giovedì 31 marzo 2011

Che la gente sia cretina è comprovato e non c’è bisogno di dimostrarlo ulteriormente, pur tuttavia m’inalbero quando mi accorgo che la più frequente reazione al libro di Costanza Miriano (Sposati e sii sottomessa, Vallecchi) è sul genere: “No, ma dai, cioè non è possibile, hanno veramente pubblicato un romanzo con quel titolo?”. A parte che non è un romanzo, io da tempo sostengo l’utilità di una polizia religiosa che irrompa nelle case facendo improvvise domande di catechismo (“Chi erano i primi tre re d’Israele?”; “Quali sono i sette doni dello Spirito Santo?”; “È stato creato prima il cielo o il firmamento?”). Sarebbe utile a rievangelizzare l’Italia evitando commenti del genere col semplice far notare che si tratta di una citazione da Efesini 5, 22 (“Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore”) e che in caso di eccessivo stupore i giornalisti dalle fauci spalancate non dovrebbero intervistare la Miriano ma direttamente San Paolo. Commentare la Bibbia scrivendo un libro per ogni versetto non è d’altronde una cattiva idea; io mi propongo per 1Corinzi 7, 38: “In conclusione, colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio”.

mercoledì 30 marzo 2011

Piccola digressione calcistica che spiega a mio avviso meravigliosamente il carattere degli italiani quando smettono di essere individui ma si rifiutano di essere popolo (e preferiscono essere gregge o, come diceva Mussolini esasperato perfino lui, "razza di pecore"). Durante la telecronaca di Ucraina-Italia ieri sera, il bravo Bruno Gentili ha fatto notare che l'età media della nazionale di Prandelli è di 26 anni mentre quella che Lippi aveva portato in Sudafrica l'estate scorsa si aggirava sui 29. Perfino isolato a Oxford a guardare la registrazione della partita m'è parso di cogliere l'istantanea reazione degli italiani: "Vedi, Prandelli ha fatto una nazionale giovane mentre Lippi s'è abbarbicato a una nazionale vecchia". Non è vero. Questo è il solito vizio degli italiani che pisciano opinioni basandosi su dati incomparabili: poiché ogni commissario tecnico a inizio della propria permanenza seleziona un gruppo di calciatori e poi se lo porta fino alla fine del quadriennio, abitualmente culminante nel Mondiale, la nazionale oggi ventiseienne che Prandelli porterà (speriamo) in Brasile nel 2014 avrà appunto 29 anni esattamente come quella di Lippi. La maniera in cui Lippi è stato trattato è confacente al popolo che ha partorito e divorato Masaniello e Cola di Rienzo. Quest'estate sulle reti private spopolava la pubblicità di una suoneria intitolata "Vergogna" la cui strofa recitava: "Hai tolto Balotelli / hai tolto anche Cassano"; e un popolo di mufloni annuiva sicuro che con Balotelli, Cassano e anche Amauri l'Italia avrebbe conquistato il Sudafrica e anche la Rhodesia. A parte l'improprietà linguistica (Lippi non ha "tolto" Balotelli perché questi non era mai stato convocato in precedenza; e anche Cassano è stato "tolto" fino a un certo punto, e sicuramente non nel 2010 ma già nel 2006, con ben altri esiti), io vorrei convocare gli autori della suoneria in questione e tutti i pii bovi che gli davano ragione per chiedere loro: avete visto che bella la nazionale di Prandelli? Dov'è Cassano? In panchina con una coperta sulle gambe. Dov'è Amauri? A inseguire la propria ombra nello stadio di Parma. Dov'è Balotelli? Sarà mica colpa di Lippi?

martedì 29 marzo 2011

Ieri non so dove ho letto qualcuno lamentarsi che gli italiani sono un popolo di analfabeti. Non ricordo chi fosse ma non importa; ripetono tutti sempre le stesse cose. Chiaramente costui non faceva menzione di libri, in quanto parlava dei processi a Berlusconi, ma metteva in diretta correlazione il fatto che gli italiani leggano poco e niente con l'eventualità che Berlusconi continui a essere rieletto (oppure, non si capiva, che continui a venire bene o male assolto). A me, com'è noto, Berlusconi non interessa. M'interessa invece chiedermi: ma vivono nelle case di marzapane costoro che a ogni pie' sospinto ripetono quant'è bello leggere? Solo perché hanno letto tre libri (di cui uno scritto sicuramente da Saviano), a fronte di una media nazionale di zero virgola zero periodico, questi signori pensano di essere colti e felici. Poverini. Io mi sono convinto che non c'è miglior maniera di individuare gli ignoranti alfabetizzati che sentirli dire che a loro piace leggere. Se ti piace leggere, argomento, vuol dire che o non hai letto abbastanza o non hai letto bene. Leggere è una faticaccia e a me non piace gran che: preferirei giocare a pallone o esercitare il bunga bunga o sbronzarmi su Viale Ceccarini e risvegliarmi come nuovo alle undici del mattino dopo, invece che star lì a piegarmi sulla Cronichetta del Sessantasei o sulla Rélation du Banissement des Jésuites de la Chine o su She Stoops to Conquer o su Non Ti Muovere (tutti libri, per inciso, che non ho ancora letto, perché almeno io - leggendo molto - non ho problemi a riconoscermi sacche d'ignoranza). Allora, mi chiederete, perché leggi? Non leggo per adempiere a un'alta missione di civilizzazione della mia patria né perché coltivo la speranza che a furia di girare pagine finirò per votare Nichi Vendola; leggo perché non so fare altro, perché a giocare a pallone faccio pena e se metto piede su Viale Ceccarini dopo una settimana ho ancora i dolori alle costole, altro che risvegliarmi come nuovo; leggo perché non so andare in bicicletta e non ho la patente né per autovetture né per motocicli, per tacere dei camion; leggo perché non vado al teatro, non vado al cinema, non vado allo stadio, non vado al circo equestre e non vado alla bocciofila; leggo perché sostanzialmente mi annoio da mane a sera; leggo perché insieme alla scrittura è l'unica cosa nella quale io dimostri un certo talento e, avendo il vizio di fare solo ciò in cui posso eccellere al solo scopo di eccellere, più leggo meglio scrivo e dunque è meglio che mi sacrifichi sperando che porti a qualcosa di concreto. Inizio, per la verità, ad averne le palle piene; ma ormai è tardi per imparare ad andare in bicicletta (figuriamoci per diventare campione del mondo di ciclismo su strada) o per imparare a calciare dritto una sfera di cuoio (figuriamoci per vincere il Pallone d'Oro), mentre sul bunga bunga non mi pronunzio: quindi tiro avanti, limitandomi a invidiare Berlusconi che è riuscito a non leggere nessun libro negli ultimi trent'anni, e senza lamentarmi di essere nato in una nazione di analfabeti a molti dei quali piace leggere. Il problema è che alla fine costoro sovente si convincono che a loro deve anche piacere scrivere: e allora per noi lettori istruiti è la fine.

lunedì 28 marzo 2011

Più o meno al cambio fra ora solare e legale ho compiuto due anni di permanenza a Oxford; ma io, che come la ricerca Collistar guardo al risultato, che cambiamenti posso elencare da fine marzo 2009? Sono invecchiato (è inevitabile), sono più ricco (ho lavorato), sono ingrassato (non è inevitabile ma provateci voi col cibo britannico). Sono più stempiato, sono aumentati i capelli grigi e in questi giorni in cui mi sono fatto crescere una bella barba risorgimentale, be’, i peli bianchi sono molti più di quanto credessi. Ho l’artrosi: di tanto in tanto devo stendere le braccia o il collo producendo dei rumori madornali onde non far dolere gli arti più per qualche mezz’ora. Da quando mi si è rotta la caviglia destra le ossa protestano a ogni cambio d’umidità. Dormo male e riposo peggio. Mi si è accorciata la vista e mi sono ingobbito, merito del microscopico monitor messomi a disposizione sul lavoro, sul fondo di una scrivania sterminata; ogni tanto mi convinco perfino che tutto ciò che faccio non abbia senso alcuno, ma è solo perché il computer messomi a disposizione sul lavoro è un insensato Macintosh. Il mio inglese è peggiorato visibilmente: più passa il tempo più diventano complessi i concetti da esprimere e le parole si rifiutano di seguirli o mi sento spinto a impostare periodi barocchi nei quali mi perdo appena mi manca la traduzione esatta di un termine che espresso con un’altra perifrasi non renderebbe per nulla; ne consegue che, mentre due anni fa mi sentivo un bambino di otto anni, ora mi sento un bambino di sei. In compenso, Dio solo sa perché, è migliorato il francese che non ho studiato mai; e anche la lingua patria se la cava discretamente grazie alla sezione di italianistica della Taylor Institution, che ho impunemente saccheggiato dai primi giorni a oggi. Leggo di più, ma sempre meno volentieri perché mi stanco dopo un poco; magari scrivo meglio ma senza divertirmi la metà. Sostanzialmente, mi annoio; e rimpiango quando potevo usare tutta la mia potenza retorica in italiano su temi italiani davanti a un pubblico italiano, invece di discorrere quotidianamente di fuffa sgrammaticata. Grossomodo coincido con l’autoritratto fatto da Marco Masini nella canzone che iniziava “Se mi guardo nello specchio / dopo il tempo che è passato / sono solo un po’ più ricco / più cattivo e più invecchiato”, il titolo della quale dice tutto ragion per cui non lo ricorderò. Questo se ci limitiamo a considerare il 2009, anzi il giorno prima di partire per Oxford; ché se facessimo il paragone con cinque anni fa ci sarebbe da spararsi.

venerdì 25 marzo 2011

Niccolò Tommaseo, scrivo questa e poi non ti disturbo più. Da qualche parte hai scritto che è la pedanteria lo “schifoso male” d’Italia, e ciò vale per le leggi come per i costumi come per la maniera in cui il conduttore televisivo medio si rivolge al pubblico (non potevi saperlo ma l’hai agevolmente intuito) e soprattutto, sia chiaro, per i libri. Poiché non tutti sono consapevoli che da un seme di due parole possa spuntare un roveto di paratassi, oggi ricopio pari pari una illuminante paginetta inserita nell’introduzione alla tua biografia da Raffaele Ciampini, l’uomo che ha dedicato più tempo alla tua vita che alla propria. Scrive Ciampini, col dente avvelenato da un andazzo ben riconoscibile: “In Italia si ha ancora il culto, anzi la superstizione del libro illeggibile. Anzi, fra noi, i libri illeggibili, dico quelli d’argomento grave, i libri di storia e di critica, che amano chiamarsi scientifici, godono molto credito, anche e soprattutto perché sono illeggibili, e quindi ben pochi li leggono. La scienza, tra noi, deve essere ponderosa: tanto meglio se oscura. Gli italiani, che sono leggeri, tentano di nascondere questa loro poco lodevole qualità con la pesantezza opprimente dei loro libri cosiddetti scientifici. Si illudono in tal modo di essere gravi e profondi, e molte volte non sono che stupidi; la loro è una gravità grigia e opaca, una massiccezza vacua. Non oro schietto che splende, ma piombo che opprime. Ma io sono uno di quegli spiriti ingenui o forse bizzarri, che si ostinano a credere che una delle condizioni fondamentali, che devono presiedere alla composizione di un libro, è che il libro meriti di essere letto, sia per le cose che dice, sia per il modo come le dice. Se manca una di queste due condizioni, il libro è sbagliato”. Niccolò Tommaseo, quando Ciampini pubblicava queste parole era il 1945 e da allora il suo volumaccio non è più stato ristampato (l’editore Sansoni che fa? dorme?): leggerle mi ha confermato che la tua vita non è passata invano; doverle recuperare nei meandri di una biblioteca per l’impossibilità di vederle scintillare su carta nuova in una libreria mi ha confermato che gli anni dal 1946 a oggi probabilmente sì.

giovedì 24 marzo 2011

Niccolò Tommaseo, posso chiamarti Nick? Torno dal Canada, dal continente pieno di cose nuove e lussuose e insignificanti, convinto di trovarti più antiquato che mai e invece mi casca l’occhio su questa tua considerazione: “Delle donne dotte non parlo, ché non sono donne. Ma la politica è peggio della letteratura a far della femmina un mostro”. Allora capisco che tutti ti trovano antiquato perché invece eri così moderno (ed essenziale e significativo) da avere già seppellito le quote rosa con circa duecent’anni d’anticipo.

martedì 15 marzo 2011

Niccolò Tommaseo, qualche anno fa uno scrittore italiano per parlare di Berlusconi ha scritto un libro intitolato Il Duca di Mantova ma avrebbe fatto meglio a scrivere, come hai fatto tu, Il Duca d’Atene. Poiché su internet circolano solo degli ignoranti (me compreso; altrimenti invece che davanti al computer starei sui libri) ricapitolo gli eventi: trattasi non di un greco ma di un francese, Gualtieri VI di Brienne, che nel maggio 1342 si erse alla difesa di Firenze e, acclamato eroe dai suoi liberati, in settembre si proclamò unilateralmente signore vitalizio della città. Insorsero dunque i fiorentini nel luglio 1343 e ad agosto il duca dovette abbandonare la città in mano ai suoi maggiorenti. Bene, qui tutti parlano di come disfarsi di Berlusconi a furor di popolo dopo averlo votato, ma solo tu avevi capito che creare un comitato di liberazione nazionale (con dentro patrizi, plebei, arcivescovi e giacobini) non è sufficiente e anzi dannoso: perché appena il duca si dichiara sconfitto iniziano le lacerazioni insanabili fra i vincitori; perché appena il duca è indifeso tutti sono colti dall’improvviso coraggio di voler farlo a pezzettini; perché la rinunzia al potere del duca dà la stura al sadismo giuridico di chi vuole fare passare la propria miseria morale per eroismo; perché, nel momento in cui esce di Firenze, il duca ormai innocuo appare dieci spanne superiore ai mestatori nelle cui mani lascia la città; perché soprattutto il sullodato popolo, del quale i liberatori si richiamano alle virtù storiche, in realtà è un ubriaco incapace di fare altro “che sonare campane e bruciare libri e gridare viva e muoia; ma all’ubbriachezza succede il sonno, e allora i forti lo legano, i vili lo rubano; e, desto e’ rigrida viva e muoia, secondo che la memoria o un nuovo impeto gli detta”.

lunedì 14 marzo 2011

Niccolò Tommaseo, quanta polvere sto soffiando via dai tuoi libri man mano che li scovo in biblioteca. Ad esempio, Scintille: l’agile volumetto di prose diverse che ho trovato in un’edizione abruzzese del 1916 e che già allora non veniva ripubblicato dalla primigenia edizione veneziana del 1841. Eppure ci si possono trovare indicazioni utili all’ammonimento delle giovani generazioni; eppure se l’avessi conosciuto prima non avrei passato tutta la scorsa settimana ad arrabattarmi per commentare prolissamente i dati di Almalaurea, soppesando le statistiche e spiegando perché laurearsi non conviene, né a interpretare ponderosamente l’ideale femminile dell’amore, che nella sua accezione più intrinseca non contempla l’esistenza concreta dell’uomo. Mi sarei limitato a copiare dal tuo volumetto una frase a doppio taglio: “La laurea, che dovrebb’essere dell’educazione un principio, è ad essi termine, come il matrimonio a certe fanciulle”.

venerdì 11 marzo 2011

Perfino da Brighton i miei informatori mi confermano che lo scorso 8 marzo, festa della donna e martedì grasso, in Inghilterra nessuno se n’è fregato né dell’una né dell’altra cosa. Non che me ne sia fregato anch’io: ma dovendo scegliere fra maschere e mimose, privilegio carnevale che pur essendo una festa pagana funge da sentinella al mercoledì delle ceneri; specie ora che per come viviamo è martedì grasso tutti i giorni, carnevale serve solo a tirarsi dietro la benedetta quaresima. Ma la festa della donna, dico io, a che serve? Si tira dietro solo orde di isteriche imbufalite, che s’offendono se non regali loro la famosa mimosa (perché così neghi la loro dignità femminile) e s’offendono ancor più se gliela regali (perché vuol dire che le tratti come se fossero delle donne). Da Brighton mi confermano che l’8 marzo è stata la festa dei pancakes, come in tutto il mondo anglosassone; la quale è una festa insensata ma almeno mangereccia, e non prevede l’utilizzo di retoriche mimose ma di ben più utili farina, latte, zucchero, uova e burro. Di mimose, a Oxford come a Brighton, nessuna traccia, nemmeno una pallina gialla. Propongo pertanto di cambiare la dicitura “giornata internazionale della donna” in un più veridico “giornata provinciale”.

giovedì 10 marzo 2011

Ieri, mercoledì delle ceneri, niente blog, niente mail se non lo stretto necessario lavorativo, niente messaggini, niente facebook, niente donne, niente zuccheri, niente alcol, niente di niente se non un po’ di pane (in serata condito a olio e sale) e acqua: e quindi niente bruciori di stomaco, niente riflusso gastroesofageo, niente incubi digestivi. Quasi quasi converrebbe digiunare tutti i giorni.

martedì 8 marzo 2011

Niccolò Tommaseo, come stai? Sono venuto a visitarti l'altro giorno in biblioteca, prendendo in prestito il tuo Diario Intimo, ma dalla difficoltà della bibliotecaria nel portare a compimento le operazioni di rilascio del volume (e mo non si trovava il codice a barre e bisognava appicciarne uno apposta, e mo la segnatura sul dorso del volume non corrispondeva a quella inserita sul catalogo online) è emerso che ero il primo a prenderlo in prestito dall'anno di edizione, il 1938 (XVI). Oggi se uno fa una telefonata trova le intercettazioni su Repubblica, se prende un caffè con l'amico ci sono mille ricetrasmittenti pronte a riverberarlo, se manda una mail potrebbe leggerla mezzo mondo, se scrive su facebook lo legge un mondo e mezzo: mi hai fatto capire, Niccolò Tommaseo, che oramai l'unica maniera di non far sapere in giro i fatti propri è pubblicare un diario.

lunedì 7 marzo 2011

Fratel paracetamolo, mi sa che non ci siamo capiti. Io sabato mi sveglio, il raffreddore è passato, il tempo è accettabile, posso perfino mettere il naso fuori di casa; allora smetto di assumerti e vado a lavorare alla Bodleian library approfittandone poi per un caffè in libreria. Fratel paracetamolo, io non ti assumevo da giorni due quando, mentre leggevo il dorsetto letterario del Guardian, nel bar della libreria si affaccia l’arcivescovo di Canterbury; il quale sulle prime io credo essere un sosia, tant’è vero che penso: “Guarda quello come somiglia all’arcivescovo di Canterbury”; tanto che, se non fosse stato vestito come un anonimo passante, non avrei mai pensato trattarsi di un sacerdote anglicano. L’arcivescovo o presunto tale non prende il caffè ma va a esplorare la sezione di storia sassone, dimostrando così di essere per davvero l’arcivescovo di Canterbury per due motivi preclari: bisogna essere come minimo arcivescovi di Canterbury per nutrire un vivo interesse nei libri di storia sassone; se non si fosse trattato dell’arcivescovo di Canterbury, tutti i clienti e commessi della libreria non l’avrebbero ostentatamente ignorato, rifuggendone lo sguardo e cambiando strada ad angolo retto quando se lo ritrovavano davanti. Gli inglesi, fatel parecetamolo, ritengono ineducato far notare che riconoscono una celebrità; se per strada non ti guarda più nessuno, puoi star sicuro di essere diventato famoso. Alla fine me lo sono ritrovato davanti io, dal lato opposto di un banchetto di offerte tre per due; e ci siamo perfino guardati negli occhi (segno che lui non mi aveva riconosciuto) mentre io, fugato ogni residuo dubbio sulla sua identità, mi chiedevo come avrei dovuto chiamarlo nell’inverosimile caso in cui ci fossimo rivolti la parola: per quanto egli sostenga di essere l’arcivescovo di Canterbury, e per quanto la totalità dei suoi connazionali lo riconosca come tale ovvero finga di non riconoscerlo affatto, io non appartengo alla chiesa d’Inghilterra e di conseguenza il mio arcivescovo di riferimento non è lui (Rowan Williams, simile a un Babbo Natale appena uscito da un frullatore) ma il cattolico Vincent Nichols, già vescovo in partibus infidelium di Birmingham e Oxford; di conseguenza non avrei potuto chiamarlo “arcivescovo” senza montargli indebitamente la testa. Un compromesso ragionevole sarebbe stato chiamarlo Dr Williams, visto che è dottore di ricerca, ma a patto che lui mi chiamasse Dr Gurrado, visto che sono dottore di ricerca pure io; non avrei saputo tuttavia come comunicargli che lo sono, visto che non vado in giro col diploma appeso al collo, e per sua fortuna l’arcivescovo si è tolto dall’imbarazzo di non sapere come chiamarmi non rivolgendomi affatto la parola, cambiando strada ad angolo retto e recandosi al settore di antiquariato. Io d’altronde cos’avrei potuto dirgli? Prenderlo a ceffoni finché non si convertiva? Me ne sono andato in un’altra biblioteca dove ho incontrato un collega che non mi aveva visto per tutta la settimana in cui ho giaciuto ammorbato. “Ah, dunque sei guarito”, mi ha detto; e io: “Sì, oggi è il primo giorno d’aria e ho appena incontrato l’arcivescovo di Canterbury”; e lui: “Ah, dunque non sei guarito”.

venerdì 4 marzo 2011

La miglior maniera di riuscire a parlare in pubblico è non essere invitati a farlo. Più anzi si è invisi al pubblico e al relatore, più si riesce a essere incisivi. Di mille interventi degli astanti ai quali ho assistito nel corso di conferenze varie, da relatore o da moderatore o da mimetizzato dietro una copia della Gazzetta dello Sport, ne ricordo solamente tre; anzi ricordo i tre personaggi che li hanno fatti. A Pavia c’era un tizio che si presentava a tutte le conferenze di ogni argomento, sovente apparendo alla stessa ora in due collegi e tre aule dell’università; era agevolmente riconoscibile perché portava con sé uno zaino, un game boy e una barba lunga fino all’ombelico; parlava molto di rado ma, quando lo faceva, era indimenticabile in quanto tutti avevano passato la conferenza specifica e tutte le precedenti ad attendere e temere che, giunto il momento del dibattito, prendesse la parola. A Modena c’era un vecchietto che si presentava a ogni conferenza con un sacchetto di plastica in mano, che non abbandonava nemmeno quando – cioè sempre – riusciva a farsi consegnare il microfono; indipendentemente dall’argomento trattato dal relatore (i protocolli dei savi di Sion, la forma poetica dell’atmastuti, i vasi itifallici dell’antica Grecia) gli poneva immancabilmente una domanda sulla guerra in Iraq; poi la guerra in Iraq è bene o male finita e lui non s’è più visto; sarà plausibilmente morto di dolore. A Oxford appare di tanto in tanto un indiano con turbante arancione e barba bianca, che indossa una felpa altrettanto candida sulla quale però sono stampati a stampatello multicolore svariati inviti a pentirsi e a credere al vero Dio; sul retro della felpa autoprodotta l’indiano specifica l’identità del vero Dio, constante di una litografia in technicolor di Gesù Cristo e del suo numero di telefono (dell’indiano e non di Gesù Cristo, presumo, ma chi può dirlo). Tuttavia bisogna riconoscere che l’Inghiterra è molto più avanzata dell’Italia: per ogni conferenza che segue, l’indiano divulga su youtube un video di quindici minuti – durata invariabile indipendentemente dall’argomento – nel quale tiene la propria controconferenza. Ciò non lo distoglie tuttavia dal porre la propria domanda quando arriva il terrificante momento del dibattito; tuttavia non ascolta mai la risposta, e fa bene perché i relatori non ascoltano mai la sua domanda; finisce dunque che nella breve didascalia al proprio video (una pagina, una pagina e mezza) l’indiano – dopo avere spiegato che la Chiesa d’Inghilterra ha due capi, l’Arcivescovo di Canterbury per gli affari con Dio e la Regina per quelli con Mammona – concluda amaramente che tali professori erano così ubriachi del vino vecchio da non desiderare quello nuovo, suggerendo implicitamente dove riesca a trovare tutto il coraggio di presentarsi in pubblico bardato in cotal guisa.

giovedì 3 marzo 2011

Roberto Saviano, ma ti rendi conto di quanto scrivi male? L’introduzione al tuo libro feltrinellesco è un compendio di savianesimo urtante, con il ritmo della prosa spezzato a casaccio, i periodi brevi come se avessi il singhiozzo, la patetica anaforizzazione delle congiunzioni avversative e tutto ciò che un autore adolescente tenta di buttare sulla pagina pur di sembrare hard-boiled – dando alla lunga la sensazione di non essere più hard ma solo boiled. Roberto Saviano, ieri hai presentato il tuo libro feltrinellesco nella libreria dove fa il cassiere lo scrittore Francesco Savio: perché, tu che sei un paladino della giustizia e dell'equità, non hai chiesto di fare cambio? Roberto Saviano, oggi arriverai a Pavia per presentare il tuo libro in una Feltrinelli significativamente eretta dentro una chiesa sconsacrata ma purtroppo non sono più lì e non posso porgerti la domanda che mi volteggia in petto: dopo la raccolta di articoli per Mondadori e la raccolta di monologhi per Feltrinelli, quando ti deciderai a scrivere un libro vero? Guardati dall’uomo di un solo libro, diceva San Tommaso d’Aquino; si riferiva ai monolettori, figurati cos’avrebbe pensato dei monoscrittori.

mercoledì 2 marzo 2011

Fratel paracetamolo, ti sei fatto nuovamente vivo e stavolta mi hai mostrato Romano Prodi che assicurava di essere continuamente assalito da torme di groupie che appena lo scorgono, a piedi o in bicicletta, gli si fanno addosso al grido: “Torna!”. Ora, a parte che la visione era confusa e non si capiva dove costoro volessero che Prodi tornasse di preciso (io una mezz’idea ce l’avrei), mi sono accorto che il succo della rivelazione era celato in coda, quando Prodi forniva forse involontariamente la più scientifica e crudele definizione del proprio elettorato. “Per evitare i miei fan”, sosteneva, “sono costretto ad andare a Messa al mattino presto”. Lì è sicuro di non trovarne nessuno: dopo i cattolici adulti, ha inventato pure i cattolici part-time.

martedì 1 marzo 2011

Io proprio non sopporto quelli che, quando devono tenere una conferenza, si presentano con un foglio scritto e leggono dalla prima all’ultima parola. Credevo che fosse un vizio soprattutto italiano, invece ho notato che avviene con frequenza ancora maggiore in Inghilterra e me ne sono chiesto il motivo. Penso che ci siano ragioni differenti: gli italiani tendono a leggere per insipienza, ossia perché non si sentono sicuri dei concetti che hanno appiccicato sul foglio e, argomentando sovente senza alcuna concatenazione logica, temono non leggendo di poter dimenticare qualche passaggio. Taluni si sforzano di leggere così male da far sembrare che abbiano trovato sul leggio dei fogli scritti chissà da chi. Il loro modello è Achille Lauro di venerata memoria, il quale leggendo un discorso in parlamento inciampò una prima volta in “Penelòpe”, poi incontrò un “come la mitica Penelòpe”, poi “la celebre tela di Penelòpe” – e a quel punto sbottò voltandosi verso i banchi del proprio partito: “Ma chi cazz’è ’sta Penelòpe?”. Gli inglesi operano una scelta opposta: leggono il proprio intervento per renderlo noioso. Sanno magari di avere dei contenuti interessanti, densi, sorprendenti; sapendo che tenere sveglio l’uditorio è sintomo insindacabile di maleducazione, un’inaccettabile imposizione della propria presenza, iniziano a leggere con voce monocorde per trenta, quaranta, cinquanta minuti; il loro obiettivo è venire dimenticati in fretta, dare l’impressione di non esserci, parlare in pubblico senza farne accorgere nessuno.