martedì 19 ottobre 2010

Sarà che della ragazza uccisa non m'importa niente, né tampoco dello zio, della cugina e del bisnonno; sarà che non mi sembrano eventi da meritare curiosità né persone alle quali dedicare tempo; fatto sta che salto a pie' pari tutte le pagine di quotidiano e le mezz'orate di tv che s'imperniano su questa o altra amenità di cronaca. Preferisco leggere un bel romanzo, a patto che non rechi il sottotitolo "una storia vera". Questi italiani si sa come sono: perché adocchino un libro ci vuole un festival letterario, perché lo comprino ci vuole una Feltrinelli, perché lo leggano ci vuole un miracolo; e il miracolo, nello specifico, dev'essere la trasformazione del regno delle idee pure e fantasiose in "storia vera". Vino tramutato in acqua; è già tanto piena di storie vere la vita mia, perché dovrei accollarmene altre per iscritto? Io me li vedo davanti, tutti quelli che mi rimbrottano di passare così tanto tempo sull'empireo dei libri; sono gli stessi che dedicano fervori e neuroni alle pagine di ammazzamenti, come se la cronaca esistesse più della narrativa. E se il ragionamento non è chiaro, ve lo faccio spiegare da Giuseppe Gioachino Belli, uno che certe cose le capiva meglio di Celentano: "Va' in d'una strada, indove sce se fa / cquarche gran scavo in de la terra, e ttu / vederai che ggnisuno sa ppassà / si nun z'affaccia e ssi nun guarda ggiù. // Che conziste sta gran curiosità? / Nun è la terra ggiù come che ssù? / Cosa spera la ggente in quer guardà? / che se scopri er burrò dde Bberzebbù? // Ma cquest'è 'r peggio ch'io nun zo ccapì, / che ssibbè nnun c'è un cazzo da vedé, / invetrischeno l'occhi, e sstanno llì. // Er monno dunque è ppiù cojjon de mé / che mme ne sto su sta loggetta, e cqui / gguardo in cielo le stelle e cquer che cc'è".

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