare seduto in un ambiente dimesso, non confacente alla terza carica dello Stato, dietro di lui i libri sono in disordine, addosso ha una giacca troppo larga (forse sottratta a Fabio Granata), alla cravatta s’è fatto un nodo storto, legge da un gobbo che cerca con gli occhi incerti, ansiosi, timorosi di dire la parola sbagliata, e quando azzarda un’esclamazione la fa suonare retorica e indotta come se dentro di lui si fosse infilata una mano (la mano di Carmelo Briguglio?) a sancirne movenze indesiderate come una marionetta. Ve lo ricordate Fini venti, quindici, dieci anni fa? Io sì: parlava sempre in piedi, diritto e incrollabile, sempre a braccio, ricordando a memoria e quando non ricordava improvvisando, toccando l’asta del microfono quando il discorso si faceva più sentito, cercando con lo sguardo l’interlocutore o la telecamera, non recalcitrando di fronte all’opportunità della battuta pensata d’emblée. È la maledizione della presidenza della Camera, che trasforma e degenera: la Pivetti è diventata brutta anatroccola su Italia 1, Violante opinionista retrogrado, Casini non lo sa nemmeno lui, Bertinotti niente. Fini è diventato così, uno che prima faceva comizi infuocati e ora mette i video su youtube come un adolescente; se ne accorge, ci soffre e cerca di dire che la colpa è altrui. D’altronde c’è da capirlo, è passato da Almirante a Bocchino.

venerdì 24 settembre 2010

Cos’è il genio? In Amici miei rispondeva Philippe Noiret (o forse Duilio Del Prete, o forse Ugo Tognazzi): fantasia, intuizione, decisione, velocità di esecuzione. A Pavia, in piazza Vittoria e più precisamente nella libreria Il Delfino, io sto parlando col padrone mentre entra un’universitaria e chiede al commesso l’ultimo libro di Fabio Volo. Il commesso si perde d’animo e guarda il padrone. Il padrone tentenna e dice: “Non c’è, non credo che ci sia”. Io entro a gamba tesa e suggerisco: “Magari prova a cercarlo in Feltrinelli”.

giovedì 23 settembre 2010

A Modena, su Viale Monte Kosica, mentre trascinavo la mia valigia verso la stazione una ragazzina che avrà avuto sedici o diciassette anni e alle dieci di mattina già andava a spasso a braccetto con due amiche sue, appena le ho superate mi ha urlato dietro: “Anch’io voglio viaggiare: mi porta con lei?”. Peccati di gioventù; alla sua età vorrebbero partire tutti, perfino io. Mi sono voltato limitandomi a sorridere ma avrei voluto risponderle dal cuore: “Io preferirei restare: tua madre cucina bene?”.

mercoledì 15 settembre 2010

Io starò via per qualche giorno ma tu nel frattempo converti, per favore, quest’isola di

martedì 14 settembre 2010

Luigi Gualdo, mi hai deluso. Tu d’altronde te ne fotti, essendo già morto nel 1898; ma che bisogno c’era di scrivere un romanzo così così come Decadenza? Per carità, di romanzi appena potabili è pieno il mondo e uno di più non guasta la patria favella – tu d’altronde t’eri lanciato anche a scriverne in francese, lingua che posso giudicare fino a un certo punto, mais passons. Non sapevi che un giorno assieme al tuo romanzo sarebbe stata pubblicata una nota biografica? Ne risulta che eri ricco, vivevi a Parigi, vestivi all’ultima moda, frequentavi i salotti buoni, donne a non finire, gli intellettuali ti ammiravano, i poeti ti dicevano volentieri amico, d’Annunzio perfino ti aveva immortalato in rime disinvolte: “Quando Luigi Gualdo / a cui su’l rilucente / petto mirabilmente / folgora uno smeraldo / le sue parole lente / ne la barba di skaldo / lascia fluire, al caldo / odor del the virente, / affascinati stanno / a udirle i jockey rossi / dai lunghi volti equini / e di soave affanno / a quel dire commossi / tremano i tavolini”. Che l’hai scritto a fare un romanzo? Se avevi già tutto quel che merita, perché questa faticaccia inutile?

lunedì 13 settembre 2010

Umberto Eco, fatti ricrescere la barba. Quando ce l’avevi ancora scura, nel 1977, scrivevi sul Corriere della Sera: “Dire che Radio Alice sia stata la causa di episodi di rabbia giovanile è come dire che il Festival di Sanremo è la causa della stupidità nazionale: significa avere una fiducia quasi magica negli strumenti di comunicazione di massa”. Avevi ragione. Sarebbe come dire che Berlusconi vince le elezioni perché possiede tre canali televisivi.

venerdì 10 settembre 2010

Carlodosseide, parte quarta. A caval donato non si guarda in bocca ma alla vostra fidanzata, se permettete, sì. In tre momenti sparsi in altrettanti racconti di Goccie d’inchiostro (sì, con la “i” frammezzo) Carlo Dossi compone un piccolo manuale d’amore gastronomico. Primo movimento, la scelta dell’amata: “Da che reggo il collegio, non mi è mai capitata una fanciulla più ghiotta. Va in seconda a ogni cibo. E sì che tra i pasti non fa che spazzare scàtole di canditi, e pasticche e cioccolatte e mentini! Jeri di là, ad esempio, mi ha furato e vuotato il mastelletto della mostarda. Poi, ride sempre, di tutto”. Secondo movimento, il rifiuto delle aristocratiche inappetenti, che vedendovi mangiare più di loro si considereranno automaticamente superiori senza considerare che “disgraziatamente, per quanto poco si mangi – ahimè! – non tutto va in sangue, ed anche le più vaporose fanciulle… (dove troverò io espressione che non offenda le mie gentili lettrici, tanto caste d’orecchio?...) sono obbligate di fare da sé ciò che non possono far fare dalla lor cameriera. Il che, per la forma, è il capolavoro della infernale malizia: dìgitus diàboli est hic; benché io ci ravvisi piuttosto quella sapienza divina che mette tutti nel mondo per un’ùnica strada”. Terzo movimento, il criterio a monte della selezione: “Amore vuol polpe”.

giovedì 9 settembre 2010

Carlodosseide, parte terza. Carlo Dossi ce l’aveva coi preti, ce l’aveva ancor più coi monsignori, ce l’aveva a maggior ragione coi cardinali, e col Papa non ne parliamo nemmeno di quanto ce l’avesse. Questione di tempi e risorgimenti, presumo, di Stati della Chiesa e brecce di Porta Pia. Però il Signore l’aveva dotato di un cervello e, sempre per la solita questione dello Spirito che soffia dove vuole, nel 1873 gli era scappato di concludere un capitolo de Il Regno dei cieli con uno slogan che valeva un’enciclica sana: “Riconciliàtevi al Cielo. Siate egoisti davvero”.

mercoledì 8 settembre 2010

Si può giudicare la vita di un uomo dal titolo della sua autobiografia? Proviamo. Bisogna riconoscere che Laurent Fignon è stato una persona molto più interessante di Tony Blair: questi ha intitolato la propria autobiografia A Journey (“un viaggio”: nemmeno “il viaggio”, com’era stato anticipato; gli è improvvisamente venuta la smania dell’understatement sugli articoli), quegli invece l’aveva intitolata Nous étions jeunes et insouciants, “eravamo giovani e incoscienti”. La cosa divertente, se ce n’è una, è che essendo stati rispettivamente un ciclista e il leader del New Labour avrebbero fatto meglio a scambiarsi i titoli.

martedì 7 settembre 2010

Titolone del Guardian di ieri, su due pagine: “Avere fede: quant’è nero il futuro del Cattolicesimo?”. Sottotitolone: “Dieci giorni prima della visita del Papa in Gran Bretagna, le posizioni del Vaticano su argomenti quali l’aborto, l’omosessualità e il sacerdozio femminile sembrano sempre più distanti dalla realtà del mondo contemporaneo”. Non so voi, ma mi sembra che il titolone e il sottotitolone si contraddicano ingenuamente: finché permangono le attuali visioni su questi temi, il futuro del Cattolicesimo è roseo. La vedo piuttosto nera, invece, per il mondo contemporaneo.

lunedì 6 settembre 2010

Si può vivere a Gravina? Camillo Langone mi segnala un passo di Cesare Brandi, il cui Pellegrino di Puglia è stato scritto cinquant’anni fa ma primeggia nella lista dei libri da comprare alla mia prossima calata in Italia: “C’è un monumento, una fontana senz’acqua, una strana torre dell’orologio, come se si fosse in Turchia. Ma soprattutto c’è il semaforo. Mi dovetti accorgere che era, questo semaforo, il primo cittadino di Gravina: sempre che si domandasse come fare ad andare qui o là, era il semaforo a cui con malcelato orgoglio, ci rimandavano anche se non aveva nulla a che fare con la direzione da prendere. Ma Gravina oltre alla torre dell’orologio e al semaforo, ha un albergo, e una trattoria, bolognese per giunta. Insomma c’è di che viverci”. Ora è rimasto solo il semaforo. L’orologio della torre, che è vicino a casa mia, sovente segna le dieci e venti indipendentemente dall’orario. Al posto del grande albergo in periferia, presumo il Peucetia, sono proliferati i bed & breakfast nel centro storico senza considerare che metà della popolazione locale non sappia cosa significhi e l’altra metà non sappia pronunciarlo. La trattoria bolognese non l’ho mai sentita; s’è scorporata in infinite trattorie locali in cui il conto muta secondo troppe variabili che non ho ancora colto. Quasi tutte chiudono entro un anno dall’apertura; ciò non dissuade dal sorgere di nuove al loro posto o altrove. In una strada ad alto scorrimento avevano aperto il primo lounge bar, quest'estate; sono sicuro che entro Natale non lo ritroverò più.

venerdì 3 settembre 2010

Carlodosseide, parte seconda. Vi siete iscritti all’università? Avete scelto lettere, non importa se antiche o moderne? Ignoranti, magari non sapete nemmeno chi è Carlo Dossi e che ognuna delle sue tante pagine meriterebbe riflessione approfondita; magari non sapete che prima che voi iniziaste a studiarlo coi più raffinati e moderni strumenti critici lui vi avrebbe già smontato rimproverandovi, all’inizio della Vita di Alberto Pisani, di ammuffire sulla “voluminosa sèrie delle gramàtiche, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi il montare a cavallo”.

giovedì 2 settembre 2010

Carlodosseide, parte prima. Dovete sposarvi? Vuole presentarvi i genitori? È sconosciuta ma vi sorride in metropolitana? Prima di fare qualsiasi mossa mandate a memoria questa lettera che Carlo Dossi disperato spedì all’amico Gigi Perelli nel 1873: “O che le donne sono tutte furfanti o che le furfanti capitano proprio a me o che mi diventano tali, a contatto, non dico della bontà, ma della dabbenaggine mia. Dopo la Ester, splendida oca, malvagia per cretinismo, ecco l’Amelia, la ragazza pulita, che studia l’amore sull’abaco, e volendo accasarsi, cerca prima del cuore, la casa, anzi le case, e dopo lei, una serva, l’Erminia, che imbandisce ai padroni gli avanzi della cucina e fà la ritrosa agli abbracci ma non ai ventagli e alle sciarpe”. La prossima volta che vi propongono una quota rosa, pensate a quante Ester quante Amelie e quante Erminie possano finirci dentro.

mercoledì 1 settembre 2010

Santo cielo, è proprio vero che lo spirito soffia dove vuole. Uno va in cerca della definizione più efficace del Cattolicesimo all’italiana, questa curiosa religione un po’ démodé un po’ self-service, di praticanti non osservanti e credenti non convinti, di preti atei e fedeli che non s’inginocchiano, di moralismo d’accatto e buoni sentimenti alla rinfusa – e dove la trova? In un romanzo di formazione sacerdotale? In un’inchiesta sociologica coi controturiboli? In un saggio Mondadori di Vito Mancuso? None, la rinviene fra una tetta e l’altra a metà di Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda. Un fratacchione chiede: “Dimme un po’, e te sei rincongigliato cor Signore?”; e Pippo Franco risponde: “Lo saluto! Ma nun ce parlo”.