martedì 28 febbraio 2012

L'Italia è un Paese strano (parte seconda). Ieri e avantieri è andata in onda su Rai1 una stucchevole fiction su Walter Chiari di cui ho visto solo la prima parte, combattendo col sonno e non ritenendo che la buona immedesimazione di Alessio Boni fosse sufficiente a trattenermi anche la sera successiva. I momenti più interessanti erano quelli in cui, per rendere l'idea del vertiginoso successo di pubblico, venivano riprodotti i manifesti teatrali dell'epoca sostituendo il sembiante di Boni a quello di Chiari all'interno dell'immutato schema grafico; lo stesso accadeva in un paio di circostanze con la televisione, così che si intravvedesse il contemporaneo Boni irrompere in bianco e nero dagli schermi sistemati in case di famiglie anni Cinquanta a colori. Questo aveva senso in quanto creava un effetto di scatole cinesi metatelevisive; non aveva molto senso, invece, la fiction in sé, per un motivo elementare. La fiction come genere ha un target televisivo, in quanto ne fruisce esclusivamente un pubblico abituato a guardare la tv  prono a identificare la realtà con lo schermo; non a caso, buona parte delle fiction è basata su una storia vera: Giovanni Paolo, I, il Grande Torino, Gino Bartali, Giuseppe Di Vittorio, eccetera. In compenso la fiction inserisce degli elementi inventati - di solito all'interno di una grande storia d'amore, ma non nel caso di Giovanni Paolo I - che favoriscono l'interesse del pubblico terra terra, quello che è interessato esclusivamente allo sviluppo delle trame ma non riesce a comprenderne di troppo complesse, in cui non ci si bacia né ci si spara. Anche in questo caso può avere senso, visto che l'obiettivo della fiction è avvicinare alla portata di un pubblico esclusivamente televisivo porzioni della cultura nazionale che esulano dallo schermo: per esempio non esistono immagini del conclave che ha eletto Giovanni Paolo I e quindi la fiction deve mostrarle (inventate) per renderle reali. In queste circostanze il falso è un necessario momento del vero. Non nel caso di Walter Chiari, però, visto che in larga parte la prima metà della fiction ha inseguito vanamente la riproduzione pedissequa di ciò che era già disponibile negli archivi Rai, e che quindi era già a disposizione di un ideale pubblico assolutamente ed esclusivamente teledipendente. Se il tentativo era quello di raccontare l'uomo Walter Chiari nascosto dietro il comico, il tentativo è fallito perché la fiction era scritta malissimo e dava l'idea di una certa sciatteria nella ricostruzione. Se si tentava invece di raccontare Walter Chiari a tutto tondo, puntando sulla sua immagine pubblica - l'avanspettacolo, la televisione, i romanzetti sui rotocalchi - l'esperimento era a priori destinato al fallimento perché sarebbe stata la riproduzione di una riproduzione nella speranza che il pubblico trovasse la copia della copia più vera della copia dell'originale. Ora, va bene che il pubblico della tv non brilla per acume, ma di sicuro conserva quel minimo buon senso che gli permette di distinguere l'oro dalla bigiotteria. Sarebbe bastato un documentario.

lunedì 27 febbraio 2012

L'Italia è un Paese strano, come dimostra in scala il caso Buffon. Il grosso della polemica dopo Milan-Juventus - e temo che ce lo trascineremo fino a fine campionato - verte sulla rete non vista di Muntari e sul fatto che Buffon abbia dichiarato di non aver visto dov'era il pallone, e che se anche lo avesse visto oltre la linea di porta non avrebbe certo detto all'arbitro che era dentro. Tutti hanno criticato Buffon perché così non si fa; perché il capitano della nazionale ha il dovere morale di dire sempre la verità, anche nei periodi ipotetici; perché se ha sostenuto di non essersene accorto vuol dire che se n'era accorto di sicuro. Nessuno ha messo in conto due fattori decisivi: il primo è che il Milan ha cincischiato per il resto della partita e non ha fatto fruttare un'evidente superiorità cercando con maggiore determinazione il raddoppio che avrebbe con ogni probabilità assicurato la vittoria, mentre invece è stato più comodo dire che è stata colpa dell'arbitro, del guardalinee, del portiere avversario, delle recriminazioni di Conte, dell'onda lunga di Calciopoli, del destino cinico e baro, a me m'ha rovinato la guerra, se non c'era la guerra a quest'ora stavo a Londra, eccetera eccetera. Il secondo è che Buffon, di qua o di là dalla linea, ha fatto una parata sensazionale per plasticità e prontezza, una parata che sarebbe stata impossibile per buona parte dei suoi colleghi oltre che per i trenta o quaranta milioni di critici da poltrona che lo rimproverano perché ha osato dire ciò che pensava e ciò che molti altri avrebbero pensato al posto suo. Io non sono del novero: io ritengo che Buffon abbia fatto bene a parare senza chiedersi da che lato fosse il pallone; ritengo che avrebbe fatto bene a non autodenunziarsi all'arbitro perché con la correttezza non si va da nessuna parte, tutt'al più si viene ospitati da Fabio Fazio; ritengo consolante che il capitano della nazionale sappia quando mentire con classe perché, se lo stesso episodio fosse accaduto in una partita dell'Italia, magari decisiva, magari di un Mondiale, preferirei che un portiere non vanifichi anni di sforzi collettivi per fare bella figura davanti alle telecamere e ricevere il premio fair play che è il contentino dei perdenti. Buffon ha sbagliato a parlare così perché ha dimenticato che i suoi connazionali, appena vedono qualcuno sbagliare, diventano tutti Seneca e Catone; soprattutto non ha capito che il livore delle polemiche che lo accerchiano finge di essere causato dalla piccola e ipotetica scorrettezza ma in realtà è figlio della grande e tangibile parata, perché in Italia si perdona tutto tranne il talento.

venerdì 24 febbraio 2012

Il Giro d'Italia 2003 arriva a Pavia il 26 maggio e io sono nascosto nella folla che si accalca ai due lati di viale Matteotti aspettando ore e ore per il solo piacere di vedere sfrecciare Alessandro Petacchi che brucia gli avversari a braccia alzate e mano aperta, per siglare la quinta vittoria, lasciando gli spettatori a chiedersi: "Ma quanto è mai veloce una volata?". La lunga preparazione di una coltellata, diceva Bruno Roghi. Poiché non ci basta, alla sera torniamo sul luogo del delitto ad assistere dal vivo alla trasmissione di approfondimento di Rai3. Sul tavolino davanti ad Alessandro Fabbretti e Giggi Sgarbozza c'è ancora un cartone di pizza appena consumata; non so se si sia visto anche dalla tv, ma io non riuscivo a distoglierne lo sguardo perché mi sembrava la prova che il ciclismo è uno sport vero, immerso nella vita quotidiana fino alla cima dei capelli; non ascoltavo più cosa dicessero Fabbretti e Sgarbozza perché il cartone mi sembrava assurgere al ruolo che le scarpe dipinte da Van Gogh hanno per la teoria estetica di Heidegger (ora tutti dovete annuire facendo finta, come me, di ricordarvi a cosa mi stia riferendo di preciso).


Fidatevi, la partenza è un po' così ma Petacchi, Sgarbozza e Heidegger sono la necessaria premessa per l'anticipo di questa settimana su Quasi Rete (i cronisti di Sky direbbero, il superanticipo): il Milan-Juventus che fu finale di Champions League 2003.

giovedì 23 febbraio 2012

C’è stata un’équipe di scienziati, i canadesi della Brock University, pagata apposta per dimostrare che chi vota a destra è cretino. Il procedimento è stato impeccabile. Per prima cosa hanno contattato un cospicuo numero di inglesi che da un altro studio risalente a qualche anno fa risultava essere molto meno intelligente della media nazionale. Non si sa perché non abbiano scelto fra i propri connazionali: forse in Canada nessuno vota a destra, o forse in Canada nisciuno è fesso. Poi hanno posto a questa rappresentativa selezione una serie di questioni politiche, del tipo: “Accettereste di lavorare con un negro?” “Cosa fareste se il vostro vicino di casa appartenesse a un’altra razza?”. I risultati hanno incontrovertibilmente dimostrato che più basso era il quoziente intellettivo dell’interrogato più di destra era la risposta alla domanda.


Finalmente, era ora che qualcuno dimostrasse che chi vota a destra è un cretino. Non appena ho avuto per le mani i risultati di quest'epocale scoperta, mi sono scatenato sul numero di Tempi in edicola questa settimana.

mercoledì 22 febbraio 2012

Una delle principali novità introdotte nel giornalismo sportivo dal massiccio intervento della pay-tv è la chiusura di ogni telecronaca con lo svelamento dell'uomo partita Sky. Il calcio è uno sport collettivo ma la sua mitologia è sovente alimentata dai singoli: l'uomo partita non è pertanto un'invenzione di Murdoch ma nell'immaginario italiano risale se non altro ai tempi del Mundial '82, quando sul monitor dello stadio Sarrià apparve in caratteri squadrati l'ode a Paolo Rossi autore di una tripletta contro il Brasile e di conseguenza "hombre del partido". Quando la Coppa Intercontinentale era una cosa seria, benché disputata di mattina in Giappone, il calciatore reputato decisivo per la risoluzione del match vinceva una Toyota messa in palio dallo sponsor e parcheggiata a bordo campo, col rischio di essere presa a pallonate; tutti ricordano quando Alberigo Evani sbloccò all'ultimissimo una Milan-Nacional Medellin inchiavardata sullo 0-0 e due minuti dopo gli venne consegnata un'enorme chiave dorata alta quasi quanto lui, che se la trascinava in giro per il campo mentre il capitano Baresi sollevava la tradizionale Coppa Intercontinentale e il vicecapitano Tassotti la futuribile Toyota Cup. Detto questo, mi sembra che il salutare cambiamento apportato dalla pay-tv vada simboleggiato anche nei riconoscimenti: essendo oramai il calcio un accidente superfluo nell'evento televisivo, l'uomo partita Sky a mio avviso dev'essere sempre il telecronista. Per lo scorso turno di campionato sono in dubbio fra il cronista di Genoa-Chievo e quello di Cesena-Milan. Il primo ha strillato tutt'a un tratto: "Miracolo di Sorrentino! Decisivo! Che parata!", e poi, mostrando il replay, ha commentato: "Ecco, vedete che Sorrentino forse sfiora la palla". Il secondo non ha potuto esimersi dall'annunziare la "sfida decisiva di sabato fra Milan e Juventus, due squadre che continueranno a giocarsi il campionato fino all'ultimo". Per quel che concerne la Champions League, dovrebbe vincere per acclamazione il cronista di Napoli-Chelsea, il quale mentre la partita volgeva al termine ci ha illuminati così: "David Luiz potenzialmente è un difensore fantastico, peccato che commetta almeno una sciocchezza a partita". La mia ipotesi è che fosse sotto choc per avere ricevuto una lettera anonima in cui gli si rivelava che sua moglie potenzialmente è fedelissima, peccato che gli metta le corna almeno una volta al dì.

lunedì 20 febbraio 2012


Poche chiacchiere: il Festival l’ha vinto Belen, dimostrando che un nanosecondo di svolazzo fa dividere e palpitare più di un’ora e mezza di sermone di Celentano; l’ha vinto causando l’intemerata di Elsa Fornero su ruolo e immagine della donna in tv; l’ha vinto costringendo Pierluigi Bersani a intervenire nella diatriba dichiarando che il modello per sua figlia dev’essere il ministro e non la farfallina. Al che si sono aperte le cateratte di Repubblica: non solo con Concita De Gregorio, che auspica per l’anno venturo un Festival presentato da “Geppi Cucciari affiancata da due valletti maschi nudi e cretini con una bella balena tatuata sull’inguine”, ma perfino con la brillante Natalia Aspesi. Costei, pur criticando chi critica Sanremo perché lo trova “orrendo, banale, porno, ignorante, immorale, blasfemo, muffo, inutile, vergognoso, scemo”, non s’è trattenuta dallo scorgervi “un Festival pieno di maschi anziani”, con tutte le lubriche conseguenze del caso: un po’ come quando Nichi Vendola rimproverò i politici di essere troppo maschi, troppo vecchi e troppo rincoglioniti per governare l’Italia come si deve.

La vittoria di Belen è stata talmente fulgida da dover essere controbilanciata da un podio tutto femminile, benché ancora oggi nell’iconografia festivaliera per ogni foto di Emma col trofeo si trovino dieci inguini tatuati; è stata talmente schiacciante da ottenebrare le menti al punto di non riconoscere che oltre agli estremi opposti Belen/Fornero esistono anche modelli femminili intermedi. Uno, ideale, rischiava di passare inosservato, confinato ai ritagli di tempo e agli orari da nottambuli della gara dei giovani, però qualche attenzione l’ha attirata. Se avessi una figlia vorrei che fosse come Erica Mou, non solo perché è graziosa ma composta, non solo perché quando canta scandisce ritenendo che il testo non sia d’ostacolo all’ascolto, e non teme di infarcirlo di parole di quattro sillabe. E nemmeno perché è spigliata, non si perde d’animo quando Morandi la chiama Enrica ma imbraccia la chitarra e, a ventun anni, canta la vecchiaia sorridendo.

Erica Mou è un modello perché non si fa vanto di essere giovane preferendo essere brava, non piange a fine esibizione, non si lamenta del destino avverso che la fa classificare seconda alle spalle di un adolescente il cui massimo pregio artistico è di saltellare su un piede mentre canta; non si sente  sottovalutata perché donna, non ingaggia la polemica contro l’ottusità del voto popolare, non minaccia di abbandonare quest’Italia che non premia il talento, non dichiara che abbiamo un problema con la democrazia poiché vincono sempre i più telegenici invece dei più bravi. Erica Mou canta, sorride, perde e quando la interrogano sull’immagine femminile a Sanremo, invece di puntare il facile dito contro Belen, fulmina la Fornero e la pletora di lamentose e inerti coetanee vittimiste: “Al Festival ci sono tante brave artiste. Il ministro poteva televotarmi; spero che l’abbia fatto”.

venerdì 17 febbraio 2012

La parola, quella parola che nessuno pronunzia da diciott'anni, continua a non venire pronunziata perché i festeggiamenti previsti per la domenica precedente hanno dovuto subire un necessario rinvio: alla Roma bastava vincere col Napoli o attendere che la Juventus pareggiasse, e invece i risultati si sono invertiti così che la Roma ha pareggiato, la Juventus ha vinto, e la Gazzetta dello Sport ha erroneamente diffuso un inserto speciale con una settimana d'anticipo, celebrando la Roma campione d'Italia quando ancora le mancava una partita, l'ultima ed estrema. Si calcola quante tonnellate di rogna possa portare una disattenzione del genere. Gli ottantamila sugli spalti, se potessero, scenderebbero in campo loro a giocare contro il Parma, tutti e ottantamila contro gli undici avversari peraltro bravini (c'è ancora Buffon che sarà presto juventino, ci sono Almeyda e Di Vaio che erano laziali), ma sono troppo impegnati nel gesticolio apotropaico per poter farlo.

Su Quasi Rete l'anticipo di questa settimana è Roma-Parma 3-1, il giorno dell'ultimo scudetto della Maggica. Se non vi basta, c'è pur sempre il libro che peraltro verrà presentato da Roberto Beccantini alla Libreria dello Sport di Milano (Via Carducci, 9), alle ore diciotto di oggi venerdì 17, in spregio a ogni scaramanzia.

giovedì 16 febbraio 2012

Non per citarmi ma lunedì scorso avevo commentato la controversa faccenda delle lesbiche, di Giovanardi e della pipì scrivendo che non si trattava di una notizia perché tutto - dall'ostilità di Giovanardi alla reazione indignata del popolo della rete - era prevedibile e in qualche modo già scritto. Avevo anche consegnato un pronostico in busta chiusa, scrivendo che restavo "in attesa che il popolo della rete si organizzasse per un'azione dimostrativa (che so, baciarsi in massa sotto casa di Giovanardi, oppure fare pipì nella Fontana di Trevi)". E voilà, oggi i miei informatori modenesi mi riferiscono che i giovani iscritti della locale sezione del Pd hanno organizzato per domenica prossima una limonata collettiva sotto casa di Giovanardi: pare proprio che la notizia, nonostante sia riportata anche da Repubblica, sia vera. A questo punto o io sono un genio della strategia politica e pronto ad affiancare il Mago Cerasa alle Invasioni Barbariche, oppure i giovani del Pd di Modena hanno trovato inaspettatamente in me il guru da seguire ciecamente, oppure i medesimi giovani del Pd di Modena sono leggermente prevedibili, un po' come i loro compagni più cresciutelli quando organizzano le primarie apposta per perderle.

Per dire com’è cambiato il giornalismo sportivo. L’altro giorno Fabio Geda, mentre presentavo con Francesco Savio Anticipi, posticipi a Torino, mi ha chiesto se il mio rimpianto del calcio d’antan non fosse che nostalgia fine a sé stessa, dovuta esclusivamente al fatto che, essendo passatista, il passato mi piace solo in quanto passato, mentre se fosse presente non mi piacerebbe. Lì per lì non ci avevo pensato; ma avere bevuto due o tre amari prima della presentazione (bisognava riscaldarsi) mi ha consentito di formulare il pensiero con chiarezza. Guarda, ho risposto, se facciamo un paragone fra il calcio del 2011 e quello del 1991 notiamo che sono cambiate più cose di quante non fossero cambiate fra il 1991 e il 1971, o fra il 1971 o il 1951, per non dire addirittura fra il 1991 e il 1951. C’è una discontinuità per la quale sembra che, a un certo punto dopo il 1991, il calcio abbia smesso di essere ciò che era stato, con sviluppo innegabile ma coerente, a partire dal 1929 (istituzione della Serie A a girone unico) e sia diventato qualcosa di molto somigliante però diverso. Ecco, è diventato un’imitazione che cerca di superare il modello originale screditandolo. Quando si può individuare il punto di rottura? A occhio, secondo me, nell’estate 1993, al primo posticipo di una partita per consentirne la trasmissione televisiva a pagamento, all’epoca su Telepiù: si trattava di una modesta Lazio-Foggia, finita 0-0 fra gli sbadigli, che fece dire a tutti che l’innovazione non avrebbe avuto seguito. Infatti. Va detto, a discolpa delle cassandre, che referente sommo della tracimazione del calcio sulla pay-tv era stato nominato Aldo Biscardi e pertanto l'operazione poté apparire poco credibile. L’abitudine, fino ad allora, era che se una partita veniva posticipata – che so, per neve – veniva poi trasmessa in diretta gratuita sulla Rai ventiquattr’ore dopo, non appena la neve si squagliava. Guardate invece oggi: basta qualche fiocco gagliardo e si impazzisce, una domenica si decide di giocare otto partite tutte alle tre del pomeriggio e la domenica dopo alla stessa ora se ne giocano solo tre (ma una è Inter-Novara che oggettivamente ne è valsa almeno il doppio). L’idea che una partita potesse, anzi dovesse, venire posticipata o anticipata per consentirne la trasmissione invertì il consueto rapporto fra esse e percipi: non si portavano più le telecamere allo stadio perché lì si giocava ma si giocava allo stadio perché lì c’erano le telecamere. La partita è dunque diventata progressivamente un momento di una narrazione che procede al di fuori di e indipendentemente da essa; ormai non è neppure il momento più importante, come dimostrano le ore di chiacchiere sulla Rai (figuriamoci sul satellite) riguardo a una Catania-Roma sospesa per pioggia o a un paio di incontri della Juventus rinviati per neve. Questo ha cambiato inevitabilmente la presentazione dell’evento, passato o futuro, sui giornali.

Non so dire tecnicamente quale effetto possano esercitare i transistor sulle grammatiche, ma una delle prime conseguenze dell’inglobamento del calcio nel televisore è stata la sparizione del predicato verbale dai titoli delle gazzette. Poniamo che il Milan stia per andare in serie B ma si salvi solo all’ultimo minuto con un rocambolesco goal di Ignazio Abate. Vent’anni fa la Gazzetta (come qualsiasi altro quotidiano) avrebbe intitolato così: “Abate salva il Milan”, spiegando nel sottotitolo: “Un goal del terzino dà alla squadra di Allegri il punto decisivo per restare in A. I rossoneri scavalcano la Cavese che raggiunge Lecce e Inter, da tempo condannate dalla matematica”. Oggi la Gazzetta (come qualsiasi altro quotidiano) intitolerebbe: “Culo Milan”, oppure “Sant’Abate”, oppure “Argh”. Non ci credete? Nel 1963, quando il Milan vinse la prima Coppa dei Campioni, il titolo della Gazzetta fu “E’ del Milan il titolo europeo”. Nel 2007, quando il Milan vinse la settima, il titolo della Gazzetta fu “E vai”, con sette punti esclamativi. Ieri, il Milan ha surclassato l’Arsenal meritando il titolo “Milan bellissimo”. Non ho controllato se sui quotidiani londinesi il titolo invece recitasse: “Argh”.

Fin qui le differenze rispetto a ieri. E domani? Domani non si sa, ma oggi c’è il web 2.0, che cambia definitivamente la nostra percezione del calcio, dopo che la tv ne ha cambiato l’essenza; da qui possiamo trarre qualche auspicio. Come accennavo all’inizio, avantieri ero a Torino e vi ho trascorso l’intera giornata, concedendomi un amaro anche dopo la presentazione tanto per arrotondare. Sono rientrato a Pavia che s'erano fatte le 23 e, invece di mettermi a compulsare i risultati di Champions League ho ritenuto opportuno prendere una pizza in cartone; tant'era buona che sono andato a letto dimenticandomi di controllare i risultati. Poco male, mi son detto svegliandomi di soprassalto a un'ora imprecisata e buia: lo farò domani con tutto il mio agio, grazie al cielo c'è internet che garantisce una comunicazione continua, esauriente e stabile, in cui tutto si crea e nulla si distrugge. Al mattino dopo, prima di mettermi a lavorare, sono andato sul sito della Gazzetta (ma sarebbe successo lo stesso con qualsiasi altro quotidiano) sicuro di apprendere immantinente il risultato di Bayer Leverkusen-Barcellona, ma la principale notizia data dal sito era un rumor secondo il quale Paolo Maldini avrebbe presto o tardi avuto qualcosa a che fare col Paris Saint Germain. Allora mi son detto: questo è lo specchietto per le allodole, servirà plausibilmente a far aumentare i contatti del sito mostrando che è talmente aggiornato da non dare solo le notizie man mano che accadono in tempo reale ma anche quelle non ancora accadute. Mi sono messo il cuore in pace e sono andato sulla sezione "calcio", sicuro che lì la prima notizia sarebbe stata il risultato di Bayer Leverkusen-Barcellona in quanto nella ore intercorse dalla fine della partita non era sicuramente successo nient'altro di rilevante, calcisticamente parlando. Infatti sulla sezione "calcio" la notizia principale era che Guardiola, l'allenatore del Barcellona, durante la partita in questione aveva indossato una sciarpa nera e azzurra e di conseguenza stava annunciando al mondo che sarebbe stato il prossimo allenatore dell'Inter (tanto più che, interrogato al riguardo, ha risposto: "A priori non lo escludo"; ma ditemi voi, in un anno in cui ci sono già capitati Monti, la Concordia, il terremoto, la neve e le profezie Maya vi sentireste, qualsiasi cosa vi chiedano, di escluderla a priori?). Bisogna tuttavia dare atto di due cose. La prima è che in un punto più basso e meno vistoso della sezione "calcio" si parlava dell'andamento della partita; solo che stante la proibizione di utilizzare i predicati verbali, figuriamoci le cifre esatte, il titolo era solo "Troppo Barça", ragion per cui per sapere quanto fosse finita la partita (1-3) non ho potuto che cercare il risultato sul televideo Rai. La seconda è che mica è un guaio del calcio e basta, altroché: ieri pomeriggio sul sito del CorSera le prime tre notizie riguardavano cosa sarebbe potuto accadere alla presenza di Celentano nelle prossime serate di Sanremo, mentre la quarta riferiva che l'Italia era entrata in recessione.

Se dunque mi chiedete un pronostico su cosa diventerà il giornalismo sportivo nei prossimi anni grazie al sorpasso che internet inevitabilmente effettuerà su un mezzo antiquato come la televisione, sappiate anzitutto che sarà un giornalismo senza sostantivi, oltre che senza predicati verbali: l'ottava Coppa del Milan sarà salutata col titolo "Fichissimo", la nona con "MMMMM". Sappiate anche che sarà un giornalismo senza risultati: prima spariranno le formazioni, poi i marcatori, poi i tabellini e infine le classifiche, così che il grosso della discussione critica sportiva, prima durante e dopo le partite, verterà sul tema "Siamo primi noi", "No, voi siete quarti", "In realtà abbiamo pareggiato", "Mi hanno detto che ho segnato ma non so, non ho visto la partita". Infine, sappiate che sarà un giornalismo tutto coniugato al futuro per timore di risultare superato: di modo tale che, con un'audace modifica al regolamento del giuoco del calcio, sul campo varranno soltanto le reti che non sono ancora state segnate.

lunedì 13 febbraio 2012

Un tempo, nell'immaginario collettivo, il giornalista era un signore con cappello a tesa larga e scritta "press" infilata nel nastro che andava in giro a ripetere non richiesto: "Un cane che morde un uomo non è una notizia, la notizia è l'uomo che morde il cane". Poi la situazione si è evoluta non per il meglio e oggi si fa fronte alla necessità di riempire in qualche modo i telegiornali abitualmente sguarniti della domenica (nonostante i commendevoli sforzi dell'Inter) finendo per dare la notizia che Carlo Giovanardi è ostile alle effusioni saffiche in pubblico tanto da equipararle all'atto della minzione, che va bene al chiuso ma non all'aperto. Dopo che ci si è difficoltosamente riavuti dalla sorpresa (ma come! contrario alle effusioni saffiche! in pubblico! Giovanardi!) si è scatenata la consueta protesta su vasta scala di quello che i giornali de sinistra chiamano "il popolo della rete", il che è un po' come dire "il quarto stato dell'elenco telefonico" o "l'esercito del bidet". I giornali di oggi, che hanno raggiunto un numero di pagine ormai esorbitante credendo di poter fare concorrenza a internet sforzandosi di superarlo per quantità di contenuti, hanno doverosamente riportato entrambe le notizie. Ma sono notizie? Non sembra una notizia che Giovanardi dica che è ostile alle effusioni saffiche; caso mai potrebbe essere una mezza notizia, benché passata sotto silenzio, il fatto che Giovanardi non abbia equiparato il peccato al reato e che abbia riconosciuto implicitamente che nel segreto di casa propria ognuno, così com'è libero di far pipì quando più gli aggrada, è altrettanto libero di andare con donne uomini animali o serrature purché non dia pubblico scandalo (poi al massimo se la vede in una partita a tre con la propria coscienza e l'eventuale confessore, e dopo morto con Dio; lo Stato invece non c'entra). Invece niente: questo è sfuggito ai giornali e soprattutto al popolo della rete, troppo impegnato a indignarsi per capire cosa c'è scritto fra le righe di un articolo. In attesa che il popolo della rete si organizzi per un'azione dimostrativa (che so, baciarsi in massa sotto casa di Giovanardi, oppure fare pipì nella Fontana di Trevi), bisogna porsi le seguenti domande: è una notizia che Giovanardi non incoraggi il pubblico dispiego di effusioni saffiche? no; è una notizia che questo fantomatico popolo della rete sia composto da persone che ritengono alla moda patrocinare fantasiosi diritti su facebook, o twittare a zero su parlamentari eletti da altri, o dimostrare di appartenere all'alta società appiccicando sull'header del loro blog una spilla arcobaleno virtuale? nemmeno; allora perché tv e giornali hanno dato spazio a questi eventi più di quanto non ne abbiano concesso alla novità che al bar si fa il caffè o che i gravi tendono a cadere verso il basso? Non si sa. Fatto sta che fra una reazione indignata e l'altra è emerso che secondo Anna Paola Concia è inammissibile che Giovanardi viva libero in Senato: questa è una notizia, perché nessuno sapeva Giovanardi disponesse di una brandina nella buvette di Palazzo Madama, a meno che la Concia non intendesse che Giovanardi al senato vive "libero" nel senso di "allo stato brado", facendosi strada carponi fra i decreti legge, rovistando col muso fra i regolamenti parlamentari, alzando la zampa di fianco ai busti dei Presidenti della Camera Alta e brucando emendamenti. Inoltre la Concia ha detto che ciò può accadere solo in Italia perché, se soltanto fossimo stati in Germania, Giovanardi da mo sarebbe in carcere. Dunque un parlamentare lancia l'idea dell'incarceramento di un altro parlamentare che non la pensa come lei e il cui partito per giunta prende pure più voti: abbiamo trovato la notiziona del giorno, bastava cercarla.

domenica 12 febbraio 2012

Ricevo e pubblico ben volentieri:

Continua la fortunata tournée in Padania di Antonio Gurrado e Francesco Savio, che in Anticipi, posticipi (Italic Pequod) hanno raccolto le loro omonime ed eponime rubriche tratte dal blog letterario della Gazzetta dello Sport: pagine che non avrebbero potuto impreziosire i vostri scaffali se non vi fossero stati né Quasi Rete né Em Bycicleta.
Dopo i fasti della presentazione decembrina a Pavia - dove la moltitudine festante di quasi dieci spettatori ha portato in trionfo i due fino al bar più vicino, rinnovellando in cotal guisa l'episodio occorso nella medesima città a Ugo Foscolo dopo che vi aveva pronunziato l'orazione Dell'origine e dell'ufficio della letteratura - Gurrado e Savio bloccheranno il traffico di Torino e Milano più di quanto non abbiano già fatto la neve e Pisapia.
Se volete trascorrere un San Valentino diverso, martedì 14 febbraio alle ore diciotto potete assistere alla presentazione di Anticipi, posticipi alla libreria Feltrinelli di Torino (piazza CLN, 251). Presenterà Fabio Geda, autore del fortunato Nel mare ci sono i coccodrilli.
Se non siete superstiziosi, venerdì 17 febbraio alle ore diciotto potete vedere Gurrado e Savio in 3D alla Libreria dello Sport di Milano (Via Carducci, 9). Presenterà Roberto Beccantini, che a sua volta non ha bisogno di nessuno che lo presenti e che è stato tanto gentile da voler scrivere la prefazione all'aureo libretto.
Corriere della Sera, pagina 11: è morto Guido Fanti, amato sindaco di Bologna, carica nella quale successe al controverso Dozza, nonché primo presidente della Regione Emilia Romagna. Nonostante le sue posizioni sovente eterodosse rispetto alla dottrina di partito, e nonostante i decenni trascorsi dalla fine del suo impegno politico attivo, la città gli tributa un affetto che testimonia il tuttora elevato gradimento che l'ex sindaco riscuote fra i cittadini bolognesi. Corriere della Sera, pagina 10: nella corsa a sindaco di Verona il Pdl progetta di appoggiare Flavio Tosi, non solo per offrire un segnale distensivo (su scala nazionale) alla Lega riproponendo la trionfale alleanza (su scala locale) del 2007, ma anche quale oggettivo riconoscimento alle capacità del sindaco. A cinque anni dalla sua elezione, Tosi è tuttora il più apprezzato fra i suoi colleghi di ogni parte d'Italia, avendo mantenuto un altissimo coefficiente di gradimento fra i cittadini veronesi. Corriere della Sera, pagina 2: un sondaggio condotto dalla rivista Stern comprova che Mario Monti è il più apprezzato fra i premier delle varie nazioni, incontrando il gradimento di più del 60% degli interrogati, accuratamente scelti a campione fra gli 80 milioni di cittadini tedeschi. Tutto si tiene mirabilmente.

sabato 11 febbraio 2012

Un tempo (era il 1966) c'era Scusi, lei è favorevole o contrario? In seguito (era il 1982) venne No grazie, il caffè mi rende nervoso. Nel 1985 un barbuto cronista Rai del quale non riconosco più né la faccia né la voce escogita una mirabile sintesi dei due lemmi chiedendo d'emblée a Osvaldo Bagnoli: "Scusi, lei si sente nervoso?". "Ci sono momenti che tremo tutto", risponde il Naso della Bovisa. E' accaduto che prima di Verona-Ascoli allo stadio Bentegodi è stato diffuso un ciclostilato gialloblu - che qualcuno sbircia occultandolo nella copia de L'Arena, forse per timore di essere incriminato per concorso esterno in terrorismo scaligero - il cui titolo strilla: "FORZA VERONA siamo soli contro tutti".


Su Quasi Rete il mio anticipo di questa settimana è un Hellas Verona-Ascoli del gennaio 1985, con l'Osvaldo Nervoso e Dirceu che gioca dalla parte sbagliata. Faceva meno freddo.

venerdì 10 febbraio 2012

Da un paio di giorni io e Fabio Capello abbiamo una cosa in comune, ma non si tratta né dei quadri di Kandinsky che lui ama collezionare, attirandosi le sapute ironie di chi vorrebbe che il rutilante mondo del calcio si limitasse al collezionismo di auto sportive e cosce aperte, né dei ciclopici prosciutti che stando ad alcune fonti gli vengono recapitati annualmente dalla Spagna quale parziale ricompensa per avere contribuito alla manutenzione della gloria del Real Madrid. Quando era arrivato in Inghilterra il giardino davanti alla sua nuova casa era stato assalito dai giornalisti a caccia di non si sa cosa; poiché non trovavano niente da rimproverargli così su due piedi, i quotidiani del giorno seguente (non mi riferisco solo ai tabloid scandalistici) si concentrarono sulla notiziona che, cacciandoli dal suolo privato, Capello aveva commesso un solecismo in quanto si era rifugiato in una farraginosa traduzione letterale dell'italiano "Andatevene da casa mia" invece di utilizzare l'espressione idiomatica "Get out of here". Quando l'Inghilterra è stata eliminata dagli ultimi Mondiali, riproducendo una volta di più il risultato che le compete ininterrottamente dal 1950 - a eccezione del 1966 (quando s'organizzò la vittoria in casa) e del 1990 (quando in un paio di occasioni rischiò comunque di essere ridicolizzata, perfino dal Camerun) - i giornali inglesi hanno abbandonato i toni trionfalistici che li caratterizzano a bocce ferme per puntare l'indice contro l'italiano e addossargli il grosso della colpa della sconfitta: che evidentemente non dipendeva invece dalla masnada di calciatori coi piedi quadri, la testa vuota, la bottiglia facile e il testosterone iperbolico che rappresentavano la patria in Sudafrica.

Gli Inglesi, si sa, inventarono il calcio per voluttà d'esser sconfitti; ma nella monotonia della disfatta ultimamente hanno scoperto il diversivo del linciaggio per futili motivi: fu così con Steve McClaren, colpevole di avere assistito a un'imbarazzante partita contro la Croazia sotto un ridicolo ombrello gigante coi colori della Federazione; fu così con Sven Goran Eriksson, colpevole di essere svedese e di avere una donna (relativamente) giovane, bella e per giunta italiana; figuriamoci come poteva andare con Capello, che era italiano egli stesso e a prima vistanon corrispondeva a nessuno dei principali luoghi comuni sugli italiani. Non gli hanno mai perdonato di non sembrare ciò che si aspettavano che fosse e l'hanno colto in castagna su quella che resta, secondo me, la principale differenza fra gli anglosassoni e noi.

In Italia, periodicamente, siamo vittime della coazione al politicamente corretto e ci facciamo un dovere, sui campi da calcio, di presentarci due o tre domeniche l'anno con gli striscioni ammonitori, le magliette indignate, le sciarpe dell'amore e così via. Tuttavia fingiamo di essere e non siamo: ci adeguiamo un po' per ipocrisia, un po' per opportunismo, un po' per pecorismo ma appena finisce la partita - o magari anche prima - torniamo a essere persone normali, con idiosincrasie inevitabili e pregiudizi più o meno giustificati, con interessi di bottega e un pizzico di sana cattiveria, o cinismo, o realpolitik. Sappiamo tutti dalla culla che gli Stati non si tengono co' i Paternostri in mano e ce ne facciamo una ragione, anzi ci giochiamo, trasformiamo questa consapevolezza in una disfida nera sulla quale ricamare le nostre vite e misurarne il successo. In Inghilterra la distinzione fra essere e dover essere  - fra sein e sollen, visto che ormai qui bisogna parlare tedesco - è svanita da tempo. Si esige che gli Inglesi siano veramente ciò che sarebbe auspicabile che fossero: sobri, non fumatori, non razzisti, aperti alle religioni altrui (specie se islamiche), gay-friendly, un po' zoccole ma col preservativo, eccetera eccetera. Ciò ha portato da un lato a un inedito culto delle apparenze e dei formalismi ai quali ha fatto seguito la proliferazione di posizioni professionali (inutili e dannose) volte a monitorare la correttezza politica, religiosa, sanitaria, sessuale, sociale, culturale, storica, geografica, geometrica, metafisica, eccetera eccetera. Dall'altro ha patrocinato un progressivo appiattimento sulla convenienza a discapito del merito, ritenendo che non importi il talento di una persona, o la veridicità di ciò che sostiene, se contravviene all'idée reçue impanata e fritta che si ritiene debba essere preponderante onde evitare disparità, malinconie, offese.

I fatti sono questi, per chi non li conoscesse. Al capitano dell'Inghilterra, John Terry, la Federazione ha levato la fascia dal braccio perché avrebbe rivolto degli insulti razzisti a un avversario durante una partita di campionato. Si è ritenuto di deprivarlo sulla scorta dell'idea che un capitano debba dare il buon esempio; quando il calcio - che è sudore e fango, niente a che spartire col premio Nobel per la pace - esige che il capitano sia o il calciatore con più esperienza in squadra (modello Franco Baresi) o quello più rappresentativo e talentuoso (modello Diego Armando Maradona). Non importa se poi l'uomo in questione sia un puttaniere o un cannibale; l'importante è che si comporti abbastanza correttamente sul terreno di gioco, cercando comunque di favorire la propria squadra e non l'altrui. Fabio Capello, che pure non ama Terry (a differenza delle mogli di alcuni compagni di squadra), ha sostenuto esattamente questo: che la Federazione poteva togliere a Terry tutte le fasce che voleva e magari pure amputargli il braccio, ma non per questo sarebbero venute meno l'esperienza e il talento di Terry che lo rendono il più rappresentativo fra i connazionali e quindi capitano de facto. Aggravante, Capello ha osato sostenere quest'enormità su una tv italiana, quando è noto che le uniche fonti fededegne di informazione siano quelle d'oltremanica. Invitato - nella maniera in cui lo fanno gli inglesi, con mezze parole costernate e singulti di stupore - a ritrattare ciò che aveva sostenuto, in quanto corrispondeva alla verità effettiva e non a quella auspicata, Fabio Capello ha prenotato il primo aereo con biglietto di sola andata.

Ha fatto bene. Va bene i soldi ma la libertà di comportarsi da persona normale invece che da burattino del  politicamente corretto vale di più. Gli restano i prosciutti barocchi di Spagna e la collezione di quadri di Kandinsky, che subito sono diventati "presunti Kandinsky" sulla stampa britannica. Presto, c'è da scommetterci, sentiremo parlare perfino di "presunti prosciutti". E adesso segnatevi la data: la stessa stampa gli darà immancabilmente dello Schettino il 20 giugno, quando l'Inghilterra sarà stata eliminata dall'Europeo con due punti su tre partite con Francia, Svezia e Ucraina e la polemica uscita di scena di Capello sarà ritenuta l'unica responsabile del fallimento; quando invece il problema non è il capitano che la abbandona, il problema è la nave che affonda da quarantasei anni.

mercoledì 8 febbraio 2012

Prendiamo la straziante morte della piccola Nell ne La Bottega dell'Antiquario: i lettori insistono perché la risparmi da tanta fine insensata, che la preservi per farla crescere e maritare, ma Dickens è inflessibile: "Già: farla ingrassare, eh? Un angelo del focolare, eh? I figli col morbillo... La gente non capisce nulla". E così giù morti premature e destini patetici, bambini macilenti e ambienti degenerati, poveracci a iosa e "pianti esorbitanti", mentre Dickens adamantino ammette: "Ma, sa, volevo proprio dire che io, a scrivere quelle pagine, mi diverto, se non le sembra assurdo, io, io, vede, rido...".


Per scoprire la fonte di queste scandalose dichiarazioni di Dickens è necessario comprare il Foglio in edicola oggi dove spiego tutto e anche più del necessario.

lunedì 6 febbraio 2012


I cantori istituzionali dl 150° anniversario dell’unificazione hanno una memoria oltremodo selettiva. Non hanno quanto meno posto nel giusto risalto un curioso e istruttivo evento risorgimentale che segnò il punto di svolta nella lotta psicologica fra l’oppressore austriaco e gli indipendentisti lombardi; l’allora vicesegretario della congregazione municipale di Milano, Francesco Crippa, lo racconta così: “Verso le ore 4 pomeridiane del giorno 3 gennaio 1848, le contrade della città di Milano cominciarono ad essere innondate da bande di soldati che, contro la loro abitudine, i loro mezzi pecuniari, e le severe discipline militari, avevano il sigaro in bocca. Non pochi ne avevano due contemporaneamente” (il testo è riportato da Denis Mack Smith ne Il Risorgimento Italiano, Laterza). Era accaduto che da un giorno all’altro, la notte di Capodanno 1848, i milanesi tutti avevano deciso di smettere di fumare per non versare ulteriori soldi nelle già esose casse del governo austriaco. I soldati governativi, dopo la provocazione della passeggiata con due sigari per bocca, erano passati a malmenare la popolazione inerme; dopo due mesi sarebbero arrivate le Cinque Giornate di Milano.

L’episodio dello sciopero del fumo è istruttivo per cause e modalità. Il Crippa spiega che si trattava di una protesta – limitata ma ferma – originata dal senso di non essere adeguatamente rappresentati da un governo per il quale si pagavano dure conseguenze pecuniarie: “Il desiderio di miglioramenti politici, che dal più al meno fermenta ora in tutta Europa, aveva fatto nascere in molti il divisamento d’una pubblica e solenne dimostrazione da cui apparisse che qui non erasi contenti del modo con cui si era governati”; tuttavia “piacque a qualche superiore autorità il dichiarare implicitamente che tale malcontento non esisteva”. L’italianissimo colpo di genio dei rivoltosi fu di non squalificarsi con azioni violente o passibili di sanzioni ma di rinunciare a un vizietto, poco oneroso per loro ma ben retributivo per il governo, al quale nessuna legge avrebbe potuto costringerli. Il Crippa scorge chiaramente questo punto: “Non volendo né dovendo adoperare forme illegali, si adottò unanimemente il già ventilantesi partito di non fumare, e con maraviglioso ed indimenticabile esempio fedelmente ci si attenne al proposito”.

Veniamo ai nostri giorni. Se un governo aumenta direttamente o indirettamente il prezzo di ogni genere di conforto, e inventa addirittura una tassa sulla fortuna ossia sul vizietto di giocare a un gratta-e-vinci; se si ritiene che questo governo non rappresenti le intenzioni effettive della popolazione che è chiamato a beneficiare; se a ragione non si vuole infrangere la legge evadendo le imposte o ordendo atti terroristici un po’ patetici, allora basterebbe astenersi unanimemente per tutto il 2012 dall’entrare nelle ricevitorie così da non versare nelle già esose casse statali un solo euro in più del dovuto. La tassa sulla fortuna andrebbe deserta – senza giocate non ci sarebbero vincite – e si darebbe ciò che il Crippa definiva “una solenne prova che non erano veritieri i rapporti officiali e le dichiarazioni semi-officiali, con cui l’autorità politica voleva far credere che realmente queste provincie fossero a pieno contente del modo con cui si governano”. Sarebbe soprattutto la prova che gli italiani non hanno impiegato questi 150 anni a diventare gli austriaci di sé stessi.

domenica 5 febbraio 2012

Bisogna rassegnarsi: l'intelletto degli anglosassoni è naturalmente superiore al nostro. Se non siete convinti, leggete sul Sole 24Ore di oggi la recensione a The Return of Lucretius to Reinassance Florence di Alison Brown (lo so, preferireste guardare Roma-Inter). La chiave di volta del volume è che Machiavelli è un autore pagano. Ma come, dirà il lettore che essendo italiano è un ingenuo, un illetterato, un rimbambito dalle reti Mediaset, un capitano che abbandona la nave che affonda e magari è pure ingannato dalle prove testuali del cristianesimo di Machiavelli fornite qualche anno fa da Maurizio Viroli (Il Dio di Machiavelli, Laterza): Machiavelli non era nato e cresciuto in un ambiente cristiano, fratello di un prete, membro di una confraternita, autore egli stesso di un'Esortazione alla penitenza? None, ci spiega questo nuovissimo libro pubblicato a Harvard, mica a Pizzighettone; Machiavelli era pagano perché possedeva una copia annotata del De Rerum Natura di Lucrezio; poiché Lucrezio era pagano - e se anche avesse voluto essere cristiano non avrebbe potuto per via di un disguido cronologico - ne deriva che Machiavelli, possessore del suo libro, era parimenti pagano. Colpito da cotanta arguzia, ho riconsiderato con rinnovata preoccupazione gli scaffali che mi stanno di fronte in quest'istante. Poiché possiedo un volume della Cambridge University Press sui romanzieri inglesi, è evidente che sono inglese; poiché possiedo l'Almanacco Illustrato del Calcio Panini, è implicito che sono un calciatore; possiedo inoltre l'ultimo numero di Vanity Fair, quindi sono donna senza se e senza ma; possiedo perfino le opere di Machiavelli, il quale possedeva quelle di Lucrezio, ragion per cui sono pagano anch'io per innegabile proprietà transitiva. Se è per questo possiedo anche della carta igienica, ma spero che su questo i miei critici postumi sorvolino.

venerdì 3 febbraio 2012

Che meraviglia il calcio di pomeriggio! Lo sa bene Franco Zuccalà che nel bel mezzo di un gelido inverno dal quale sono trascorsi ormai più di due decenni ha tutto l’agio di preparare una grafica avanguardista per aprire il suo servizio per la Domenica Sportiva: un ciuccio azzurro dall’aria mite, forse non immemore della benedizione di Giacobbe a Issacar in Genesi 49, 14-15, che reca una bandiera col numero 36 mentre è inseguito da un diavoletto rossonero dall’aria perfida, anch’egli dotato di regolare bandierina ma col numero 34. Il messaggio subliminale che Zuccalà sta tentando di veicolare è che il Napoli (il ciuccio) è in fuga con 36 punti ma grazie a una rimonta irresistibile il Milan (il diavolo) lo ha ormai a portata di mano, inseguendolo a 34 e con l’immediato scontro diretto in casa. La vittoria vale due punti. In contemporanea, allora come oggi, si gioca anche Roma-Inter.

L'anticipo di questa settimana su Quasi Rete è Milan-Napoli 3-0 dell'11 febbraio 1990; guest star, oltre al patriarca Giacobbe, Fabrizio De André, Marco Baroni e Berlusconi che se la ride.

mercoledì 1 febbraio 2012

Quando la Shakespeare & Co. pubblicò l'Ulisse, il 2 febbraio 1922, Joyce gongolava perfido: "Ci ho messo dentro tanti di quegli enigmi che fra cent'anni gli studiosi staranno ancora cercando di risolverli". Ne sono passati novanta e nel frattempo gli studiosi hanno intasato gli scaffali con tentativi più o meno arditi di sceverare ogni ambiguità del testo in un crescendo di erudizione e costo. Intanto, nel 1984, il filologo Hans Walter Gabler ha pubblicato l’edizione sinottica dell’Ulisse in tre volumi, ormai un pezzo raro; e nel 2011, trascorsi i settant’anni dalla morte, Joyce è stato sottratto alle pastoie del diritto d’autore e l’Ulisse è diventato di pubblico dominio. La Newton Compton ha pertanto potuto pubblicarne una nuova versione da affiancare alla “traduzione integrale autorizzata” di Giulio De Angelis (Mondadori,1960).


Se nel 1922 era un incomprensibile "maledettissimo romanzaccione", cosa rende oggi l'Ulisse di Joyce un romanzo popolare? Do la risposta sul Foglio in edicola oggi.