giovedì 14 aprile 2011

Meneghelleide, parte seconda. Luigi Meneghello, non avrei mai creduto di trovare in te un alleato talmente insperato nella mia delusione quando mi accorgo che in una giovane coppia il buon cattolico è lui mentre lei funge da zavorra atea o scettica o illuminista o femminista o pro-mussulmana o new age o anticlericale. Trovo scritto in Libera nos a malo: “Il matrimonio cristiano è una specie di missione in partibus: il maschio è naturalmente pagano, e tocca alla sposa cristiana non tanto convertirlo quanto salvargli l’anima. Il marito selvaggio beve, gioca, bestemmia, molesta le donne, mena le mani: la sposa missionaria non contrasta questi suoi costumi ma bada al sodo, che è quel minimo di messe, sacramenti e devozioni sufficiente a restare in buona col cielo; poi basta cogliere l’anima direttamente sul letto di morte”. Insomma quando uno trascina la fidanzata a Messa non sta cercando di limitare la libertà di lei ma sta cercando di asserire il proprio diritto a essere convertito. Qualche riga dopo continui: “Prendere i maschi di petto sarebbe assurdo, come voler spiegare l’algebra ai cannibali: ma fin che c’è donne c’è speranza”. Esatto, esattissimo: donne cattoliche, non crucciatevi se il vostro fidanzato legge Odifreddi perché al primo raffreddore sgranerà rosari; invece, uomini cattolici, preoccupatevi tantissimo se la vostra fidanzata vi propone di cucinare due costolette di maiale al venerdì, o di non seguire la Quaresima bensì il Ramadan, o di passare la domenica al centro commerciale. L’uomo è docile alla conversione perché tende sovente a comportarsi da bestia e talvolta se ne accorge, mentre convertire una donna è arduo se non impossibile visto che – come sa ogni marito – hanno sempre ragione a priori.

mercoledì 13 aprile 2011

Meneghelleide, parte prima. Luigi Meneghello, quando scrivevi Libera nos a malo avevi già lasciato volente/nolente il tuo paesino veneto d’origine (Malo, appunto) e ti eri già trasferito in Inghilterra, a Reading, pochi chilometri da qui. Non posso pertanto pensare che fosse totalmente innocente, anzi, personalmente mi suona come un presagio sinistro l’aneddoto sul tuo zio che ritorna nel paesino dopo molti anni in varie nazioni dell’estero, che i locali riuniscono sotto l’onnicomprensiva definizione di “Svizzera”. È più magro, più ricco, più sofisticato e tutti lo trovano migliore. Solo la madre, a festa finita, lo vede tutt’a un tratto inveire con ferocia contro la ruota di un carro che stava montando e commenta in disparte: “Ruvinà”.

martedì 12 aprile 2011

Il problema di Oxford non è che è brutta, il problema di Oxford è che è una sola. Ci vorrebbe un’Oxford per gli studenti, che per come è strutturata l’università inglese avrebbero soltanto bisogno di discoteche in magna copia e di un paio di strade ad alto scorrimento nelle quali farsi vedere mentre vanno in giro o vestiti in toga, pavoneggiandosi perché hanno letto due libri quasi fino all’ultima pagina, o mentre si calano i calzoni e si rotolano nel proprio stesso vomito alcolico. Ci vorrebbe un’altra Oxford per i turisti giapponesi, categoria che come sempre include anche i cinesi e i coreani, che stanno fermi per ore con i loro sguardi da dementi a rimirarsi palazzi insignificanti per chiunque abbia la terza elementare, o che si fanno fotografare con i loro sorrisi da dementi (pare che sia una delle loro principali caratteristiche) e con le dita a V di fronte alla locale filiale di una catena di pasticcerie; per loro basterebbe una piccola riproduzione in plastica dei principali monumenti di Oxford: la miniatura della Radcliffe Camera, la miniatura del Christ Church College, le miniature della Torre Eiffel e di Dolce e Gabbana. Ci vorrebbe un’Oxford insonorizzata nella quale rinchiudere i ragazzini italiani che vengono a fingere di imparare la lingua. Un’ulteriore Oxford sarebbe necessaria per gli intellettuali, ma dovrebbe essere dotata esclusivamente di specchi che riflettono la loro immagine mentre vanno al caffè portandosi dietro un laptop, due netbook, tre iPad, quattro Blackberry, cinque opere di Derrida e sei volumi del Kamasutra dai quali trarre le posizioni più comode per star seduti su una poltrona sembrando intelligenti. E un’Oxford per i barboni non vogliamo costruirla, visto che in determinate zone della città costituiscono la netta maggioranza degli abitanti? Poi ci vorrebbe un’apposita Oxford per gli ecologisti, capeggiati dal sindaco, in cui chiunque cooperi al surriscaldamento globale aprendo un rubinetto venga immediatamente messo al rogo; e un’Oxford per gli amministratori comunali, con delle apposite nicchie nascoste per la pubblica via come nelle abitazioni private, dalle quali costoro possano saltar fuori ingiungendo all’inconsapevole contribuente: “Paga il pedatico! Paga il rotatico! Paga il mangiatico! Paca il cacatico!”. Infine, ma potrei andare avanti fino a dopodomani, sarebbe necessaria un’Oxford per i ricercatori italiani in loco: basterebbe un’unica stradina, magari stretta ma lunga lunga lunga, visto che alcuni di loro se la tirano da qui all’eternità. Non potete immaginare che soddisfazione sarebbe andarsene non da una ma da tutte e otto.

lunedì 11 aprile 2011

Ma qui non s’incontra solo il ministro britannico dell’università (ieri sera di nuovo, fra parentesi; se continua così lo denunzierò per stalking): Oxford è piena di personaggi ragguardevoli. Ad esempio tutte le volte che sono nella deliziosa e silenziosa sala italiana della biblioteca del dipartimento di lingue e letterature straniere verso metà pomeriggio arriva immancabilmente un distinto signore, elegante, vestito di un solenne abito nero – tuttavia sempre lo stesso. Egli reca seco una busta di plastica rigida e multicolore del supermercato Sainsbury che non apre mai ma dentro la quale sembrano albergare tutti i suoi averi. Entra con fare wagneriano, posa la busta nella sala, sempre allo stesso posto d’angolo e guai se è occupato, ne esce con altrettanta fretta e fa non so cosa sul primo computer che trova disponibile; dopo di che, ma possono anche essere passate ore, si ricongiunge alla propria busta, la arraffa con l’aria di chi ha di meglio da fare e tutto concitato se ne esce dalla sala e dalla biblioteca. Altre volte arriva con una seconda busta, sempre di Sainsbury ma di plastica più scadente, arancione usa e getta. Si siede al solito posto, estrae dalla seconda busta un rotolo di carta igienica e ne strappa i fogli a tre o a quattro per volta; li arrotola per bene, se li infila nelle tasche del vestito nero e poi, quando il rotolo è finito, o torna al computer o se ne va. Chissà di cos’è ministro. Mi capita anche, sulla strada che conduce da casa mia al lavoro, di camminare dietro a una signorina che tiene la mia stessa identica velocità, ciò che le consente di mantenere un certo vantaggio costante visto che tende a partire più o meno dallo stesso punto un paio di minuti prima di me. Non l’ho mai vista in faccia ma posso studiarne i movimenti. Arriva un momento, mentre costeggiamo da un lato la ferrovia e dall’altro un prato, nel quale la signorina più o meno con riflesso pavloviano inizia a schiarirsi la gola, sempre più intensamente e rumorosamente – a discapito dei treni che passano alla nostra destra – finché non scatarra sul prato alla nostra sinistra. In ciò si riallaccia alla gloriosa tradizione dei vecchietti che passano sotto casa dei miei e, non sapendo come meglio impiegare la giornata, costellano il marciapiede di cinquecento lire autoprodotte; solo che io mi chiedo se per vedere qualcuno tentare il record europeo di lancio del muco sia valsa la pena di trasferirmi a Oxford o se invece tanto valeva restare a Gravina.

venerdì 8 aprile 2011

Passi una volta, ma per due giorni di fila andando o tornando dal lavoro m’è capitato di incontrare il ministro britannico dell’università, il conservatore David Willetts, da tempo soprannominato “Two Brains” ovvero “Due Cervelli” anche se i giornali radicali insistono nel chiedere un riconteggio. Di sicuro aveva two dogs, ovvero due cani, che stava portando a pisciare nei campi vicino a casa mia (dovete sapere che abito ai confini della civiltà); indossava una camicia – sempre la stessa – che io avrei avuto vergogna a mostrare pur disponendo di un cervello solo e ha messo in atto un significativo gioco di sguardi quando mi ha incrociato: il primo giorno, alle cinque e mezza del pomeriggio, mi ha scrutato per capire se veramente ero convinto di averlo riconosciuto pur in un contesto incongruo (mica vive a Oxford, Willetts, era lì di passaggio per il Literary Festival); il secondo giorno, alle otto e quaranta del mattino, mi ha riconosciuto lui e ha prontamente distolto lo sguardo. Ciò ha rovinato i piani di mia madre, secondo la quale io avrei dovuto cogliere l’occasione – se non la prima quanto meno la seconda – per presentarmi al ministro e spiegargli chi sono. Ciò l’avrebbe portato, prosegue implicitamente il ragionamento di mia madre, a offrirmi un contratto vitalizio in una facoltà a mia scelta di una qualsiasi università britannica; ciò avrebbe potuto portarlo, sempre secondo il ragionamento di cui sopra, addirittura a nominarmi segretario del suo gabinetto. Macché: poiché Willetts è stato timido, ed è letteralmente scappato via coi cani, non sono stato in grado di accalappiarlo; peccato poiché secondo mia madre (anche se non me l’ha detto esplicitamente), se mi fossi presentato, come minimo Willetts appena tornato a Londra avrebbe citofonato a David Cameron e si sarebbe dimesso irrevocabilmente imponendo che il suo posto venisse consegnato a me.

giovedì 7 aprile 2011

Dice Moravia, anzi lo diceva già nel 1965, che “il lettore oggi non tanto vuole leggere quanto avere l’impressione di aver letto”. Lo diceva ne L’Attenzione facendosi l’autocritica nei panni di uno scrittore che inizia a svendersi sui giornali mandando reportage dall’estero che avrebbe potuto benissimo scrivere al tavolino di casa propria, visto che sono tutti ricopiati da enciclopedie e atlanti; invece il pubblico, che nei suoi testi trova esattamente quello che aspettava di trovarsi, è entusiasta di tali prodotti perché (parole sempre di Moravia) sono come una scala mobile in cui uno sta fermo eppur si muove: così leggendolo i lettori hanno l’impressione di spostarsi dall’inizio alla fine dell’articolo e invece sono stati fermi per dieci minuti o una mezz’ora buona. Quest’intuizione folgorante, per la quale da tempo cercavo parole migliori, mi ha fatto capire all’istante perché riscuotano tanto successo giornali e autori che, se uno li leggesse, non varrebbero tre lire: perché al momento dell’acquisto del quotidiano o del libro il lettore viene colto da incantamento e resta in stato di ipnosi permanente dal momento in cui attacca la prima riga fino al momento in cui può vantarsi in società di aver letto e apprezzato il tal giornale o il tale autore. Moravia è tuttavia andato anche oltre le proprie intenzioni e mi ha fornito la soluzione a un secondo dilemma che mi attanagliava da tempo: perché la narrativa italiana contemporanea – e a beneficio dei professori di liceo chiarisco che per “contemporanea” non intendo Verga e Pirandello e nemmeno Vittorini e Pavese, intendo persone che oggi vivono e mangiano e respirano nel pieno delle forze e alla faccia nostra – dicevo, perché la narrativa italiana contemporanea puzza di prodotto in serie lontano un miglio, tanto che nella maggior parte dei casi si può dire che letto uno letti tutti? A me ad esempio è capitato di essere contattato da un paio di signorine che vogliono scrivere, ebbene scrivono esattamente come scrivono le varie Santacroce e Postorino e Bonazzi e Pugno, le quali di là da differenze minimali mi sembrano tutte scrivere alla stessa maniera e cioè come ci si aspetta che scriva una più o meno giovane scrittrice che non voglia allinearsi allo stile corrente, così da creare un bel gruppetto di alternative tutte uguali. Sia chiaro che spero di sbagliarmi e che il discorso vale anche per i maschi, i quali pure ricadono in quella che Camilla Baresani (la quale, a suo onore, non fa nomi) chiama “romanzi all’insegna di una sterile affabulazione, pagine che magari hanno un sapore suggestivo ma dopo poco mostrano di avere la consistenza e l’effetto del fumo negli occhi”. Io credevo che fosse colpa della creazione di una scuola o cricca di autori che tendono a imitarsi a vicenda, oppure delle case editrici che preferiscono sovente andare sul sicuro e c’è da capirle, oppure del pubblico scimmiesco di cui sopra. Invece ho capito all’improvviso che la segreta aspirazione di queste signorine e di questi signorini e di questi giovani scrittori di venti trenta e cinquant’anni è precisamente quella di allinearsi all’andazzo: quando pigiano a casaccio sulla tastiera del proprio portatile non vogliono scrivere ma avere l’impressione di avere scritto.

mercoledì 6 aprile 2011

A Washington, una donna a prima vista insospettabile che visitava la National Gallery s’è scagliata senza alcun preavviso contro una tela di Paul Gauguin, Due donne tahitiane, che raffigurava tautologicamente due donne tahitiane in topless e abbracciate l’una all’altra in un atteggiamento che a qualcuno può apparire tenero ma ad altri, chissà, forse lascivo. La donna ha colpito con un pugno, prima di essere bloccata dalle guardie, e la tela ne è rimasta danneggiata. Pare che al momento di lanciarsi contro il quadro la donna abbia esclamato: “Questo è il male!”; ma non è chiaro se il male a cui si riferisse fosse il quadro in sé, o l’immagine di donna nuda o, chissà, forse lo stesso Paul Gauguin. Fatto sta che s’è gettata addosso al quadro col bel risultato che abbiamo visto. Questo è accaduto a Washington. A Milano invece c’è Ilda Boccassini.

martedì 5 aprile 2011

Nichi Vendola. Barack Obama. Vauro Senesi. Annozero. Raiperunanotte. Vieni via con me. Roberto Saviano. Il popolo viola. Il Fatto Quotidiano. Marco Travaglio. Concita Di Gregorio. Micromega. Informazione libera. Informare per resistere. Repubblica. Laicità dello Stato. Una manifestazione nazionale a difesa della Costituzione. Un pomodoro che avrà più fan di Silvio Berlusconi. Luigi de Magistris, sant'Iddio, Luigi de Magistris. Questa è una selezione delle pagine di facebook che hanno più fan fra i miei amici; fan a schiere, a botte di quindici, trenta, cinquanta l’una tanto che, se dovessi fidarmi di facebook, dovrei veramente chiedermi che gente frequento.

lunedì 4 aprile 2011

Signore e signori, la crisi di nervi: che m'è venuta, nello specifico, quando da un momento all'altro il portatile ha smesso di funzionare come si deve per via di un virus infingardo che fingeva di essere un antivirus. Poi mi sono calmato e ho tratto alcune conseguenze. La prima è che deleghiamo troppa parte della nostra vita a un aggeggio che, per il solo fatto di essere un aggeggio, da un momento all'altro può smettere di funzionare; e che pertanto è meglio diversificare il più possibile gli appigli andando nella direzione opposta a quella in cui va il mercato (secondo il quale l'ideale sarebbe possedere un unico super-coso che funga da computer, tv, libro, telefono, macchina fotografica, riproduttore musicale, tostapane, vibratore e distributore automatico di ostie consacrate); e che anzi bisogna tornare a usare quanto più possibile la carta perché gira e rigira l'incendio della biblioteca di Alessandria ha dimosstrato di essere un caso meno frequente del crollo di un sistema informatico. La seconda è che per varie situazioni contingenti, non ultima l'imposizione dello stile di vita locale, nel giro di due anni a Oxford sono arrivato a usare il computer in maniera molto più massiccia di quanto non facessi prima e soprattutto di quanto non solessi fare (come mi invidio) quindici anni fa, quando il computer non ce l'avevo proprio; a Oxford invece, sarà per la moda andante sarà per la distanza dalla vita vera, il computer è unico privilegiato contatto col mondo e si fa lettore dvd, televisore, telefono, compagno di giochi, moglie, amante, custode e dittatore: non va bene e ora che giocoforza userò meno il computer ho la netta intuizione che dovendo fare le cose più lentamente avrò molto più tempo libero. La terza è che da quando mi sono trasferito a Oxford me n'è successa di ogni e che lo squagliamento di Ottaviano (chiamo i miei computer secondo l'ordine degli imperatori romani; il primo era Cesare, e per premunirmi di fronte al tramonto di Ottaviano mi ero già procurato un piccolo Tiberio) è l'ultima contrarietà in una serie di caviglie rotte, valigie perse, voli cancellati, case cambiate controvoglia, tasse, notti insonni, emicranie, cacarelle e così via in modo tale che ogni settimana per due anni non ce n'è stata una in cui potessi sentirmi scevro da grattacapi, tanto che considerata l'inusitata frequenza e densità degli eventi che potendo andar male vanno effettivamente male mi pongo ufficialmente la questione: ma niente niente Oxford porta anche sfiga, o quanto meno mi porta sfiga? La quarta conseguenza è che (intelligenti pauca) bisogna distruggere Cartagine.

venerdì 1 aprile 2011

Non è uno scherzo: ieri sera guardando Giorni e nuvole di Silvio Soldini (un regista che non mi sembra completamente allineato alla CEI) ho capito al volo perché la Chiesa proibisce determinate faccende che a prima vista procurano benessere immediato all’individuo e vengono fraintese per progressi collettivi della civiltà. Ad esempio, il divorzio. Nel film di Soldini il protagonista (Antonio Albanese) è un dirigente e proprietario di un’azienda nautica che con un magheggio viene estromesso dal proprio stesso consiglio d’amministrazione. Degli altri due soci, uno è un rampante farabutto che appena entrato in cda ne ha arraffato il timone; l’altro è un personaggio che appare fugacemente, più menzionato che mostrato, ed è l’amico col quale il protagonista ha iniziato l’azienda quando avevano vent’anni, molte idee e pochi soldi. Com’è che il protagonista si trova in minoranza pur potendo contare sull’appoggio dell’amico di una vita? Risponde lo stesso amico quando la moglie del protagonista (Margherita Buy) va a chiederne ragione: “Io ho due famiglie da mantenere, due mogli, due case, i figli dell’una e i figli dell’altra”. Insomma aveva bisogno di soldi (non per sé, per le famiglie) e l’amico gli dava meno garanzie di guadagno di quante gliene assicurasse il rinnovo del cda. Allora mi sono immaginato lo sfondo, il retropensiero: quest’amico qui ha divorziato pensando che non c’era niente di male e che anzi era un sollievo perché non ha considerato le conseguenze sugli altri ma solo su sé stesso. È come chi si mette alla guida ubriaco: sa e confida che potrebbe non succedergli niente, ma il più delle volte centra in pieno qualcun altro.