sabato 31 dicembre 2011


Quest’anno non ho letto tantissimo: 138 libri cominciando con Casa d’Altri di Silvio d’Arzo e finendo con Per chi suona la campana di Ernest Hemingway, tuttora in corso di lettura. In compenso ho letto molto meglio del solito, visto che solo in tre casi ho avuto la netta impressione di star perdendo del tempo: con Help my unbelief: James Joyce and Religion di Geert Lernout, un saggio in cui si cercava di provare che un’intuizione paradossale dell’autore fosse preconizzata da citazioni a caso dal povero incolpevole Joyce; con la Vita di Niccolò Tommaseo di Raffaele Ciampini, che almeno è un testo ormai desueto e ormai può essere rimosso in fretta; e con Uomini e cani di Omar Di Monopoli, il peggio del peggio, roba da chiedere indietro i soldi se l’editore non fosse il più che stimabile Isbn.

S’è verificato un cambiamento notevole: a un certo punto dell’anno ho capito che a mente non potevo ricordare tutto e, dopo dodici anni di letture onnivore, ho iniziato a utilizzare più o meno creativamente la matita sui margini dei volumi. Gli autori che hanno caratterizzato l’anno con letture plurime si sono assestati su cifre basse: Papini (4 libri), Philip Roth (5, di cui una rilettura), Tommaseo (6) e soprattutto Hemingway (altrettanti) il quale costituiva un’imbarazzante lacuna nel mio panorama culturale; per questo ho deciso di dedicargli le ultime settimane dell’anno partendo da Festa mobile a metà dicembre. In fin dei conti abbiamo entrambi un debole per Parigi e per la corrida, ma le cose in comune finiscono qua. Anche le riletture sono state pochine, anzi quattro: Lo scrittore fantasma di Philip Roth, riletto per segnare a matita le macrostrutture narrative e per evidenziare gli indizi che preconizzavano lo sviluppo della trama; Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo, riletto perché è il romanzo più meraviglioso del nostro Ottocento e perché dovevo scrivere un articolone sull’autore; Erewhon di Samuel Butler, riletto su un’edizione diversa dalla mia, prestigiosissima trattandosi di una Penguin del 1936, ma che avevo dimenticato in Italia così da essere costretto a prenderne una a caso dalle biblioteche di Oxford; Dio di Levante di Raffaele Nigro, riletto perché nonostante sia stato sottovalutato all’epoca della prima pubblicazione con Mondadori è stato doverosamente ripubblicato, in miglior forma estetica, dalla temeraria editrice Hacca.

Volendo ragionare per settori, posso imbastire tre podi specifici. Per la narrativa prodotta da un italiano vivente, con preoccupante monotematicità metterei al terzo posto Autobiografia erotica di Aristide Gambìa di Domenico Starnone, al secondo Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) di Aldo Busi e al primo Canti del caos di Antonio Moresco. Per la narrativa prodotta da uno straniero vivente non ho nemmeno bisogno di un podio completo in quanto ultimamente ne leggo poca: dunque al secondo posto Tutte le anime di Javier Marías, non tanto perché sia il suo miglior romanzo quanto perché con un certo sollievo ho voluto concedermelo dopo essere sopravvissuto a Oxford, così che su di me esercitasse un maggior riverbero di quanto previsto dall’autore per il lettore medio; e al primo, pressoché senza rivali, History of a pleasure seeker di Richard Mason, letto nell’originale appena era uscito, nel corso di un tranquillo fine settimana di giugno a Cambridge. È il romanzo in cui Mason mantiene tutto quello che aveva promesso dal suo esordio e tanto basta a renderlo unico; mi auguro che la traduzione Einaudi sappia rendergli giustizia. Quanto ai saggi, senza distinzione di ordine e grado, direi che al terzo posto si piazza Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola, per giustezza di vedute e architettura nell’esporle; al secondo un gran classico quale Machiavelli in Hell di Sebastian de Grazia; al primo un classicissimo pressoché immortale, letto con colpevole ritardo, ossia The Italians di Luigi Barzini.

Non ribadirò mai abbastanza che quando azzardo graduatorie fra i vari libri non mi riferisco al loro valore oggettivo, anche perché sarebbe infingardo paragonare libri usciti avantieri e testi scritti da Dante o Pirandello; mi affido esclusivamente al grado di piacere che ho provato leggendoli, il quale essendo contingente può variare anche in base a fattori non ponderabili. Il saggio della Mastrocola, ad esempio, ho impiegato più di due settimane a finirlo perché è capitato in un periodo in cui pativo male fisico irreprimibile dovuto alla sovraesposizione a Oxford e il medico mi aveva proibito di affaticarmi occhi e cervello (e anche se avessi voluto, mi bastava aprire un qualsiasi libro per avere la tremarella). In condizioni normali, oltre a leggerlo in tempi più ragionevoli, l’avrei magari gradito ancora di più. Premesso questo, passiamo al torneo egotistico che sancisce la più dilettevole lettura dell’anno. Per ricapitolare, nel 2006 aveva vinto Espiazione di Ian McEwan, nel 2007 La vita agra di Bianciardi, nel 2008 Infinite Jest di David Foster Wallace, nel 2009 Aprire il fuoco nuovamente di Bianciardi e l’anno scorso il sullodato Fede e bellezza.

Stavolta mi voglio rovinare e per rendere più emozionante il giochetto non presenterò una lista dei tot libri migliori dell’anno ma ne indicherò crudelmente uno per mese. In gennaio, su 13 concorrenti, scelgo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi; in febbraio, su 10, The Italians di Barzini; in marzo, su 17, il Diario intimo di Tommaseo; in aprile, su 14, Libera Nos a Malo di Luigi Meneghello; in maggio, su 7 e basta (era il periodo in cui ero verdino), The way of all flesh di Samuel Butler; in giugno, su 10, History of a pleasure seeker di Mason; in luglio, su 11, Cazzi e canguri di Busi; in agosto, su 15, La luna e sei soldi di William Somerset Maugham; in settembre, su 10, Tutte le anime di Marías; in ottobre, su 11, l’Autobiografia erotica di Aristide Gambia di Starnone; in novembre, su 7 (eppure avevo un bel colorito roseo), La famiglia Winshaw di Jonathan Coe; in dicembre, su 12, i Canti del caos di Moresco.

Ora vengono i guai: bisogna dividere il tutto per trimestri e sceglierne uno per stagione. Il libro dell’inverno è The Italians: Barzini sconfigge Pennacchi e Tommaseo perché primeggia nella visione d’insieme che né un romanzo né un diario occasionale riescono a pareggiare, e ciò nondimeno conserva una qualità di prosa (inglese) e una lust zu fabulieren fuori dal comune. Il libro della primavera è History of a pleasure seeker: Mason non sconfigge Menghello e Butler; in realtà pareggiano e vanno ai supplementari, fors’anche ai rigori a oltranza, ma trovandomi con le spalle al muro e dovendo scegliere privilegio il più giovane in quanto lottare alla pari coi fantasmi del passato è un obiettivo fuori portata per molti viventi, quasi tutti a dire il vero. Il libro dell’estate è La luna e sei soldi: Maugham, rispetto a Busi e Marías, mi dà l’impressione di una più solida architettura narrativa sulla quale far volteggiare il bello stile; e la trama, che sarà pure una volgarità da giornalisti ma alla lunga conta abbastanza, è la più rimarchevole del lotto. Il libro dell’autunno è Canti del caos: come Coe e Starnone Moresco coltiva un progetto ambizioso ma, avendo la possibilità di far trascorrere dieci anni e tre editori dalla prima edizione del libro a quella definitiva, è riuscito a spingere l’ambizione ai confini con l’eroismo.

E adesso le semifinali. Fra Barzini e Mason il libro del semestre boreale è, direi, The Italians: sono incomparabili ma, a parità di lingua, vince quello che non la parla dalla nascita. Fra Maugham e Moresco il libro del semestre australe è Canti del caos: non c’è paragone in termini di vastità, coraggio e malleabilità della lingua. Finalissima. Lo dico subito, meglio Moresco; che è riuscito a conseguire la visione complessiva necessaria a un autore che voglia scrivere un saggio ma utilizzandola per un romanzo e mantenendola per mille pagine e più. Mica è vero che le dimensioni non contano.