venerdì 28 dicembre 2012


Su Tempi in edicola questa settimana è l'ora del Te Deum, come sempre per l'ultimo numero dell'anno. Ogni collaboratore scrive un articolo in cui ringrazia Dio per qualcosa di bello. Io ho ringraziato per...

"Ma come! Hai trentadue anni, sei precario, guadagni così così, non sai che mestiere farai fra dodici mesi, non hai una famiglia, non hai nemmeno una casa perché vivi in una camera in fitto in un collegio universitario. Avevi avuto l'occasionissima di scappare da questa nave dei folli che è l'Italia ma, dopo due anni e mezzo a Oxford, anziché fingere di dimenticare progressivamente la tua lingua, hai scelto di continuare a lavorare nelle università ma tornando in Italia. Sei come il protagonista del tal romanzo di Bernard Malamud, il giovane ricercatore che si trasferisce in un nuovo ateneo e quando i professori gli chiedono se ha una foto della fidanzata nel portafoglio risponde che non ha nessuna foto, né la fidanzata, né il portafoglio. Fra le mani non stringi nulla se non il poter sentirti in diritto di scendere in strada a protestare coi tuoi coetanei realizzati più o meno come te; e invece niente, non solo tiri avanti ma ti metti pure a fischiettare tutto soddisfatto?".

domenica 23 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Diciottesima giornata, 23 dicembre 2012

È stata una settimana ricca di eventi: tre. A farla breve, martedì ho preso il taxi e mi sono presentato in un istituto tecnico per sostenere il famoso test di logica-comprensione-informatica-inglese quale prima prova del concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi. Sono arrivato in lieve ritardo sulle operazioni preliminari perché la tassista era bionda e valeva la pena. Ne approfitto tuttavia per rinnovare l’invito a non credere ai giornali, sui quali è figurato che questo test fosse composto di cinquanta domande astruse fra le quali sarebbe stato impossibile ai più districarsi fornendo le trentacinque risposte esatte necessarie a superare questo primo ostacolo. A riprova di ciò, tutti i quotidiani hanno pubblicato una selezione di questioni scelte fra la decina di domande oggettivamente complesse che capitavano a ciascun candidato, tralasciando le restanti domande che costituivano il corpo portante della prova. Hanno dunque dimenticato di menzionare la quarantina di domande, su cinquanta, alle quali si poteva rispondere anche bendati, con le mani legate dietro la schiena e appesi al lampadario per l’alluce sinistro. Ve le rivelo io. Si trattava, ad esempio, di stabilire se Gennaro fosse simpatico partendo dal presupposto che Gennaro ama la Toscana e che chiunque ami la Toscana è simpatico. Nonché di scrivere al contrario la sequenza alfabetica KLKKKLLKLLKL. Nonché di completare, per chi era versato in lingua inglese, l’argomentazione “Catherine is a journalist. (His? Her? Its?) job is very interesting”.

Premesso che verrò con ogni probabilità uccellato alla seconda prova – lo scritto di cui oggigiorno non si sa gran che – in quanto la vita è breve e non ho tempo di prepararlo, il fatto che su 321.000 candidati non siano passati in 233.000 comporta varie conseguenze che elencherò sinteticamente. Con tutto il rispetto per quelli che si sono fermati a uno o due punti dal minimo consentito, l’ampia percentuale di candidati che non è riuscita a rispondere a nemmeno metà delle domande significa che un’ampia percentuale di laureati italiani non è in grado di compiere ragionamenti elementari e di capire che Gennaro è simpatico ancorché non toscano. Nonostante le mille riserve avanzate dai soliti espertoni, il solo risultato che questo test abbia ridotto drasticamente il numero di candidati significa, tautologicamente, che il ministero ha capito a priori che bastava un test del genere a ridurre drasticamente il numero di candidati, e questa dovrebbe essere l’ambizione di ogni concorso che si rispetti. Inoltre le proteste che si sono levate da ogni parte contro la presunta impossibilità dei test confermano ulteriormente gli annosi sospetti sul molle senso agonistico degli italiani: ossia che costoro preferiscono il pareggio all’eliminazione diretta, la proporzionale all’uninominale, i tarallucci e vino alla gerarchia, l’egualitarismo consolatorio alla lacrimosa meritocrazia. Non c’è niente da fare: l’idea che per scremare dei candidati si ricorra a una selezione basata su dati oggettivi risulta automaticamente ingiusta perché esclude qualcuno. Se si inciampa sulle domande in lingua straniera, si dice che non si può pretendere che tutti i professori siano poliglotti. Se si inciampa su quelle di informatica, si dice che non si può pretendere che tutti i professori siano Steve Jobs. Se si inciampa su quelle di logica, si dice che non si può affidare la selezione della classe docente a una specie di sudoku di Stato.

Il solo dettaglio che una decina di domande (ripeto, su cinquanta, quando bastava rispondere a trentacinque) potesse risultare astrusa o ambigua o ingarbugliata è stato sufficiente a tacciare di arbitrarietà l’intero procedimento selettivo. Se invece si riesce a ragionare quel tanto che basta per stabilire che Gennaro è simpatico, bisogna riconoscere un pregio a questo sopravvalutato e presuntuoso governo che tramonta senza particolari rimpianti: con tutti i difetti nell’attuazione del meccanismo, in merito a istruzione e ricerca si è basato su un principio banale per cercare di migliorare in prospettiva il livello del personale docente. Per selezionare i nuovi professori di liceo ha imbastito un test scemotto ma che, diciamocelo, buona parte degli attuali docenti in carica avrebbe trovato qualche difficoltà a superare in scioltezza. Per selezionare i nuovi professori universitari ha sancito che dovranno avere un numero di pubblicazioni superiore a quello della mediana dei professori universitari attuali; giuridicamente questo è un monstrum, va da sé, perché implica che metà degli attuali professori universitari non sarebbero in grado di passare la selezione odierna; però è l’unica maniera per far sì che fra vent’anni i professori universitari abbiano matematicamente più pubblicazioni di quante ne hanno adesso. Ma se siete convinti che questo tipo di scrematura sia ingiusta, in quanto troppo selettiva, state tranquilli perché chiunque vincerà le prossime elezioni troverà una maniera di ritornare allo status quo ante e sarà il trionfo dei principi fondanti della repubblica italiana: fraternité, égalité, mediocrité!

“Questo lungo scombiccherato Paese”, lo chiamava Gianni Brera. Me lo ricorda Andrea Maietti, che era il destinatario dell’apostrofe, durante una pacciada bassaiola per celebrare il ventennale dello schianto, mercoledì. Siamo a Lodi, lungo l’Adda, in una delle ultime osterie residue in Italia. Per tenerci leggeri abbiamo mangiato mille salumi, pescetti illegali, risotto al vino e salsiccia in cui il riso era poco più che una comparsa, coniglio con polenta e gorgonzola, eccetera. Non è vero che la pesantezza di stomaco affievolisce l’ingegno, alle volte dà coraggio; e così, mentre masticavo e ascoltavo, m’è venuto in mente che alla lunga bisognerà salvare Brera dai breristi. Bisognerà riandare a venti, trenta, quarant’anni fa e inquadrare con certezza due cose: a) che cosa ha veramente scritto, detto e pensato Brera, di là dalla fumosa immagine mitologica che si è venuta costruendo dopo la morte; b) chi era veramente dalla sua parte all’epoca e chi invece è saltato sul carro quando Brera non poteva infastidirlo più. Si otterrebbero, credo, risultati sorprendenti perché, per un Maietti che di Brera sa tutto perché l’ha veramente ascoltato e letto filologicamente, ce n’è tanti per i quali Brera è una barba, una pipa, la bottiglia vicino e qualche parola difficile a casaccio. Alcuni di loro fanno i giornalisti. Alcuni di loro fanno i nani sulle spalle del gigante. Alcuni di loro sono convinti che per essere Brera basti farsi crescere la barba, fumare la pipa, bere a damigiane e scrivere complicato. Sbagliano, anzitutto perché Brera non scriveva complicato, poi per il principio generale che se il genio ha dei tratti distintivi non basta riprodurne i tratti distintivi per diventare geni. Sbagliano anche perché Brera, a leggerlo veramente, riesce tutto il contrario dell’immaginario postumo che gli è stato cucito attorno: era crudele, selettivo, socialista a modo suo, razzista, nordista. Usava la parola “Padania” con frequenza sospetta. Oggi, a occhio, non scriverebbe sui giornali politicamente correttissimi che ne oscurano l’imago a furia d’incenso. Odiava Umberto Eco, figuriamoci come tratterebbe Saviano. Anche nel calcio aveva alcune ostinate idee sbagliate (tipo Facchetti centravanti) che affascinavano proprio perché ci credeva davvero, perché quando scriveva non cercava di fare il Brera della situazione: essendolo già, non aveva bisogno di sforzarsi di diventarlo.

Infine Brera aveva un pregio: spostava lettori, garantiva cinquantamila copie in più al giornale per il quale scriveva, trasformava in soldi il ticchettio dei polpastrelli. Non era un nemico del sistema-calcio, non era un nemico del capitalismo, non era un autore di nicchia che scriveva per gli happy few dal sopracciglio perennemente arcuato o il ditino steso a perenne monito. Soprattutto, Brera non faceva l’imitazione di nessuno, ragion per cui è improponibile voler diventare emuli di Brera imitandolo. Sapete invece chi mi ha ricordato Brera l’originale, a Lodi nel ventennale dello schianto? Maurizio Milani, non l’avrei mai detto, che era seduto in ultima fila ad ascoltare la presentazione del Calciolinguaggio di Gianni Brera di Maietti. Chiacchierandoci mi è tornata in mente un’asserzione di Mariarosa Mancuso, secondo la quale Milani è uno scrittore vero perché ha un mondo e un linguaggio. Mondo e linguaggio sono gli assi cartesiani entro i quali si è mosso Brera, funzionando perché erano il suo mondo e il suo linguaggio di riferimento nella vita quotidiana; e funzionano anche per Milani il quale, chiacchierando con vari astanti quorum ego, utilizza lo stesso mondo e lo stesso linguaggio entro i cui confini scrive, senza andare a riprodurre mondi e linguaggi altrui. Se un domani, poniamo, mi mettessi in testa di diventare l’emulo di Milani e cercassi di scrivere come lui, pernacchie meriterei e non applausi perché farei piroette in un mondo e in un linguaggio precostituiti, non miei. Vale anche per Brera. È più brerista Milani, che s’è inventato un mondo e un linguaggio nuovo e a sé stante, di tanti che si sono messi a seguire la processione. Forse, per diventare il nuovo Brera, è anzitutto necessario dimenticarselo.

Giovedì infine ero a una cena goliardica con duecento studenti: un evento annuale talmente bello che descriverlo è inutile. Non c’è linguaggio e non ci sono parole, dice il salmista (18, 4). Riferirò solo, prima che i polpastrelli mi si consumino, che alla fine lo studente più anziano si alza sulla sedia e intona il Gaudeamus, che è l’inno internazionale degli universitari. È un evento col quale ho lunga consuetudine eppure, quando ho visto duecento ventenni ritti sulla sedia a cantare “Ubi sunt qui ante nos / in mundo fuere? / Vadite ad superos / transite ad inferos / ubi iam fuere”, sarà che in latino le cose vengono meglio, sarà che a vent’anni uno non ci fa caso ma a trenta sì, ecco che la cena goliardica mi si è trasformata in danza macabra a sua insaputa e, mangiando e bevendo, ho avuto la rappresentazione plastica che allegra o godereccia quantunque la vita è breve: “Dove sono coloro che prima di noi furono al mondo? Andate nei cieli, passate dagli inferi, li trovate lì”. Non c’è tempo di passare le giornate a preparare un concorso, figuriamoci di mettersi a scrivere facendo le imitazioni.

 [Il resto della rubrica, cioè la metà di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]

lunedì 17 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Diciassettesima giornata, 16 dicembre 2012

Oggi è il compleanno del Milan, che ha centotredici anni ma se li porta meglio dei miei trentadue. È altresì una giornata storica perché – come ha ricordato Franco Lauro prima di imperniare la seconda metà di Novantesimo Minuto sulla discussione con Beppe Dossena riguardo all’effettivo risultato di Carpi-Lecce (1-0 come sostiene la regia o 1-1 come scrive la grafica?) – dopo trent’anni di onorato servizio va in pensione Franco Strippoli, l’inviato da Bari della storica trasmissione Rai. Di Franco Strippoli resta imprescindibile l’imitazione fatta da Lino Banfi nel corso di una vecchia e dimenticabile serie televisiva. Banfi interpretava un giornalista pugliese, accompagnato dal fido cameraman Gianni Ciardo, che veniva improvvisamente chiamato a sostituire il cronista titolare in occasione di una Bari-Juventus conclusa con un rigore decisivo in extremis per i bianconeri. Banfi iniziava pacato il suo commento post partita ma poi, giunto al fattaccio incriminato, non resisteva e trascendeva in vernacolo strappandosi di testa il parrucchino, appallottolandolo e scagliandolo al suolo. Di conseguenza veniva chiamato alla sede di Roma e diventava famoso.

Io non so se diventerò famoso; non so nemmeno se diventerò Franco Strippoli e quindi addivengo a più miti consigli. Tento ad esempio di esercitarmi con le simulazioni dei test online tramite i quali martedì prossimo sarà giudicata la mia capacità di insegnare storia e filosofia nei trienni dei licei; ma non appena riesco a trovare i cinquanta minuti necessari, e vi assicuro che non è stato facile nonostante lo stereotipo del concorsista nullafacente, ecco che il sito del ministero dell’istruzione mi impedisce lo svolgimento sancendo che il mio computer è obsoleto. Obsoleto sarai tu, rispondo al ministero, visto che il computer l’ho comprato un anno e mezzo fa mentre il ministero non funziona dal 1944. Pazienza: lo prendo come un segno del destino e giacché ho il computer acceso mi metto a fare un paio di partite a un noto videogioco di calcio, intuendo che l’utilità ai fini concorsuali sarà più o meno identica.

Ora, Valerio Magrelli (per gli amici “Er Sorpresa”) sostiene di avere tentato di appassionarsi ai videogiochi osservando suo figlio che vi si prodigava, ma di non avere mai capito come si facesse a esultare per un goal che non è mai esistito. Questo aprirebbe una discussione ontologica mica da ridere: se non esistono i goal segnati con un videogioco, esistono quelli per i quali ho visto esultare bambini che giocavano in cortile senza pallone, rincorrendosi e tirando e saltando secondo il canovaccio istintivo di una muta commedia dell’arte? Esiste il goal del passante che, sapendosi non visto, calcia una lattina e centra il muro che aveva mirato? Esistono i goal in base ai quali la Gazzetta dello Sport ha dipanato un paio di estati fa la Dream Cup, un trofeo virtuale con squadre immaginarie ma cronache dettagliatissime? Esistono i goal che i bambini sognano dormendo abbracciati al pallone con cui i genitori non li lasciano giocare?

I goal, in larga parte, sono un evento inesistente la cui realtà è data dalla comune credenza; un po’ come i test online del concorso per l’insegnamento di storia e filosofia nei trienni dei licei. La discriminante, il motivo per il quale il videogioco non è assimilabile al calcio, è piuttosto questa: riproduce non già il gioco del calcio in sé – ossia correre saltare colpire – ma l’esperienza televisiva del gioco del calcio. Il videogiocatore è un telespettatore che con le proprie dita può cambiare il corso della partita che sta guardando. Il suo punto di vista è esterno e interno al tempo stesso e, trattandosi di una prospettiva palesemente irrealizzabile nella vita reale, mai nessun videogiocatore potrà pensare di sostituire l’esperienza del gioco del calcio con l’esperienza del videogioco di calcio.

Preoccupa piuttosto il contrario, ossia la progressiva trasformazione del calcio in videogioco allo scopo di favorirne la fruizione televisiva. Se ci pensate, un videogioco per quanto sofisticato si basa sulla ripetizione di una determinata combinazione di eventi secondo un ordine mutabile un tot di volte. Il calcio invece è un’anguilla, come sostiene il famoso detto secondo cui la palla è rotonda: inafferrabile e imprevedibile, non c’è niente che sia riuscito a riprodurne ogni sfaccettatura. Dovendosi però venderlo come prodotto di intrattenimento, si è allora pensato di renderlo più fruibile e più commestibile smontandolo e traducendolo in pezzettini giustapposti: si è iniziato sciorinando i primi dati numerici sul possesso palla e ora sappiamo in tempo reale quanti km ha corso e quanti passaggi ha effettuato un calciatore; si è iniziato col Telebeam e ora siamo finiti al Magma di Adriano Bacconi; si è iniziato con l’estemporaneo ed esotico hombre del partido e siamo finiti alla codifica del meglio e del peggio con l’uomo partita Sky o con i più e i meno della tv di Stato. Non ha senso. La partita di calcio è un evento confuso (soprattutto se in panchina c’è Zeman, ma è un altro discorso) e non è traducibile in nessun altro linguaggio, né su tablet né su lavagnetta; cercare di spiegarlo o addirittura di capirlo secondo parametri standard è come voler quadrare il cerchio. Alla meno peggio si ottiene un poligono con talmente tanti lati che non si sa più come chiamarlo, ma che non sarà mai rotondo: tutti gli opinionisti che discettano di cifre e controcifre non si accorgono che stanno analizzando solo l’esperienza televisiva, confondono la percezione con l’oggettività e si comportano come altrettanti videogiocatori, con la differenza che ci credono davvero.

Il goal non esiste. Lo sanno Beppe Dossena e Franco Lauro che discettano sul risultato misterioso di Carpi-Lecce e lo so io, che immagino l’obsoleto Franco Strippoli scoprire all’improvviso che i salentini non hanno mai pareggiato, strapparsi finalmente il parrucchino, scagliarlo appallottolato sul pavimento dello studio e diventare famoso anziché andare in pensione.

lunedì 10 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Sedicesima giornata, 9 dicembre 2012


Oggi è il mio compleanno (auguri; grazie) e mi pongo seriamente il problema se non sia piuttosto preferibile l’onomastico, che è festa verticale e collettiva, a questa celebrazione che invece è individualista e centripeta. Un’autorevole scuola di pensiero sostiene anzi che il compleanno sia da rifiutarsi completamente in quanto festa pagana, o paganizzante che è lo stesso, imposta a colpi di egotismo in una società in cui originariamente fioriva il senso comune del Cristianesimo e quindi esisteva solo l’onomastico, il giorno di tutti quelli che si chiamano come un santo al quale dovrebbero voler rifarsi. Inoltre i compleanni sono una linea retta, un’inarrestabile freccia del tempo che invecchia e uccide, mentre gli onomastici girano intorno a un centro vivificante e quindi scandiscono l’eterno: il 9 dicembre morirà con me ma il 13 giugno resterà anche quando sarò terra per ceci. Ci tengo a specificare la data per chiarire che il mio Antonio patrono è quello da Padova e non l’Abate, nonostante che questi sia il protettore di tutti gli animali. Dev’essersi trattato di uno scambio di persona.

Il dilemma è stato brillantemente risolto da una mia amica che, essendo nata il giorno di Santa Chiara, s’è fatta monaca clarissa e, cambiando nome nell’abbracciare un ordine, ha trasformato il proprio compleanno in onomastico e festa istituzionale. Io non sono altrettanto coraggioso pertanto mi sono limitato, nei giorni scorsi, ad andare a Padova per lasciare una carezza sulla tomba del Santo perché è evidente che, così come senza 9 dicembre non potrebbe esserci Gurrado inteso come corpo che interagisce nel tessuto di una rete sociale e intellettuale, senza Sant’Antonio non potrei esserci io stesso, inteso come anima individuale che un giorno dovrà pur essere giudicata. Sulla scorta di questa considerazione, è evidente che l’onomastico è utile benché progressivamente misconosciuto mentre il compleanno diffuso quantunque può ben essere dannoso.

Io però non sarei altrettanto oltranzista e mi limiterei a dire che il compleanno ricade in quel vasto settore di argomenti che San Paolo derubrica come adiaphora, ovvero indifferenti, come ad esempio l’ortoprassi alimentare degli ebrei. Cosa conta se ci asteniamo dal mangiare il cammello, l’ìrace e la lepre perché secondo il Levitico ruminano e non hanno l’unghia fessa? Io sono onnivoro quindi mangerei cammelli se me li cucinassero, ìraci se sapessi cosa sono e anche eventuali lepri che davvero ruminassero e non avessero l’unghia fessa; mangerei anche grifoni, se solo esistessero, senza per questo sentirmi sminuito nel senso religioso. Allo stesso modo ritengo che le candeline contino quanto l’unghia fessa e che il compleanno, essendo indifferente, cambia senso a seconda dell’uso che se ne fa.

Se uno lo utilizza per farsi riempire di regali vacui mentre non sa nemmeno in che giorno, poniamo, si festeggi San Siro, allora lo utilizza male; se lo utilizza per voltarsi indietro e piangersi addosso alla vista di persone e cose perdute mentre saliva per i tornanti, allora lo utilizza malissimo; se lo utilizza come pietra miliare per controllare su riscontri oggettivi di essere diventato una persona più decente rispetto a dodici mesi prima, e per rendersi conto e ringraziare per tutto ciò di cui non s’è troppo lamentato nell’anno precedente, allora lo utilizza bene. È senz’altro una forma pagana ma non per questo implica paganesimo. Ieri ero a Messa al santuario pavese di Canepanova e mi accorgevo per la prima volta dopo tanti anni che sopra le statue di Re e profeti dell’Antico Testamento avevano dipinto le sibille; il Cattolicesimo etimologicamente è un fiume che travolge tutto e s’ingrossa per i detriti, quindi non sta a fare troppi distinguo sull’essenza pagana delle sibille o dei grifoni o del compleanno se vengono usati in maniera cristiana.

Indubbiamente rimpiango i 9 dicembre dei festeggiamenti familiari, e soprattutto quelli in cui Rijkaard faceva vincere al Milan la Coppa Intercontinentale o in cui mi alzavo apposta dal letto dell’influenza per guardare un derby di Torino rinviato per neve e trasmesso in diretta, senza bisogno di pagare, dalla Rai; quelli in cui ero un buon selvaggio che guardava il campionato più bello del mondo nel momento più bello della storia, inconsapevole emulo di Vittorio Sereni che scopriva un raggio di sole trafiggere San Siro (lo stadio) e si diceva: “Passiamola questa soglia una volta di più”. Però l’infanzia ha fatto il suo tempo, indipendentemente dal comportamento di molti miei coetanei. Mettendo in fila tutti i 9 dicembre della mia vita mi rendo conto che nel mio animo c’è un progresso e che dunque la mia vita ha un senso, il quale ovviamente non può essere deciso da me in quanto sarebbe come pretendere che il mare è stato inventato da chi ci nuota. Se alla sera del 9 dicembre dico: “Bene, non ho rimpianto nessuno dei 9 dicembre precedenti perché non voglio agitarmi cercando di trattenere le ombre”, allora vuol dire che sono cresciuto e che tanti compleanni sono serviti a qualcosa; se non altro a ricordarmi ogni dodici mesi che i patimenti affastellati nei giorni comuni formano un tutto coerente pertanto devo smettere di considerare la mia vita con la lente d’ingrandimento anziché col telescopio. Come mi spiegava ad personam il Salmo di ieri: “Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni”.

Detto questo, pare che gli ìraci siano dei mammiferi esotici noti anche come procavie, la lepre ha l’unghia fessa ma non rumina affatto mentre San Siro (il santo) si festeggia il 9 dicembre ed è il patrono di Pavia, la città dove sono finito a vivere senza che potessi aspettarmelo quando sono nato.

[Come sempre l'altra metà della rubrica, opera di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]

giovedì 6 dicembre 2012

"Il mio sesso nuotava nella gioia come un pesce nell'acqua", ha scritto l'autrice canadese Nancy Huston nel suo ultimo romanzo "Infrared", ed è stato più che sufficiente a farle vincere il Bad Sex Award: il riconoscimento per il peggiore sesso scritto che la Literary Review assegna da vent'anni.

Ma il Bad Sex Award quest'anno lo meritava qualcun altro, e non mi riferisco a Back to Blood di Tom Wolfe. In prima pagina sul Foglio di oggi svelo il mistero parlando altresì di inondazioni lombari, astronomia heideggeriana, Tony Blair e suocere assassine.

[Il pezzo ora è disponibile anche sul sito del Foglio, gioioso come un pesce nell'acqua.]

mercoledì 5 dicembre 2012

Domani si va a Padova. Alle 17:30 di giovedì 6 dicembre, nella Sala del Romanino dei Musei Civici agli Eremitani (piazza Eremitani, 8) Nacho Duque Garcia e io presentiamo il volume La ricetta di immortalità a cura di Michela Zago, edito da La Vita Felice.

Necessaria precisazione, il libro di Michela Zago non è un misto fra Antonella Clerici e la profezia dei Maya ma la seria edizione critica di un papiro greco, con importanti novità rispetto alla tradizionale interpretazione del papiro stesso. Parleremo delle diverse accezioni di religione, magia e superstizione in età antica, moderna e postmoderna.

martedì 4 dicembre 2012

Il pubblico medio del settimanale plausibilmente sarà andato in sollucchero scorgendo in apertura la foto-poster "Nobel con bacio", in cui Obama oscula con San Suu Kyi la quale in realtà sembra piuttosto refrattaria. È un'immagine che per un attivista dei diritti umani - un ipotetico volontario di Medici Senza Frontiere abbonato a Micro Mega per sostenere Altromercato rallentando il riscaldamento globale mentre legge Umberto Galimberti - equivale a quello che sarebbe per me una foto di Jennifer Aniston che bacia Scarlett Johansson.

Su Qwerty, il blog che recensisce i giornali su Tempi.it, è il turno di Internazionale: il giornale dei giornali, poco urbi e molto orbi.

lunedì 3 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Quindicesima giornata, 2 dicembre 2012

Finalmente oggi, a pagina 53 di Repubblica, si fa chiarezza su una questione epocale: un improvvido intervistatore ardisce dare del filosofo a Giovanni Reale, professore al San Raffaele e direttore della collana dei classici del pensiero occidentale per Bompiani, e questi risponde a bruciapelo: “Anzitutto non sono un filosofo ma uno storico della filosofia”. Parafrasando ciò che sosteneva un professore quando ero studente a Pavia, sarebbe come se l’intervistatore di Frank Dettori gli desse del cavallo e questi fosse costretto a specificare: “Anzitutto non sono un cavallo ma un fantino”. Dovrei ordinare un tot di copie di Repubblica di oggi da spedire alle mie corteggiatrici che per far colpo mi domandano: “E cosa pensa la filosofia dell’amore?” (o dell’oroscopo; o del destino; o della politica; o del fuorigioco passivo). Io invariabilmente rispondo: “E che ne so, io mi occupo di esegesi biblica nella filosofia francese del ’700. Al massimo posso dirti cosa pensa la filosofia del crollo delle mura di Gerico al suono delle trombe, o della natura del pesce che inghiottì Giona, oppure dell’ordine che il signore impartì a Ezechiele, ossia di mangiare un rotolo di pergamena, poi di legarsi con delle funi, poi di star coricato sul fianco sinistro per trecentonovanta giorni, poi di mangiare del pane condito con escrementi – al che il profeta reagisce impetrando di poter mangiare piuttosto dello sterco di vacca”, ma al che le indebite corteggiatrici sono altresì sparite e quindi non c’è bisogno di profondersi in dettagli.

La confusione fra “filosofo” e “storico della filosofia” è il sintomo che più mi è personalmente dannoso nella tendenza generalizzata a utilizzare un termine per un altro, volgarmente fischi per fiaschi. L’Italia è una repubblica fondata su varie cose, fra le quali l’utilizzo protervo di termini alla moda in spregio del loro significato. “Laico” è l’esempio perfetto, che non merita nemmeno di essere commentato. Il mio amico Camillo Langone aveva dedicato un intero ciclo sul Foglio a parolacce simili, tipo “migranti” o “escort”. “Matrimonio omosessuale” non si può sentire, se diventasse una legge dello Stato i primi a suicidarsi dovrebbero essere gli etimologisti perché “matrimonio” significa “protezione della madre”.

“Aiutino”, che sabato campeggiava sui titoli di parecchi quotidiani sportivi e no, è fra le peggiori. Viene dal mondo fatato dei quiz televisivi, denotando in positivo la differenza della versione italiana (cattolica, misericordiosa, inclusiva) rispetto al format anglosassone (protestante, spietato, esclusivo): se volevi vincere una certa somma potevi contare su un presentatore comprensivo, che si sarebbe fatto carico delle tue carenze davanti al notaio. L’aiutino ha poi sfondato nelle scuole patrie, non come materia ma quale metodo di studio: nella tendenza nazionale a considerare anzitutto gli alunni come figli di qualcuno (sovente i propri), li abbiamo automaticamente ritenuti vittime di intollerabili angherie e soprusi da parte di professori che pretendono di sapere l’anno esatto della morte di Kant, come se non la sapessero già per conto loro, come se questo vacuo nozionismo potesse contare qualcosa, come se Kant non fosse ancora fra noi grazie alla presenza viva delle sue opere – e così abbiamo preteso l’istituzionalizzazione dell’aiutino per favorire la retta formazione degli scolari coi risultati che abbiamo sotto gli occhi. Ciò nonostante, oggi ci indigniamo collettivamente stigmatizzando il famigerato aiutino quando viene assegnato un rigore a una squadra che, essendo decisamente più forte dell’altra, passa tre quarti d’ora a partita nell’area avversaria, oppure quando viene espulso il calciatore di una squadra proletaria perché ha cercato di abbattere a centrocampo un collega che guadagna il triplo di lui, magari per usargli la gentilezza di non farlo trattenere troppo a lungo in questa valle di lacrime.

Mercoledì sera non c’erano le coppe e ho guardato il dibattito fra Renzi e Bersani per decidere chi, nella prossima primavera, salirà al Quirinale per indicare in Monti il presidente del consiglio ideale. Lessicalmente s’è visto tutto il terrore del politico, ahimè non importa il colore né se indossi o meno la giacca, quando c’è da arraffare voti. Sulle prime, nelle fasi preliminari della schermaglia, s’è iniziato utilizzando termini che oltre al proprio significato concreto si dotavano di uno metaforico (il mandolino, il passerotto e il tacchino di Bersani, e il sensazionale refrain “segretario” con cui Renzi lo infilzava a ogni risposta) ma, quando il gioco s’è fatto duro e bisognava diventare convincenti per il popolo bue e asinello, alé si è passati a utilizzare termini che hanno significato metaforico ma senza averne alcuno concreto: “quote rosa”, “omofobia”, “femminicidio”. Mi aspettavo che da un momento all’altro passassero a “mezza stagione” e “partenza intelligente”. Se fossi stato Renzi, ma anche Bersani, a un giornalista che mi avesse chiesto: “Ma cosa pensa delle quote rosa?” avrei risposto: “Meglio un uomo oggi che una gallina domani”.

C’è in Italia una diffusa paura di utilizzare le parole, ragion per cui chi lo fa adeguatamente viene accusato di essere volgare o provocatore quando è solo una persona che di tanto in tanto si perita di aprire il vocabolario. Dicono gli inglesi che where ignorance is bliss, ’tis folly to be wise: tradotto, perché utilizzare una parola esatta quando la si può sostituire con una circonlocuzione sbagliata? S’è visto, anzi s’è sentito, anche ieri sera durante il commento al derby di Torino su Radiouno. Il cronista, parlando dell’errore di Pirlo dal dischetto, ha dichiarato: “Cantava De Gregori che non è certo un calcio di rigore che può inficiare la carriera di un giocatore”. Tutte le successive telefonate degli ascoltatori si accanivano su inezie dell’arbitraggio, e nessuno ha fatto notare che la metrica non tornava.

[Il resto della rubrica, con scottanti rivelazioni sull'acquisto di Francesco Savio da parte della Juventus, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]

sabato 1 dicembre 2012

Diderot aveva gli occhi azzurri o castani? Non si tratta di una questione oziosa in quanto è servita a creare del mistero attorno a un celebre quadro di Fragonard, eseguito nel 1769 e custodito al Louvre, nel quale il vecchio Diderot era ritratto in posizione molto simile a quella in cui lo stesso filosofo era stato precedentemente immortalato da Van Loo. Gli studiosi hanno sancito che il Diderot di Van Loo ha gli occhi castani mentre quello di Fragonard li ha azzurri; occhi diversi non possono appartenere alla stessa persona e di conseguenza hanno cambiato il titolo del dipinto di Fragonard in un farraginoso “Figura immaginaria precedentemente identificata a torto in Diderot”.

Sul Foglio di oggi spiego che si possono avere tutti i dubbi di questo mondo sugli occhi del ritratto del filosofo, ma se si va a controllare sull'Encyclopédie le voci "occhi", "ritratto" e "filosofo" si ricava un'idea piuttosto diversa da quella degli esperti del Louvre.