domenica 23 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Diciottesima giornata, 23 dicembre 2012

È stata una settimana ricca di eventi: tre. A farla breve, martedì ho preso il taxi e mi sono presentato in un istituto tecnico per sostenere il famoso test di logica-comprensione-informatica-inglese quale prima prova del concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi. Sono arrivato in lieve ritardo sulle operazioni preliminari perché la tassista era bionda e valeva la pena. Ne approfitto tuttavia per rinnovare l’invito a non credere ai giornali, sui quali è figurato che questo test fosse composto di cinquanta domande astruse fra le quali sarebbe stato impossibile ai più districarsi fornendo le trentacinque risposte esatte necessarie a superare questo primo ostacolo. A riprova di ciò, tutti i quotidiani hanno pubblicato una selezione di questioni scelte fra la decina di domande oggettivamente complesse che capitavano a ciascun candidato, tralasciando le restanti domande che costituivano il corpo portante della prova. Hanno dunque dimenticato di menzionare la quarantina di domande, su cinquanta, alle quali si poteva rispondere anche bendati, con le mani legate dietro la schiena e appesi al lampadario per l’alluce sinistro. Ve le rivelo io. Si trattava, ad esempio, di stabilire se Gennaro fosse simpatico partendo dal presupposto che Gennaro ama la Toscana e che chiunque ami la Toscana è simpatico. Nonché di scrivere al contrario la sequenza alfabetica KLKKKLLKLLKL. Nonché di completare, per chi era versato in lingua inglese, l’argomentazione “Catherine is a journalist. (His? Her? Its?) job is very interesting”.

Premesso che verrò con ogni probabilità uccellato alla seconda prova – lo scritto di cui oggigiorno non si sa gran che – in quanto la vita è breve e non ho tempo di prepararlo, il fatto che su 321.000 candidati non siano passati in 233.000 comporta varie conseguenze che elencherò sinteticamente. Con tutto il rispetto per quelli che si sono fermati a uno o due punti dal minimo consentito, l’ampia percentuale di candidati che non è riuscita a rispondere a nemmeno metà delle domande significa che un’ampia percentuale di laureati italiani non è in grado di compiere ragionamenti elementari e di capire che Gennaro è simpatico ancorché non toscano. Nonostante le mille riserve avanzate dai soliti espertoni, il solo risultato che questo test abbia ridotto drasticamente il numero di candidati significa, tautologicamente, che il ministero ha capito a priori che bastava un test del genere a ridurre drasticamente il numero di candidati, e questa dovrebbe essere l’ambizione di ogni concorso che si rispetti. Inoltre le proteste che si sono levate da ogni parte contro la presunta impossibilità dei test confermano ulteriormente gli annosi sospetti sul molle senso agonistico degli italiani: ossia che costoro preferiscono il pareggio all’eliminazione diretta, la proporzionale all’uninominale, i tarallucci e vino alla gerarchia, l’egualitarismo consolatorio alla lacrimosa meritocrazia. Non c’è niente da fare: l’idea che per scremare dei candidati si ricorra a una selezione basata su dati oggettivi risulta automaticamente ingiusta perché esclude qualcuno. Se si inciampa sulle domande in lingua straniera, si dice che non si può pretendere che tutti i professori siano poliglotti. Se si inciampa su quelle di informatica, si dice che non si può pretendere che tutti i professori siano Steve Jobs. Se si inciampa su quelle di logica, si dice che non si può affidare la selezione della classe docente a una specie di sudoku di Stato.

Il solo dettaglio che una decina di domande (ripeto, su cinquanta, quando bastava rispondere a trentacinque) potesse risultare astrusa o ambigua o ingarbugliata è stato sufficiente a tacciare di arbitrarietà l’intero procedimento selettivo. Se invece si riesce a ragionare quel tanto che basta per stabilire che Gennaro è simpatico, bisogna riconoscere un pregio a questo sopravvalutato e presuntuoso governo che tramonta senza particolari rimpianti: con tutti i difetti nell’attuazione del meccanismo, in merito a istruzione e ricerca si è basato su un principio banale per cercare di migliorare in prospettiva il livello del personale docente. Per selezionare i nuovi professori di liceo ha imbastito un test scemotto ma che, diciamocelo, buona parte degli attuali docenti in carica avrebbe trovato qualche difficoltà a superare in scioltezza. Per selezionare i nuovi professori universitari ha sancito che dovranno avere un numero di pubblicazioni superiore a quello della mediana dei professori universitari attuali; giuridicamente questo è un monstrum, va da sé, perché implica che metà degli attuali professori universitari non sarebbero in grado di passare la selezione odierna; però è l’unica maniera per far sì che fra vent’anni i professori universitari abbiano matematicamente più pubblicazioni di quante ne hanno adesso. Ma se siete convinti che questo tipo di scrematura sia ingiusta, in quanto troppo selettiva, state tranquilli perché chiunque vincerà le prossime elezioni troverà una maniera di ritornare allo status quo ante e sarà il trionfo dei principi fondanti della repubblica italiana: fraternité, égalité, mediocrité!

“Questo lungo scombiccherato Paese”, lo chiamava Gianni Brera. Me lo ricorda Andrea Maietti, che era il destinatario dell’apostrofe, durante una pacciada bassaiola per celebrare il ventennale dello schianto, mercoledì. Siamo a Lodi, lungo l’Adda, in una delle ultime osterie residue in Italia. Per tenerci leggeri abbiamo mangiato mille salumi, pescetti illegali, risotto al vino e salsiccia in cui il riso era poco più che una comparsa, coniglio con polenta e gorgonzola, eccetera. Non è vero che la pesantezza di stomaco affievolisce l’ingegno, alle volte dà coraggio; e così, mentre masticavo e ascoltavo, m’è venuto in mente che alla lunga bisognerà salvare Brera dai breristi. Bisognerà riandare a venti, trenta, quarant’anni fa e inquadrare con certezza due cose: a) che cosa ha veramente scritto, detto e pensato Brera, di là dalla fumosa immagine mitologica che si è venuta costruendo dopo la morte; b) chi era veramente dalla sua parte all’epoca e chi invece è saltato sul carro quando Brera non poteva infastidirlo più. Si otterrebbero, credo, risultati sorprendenti perché, per un Maietti che di Brera sa tutto perché l’ha veramente ascoltato e letto filologicamente, ce n’è tanti per i quali Brera è una barba, una pipa, la bottiglia vicino e qualche parola difficile a casaccio. Alcuni di loro fanno i giornalisti. Alcuni di loro fanno i nani sulle spalle del gigante. Alcuni di loro sono convinti che per essere Brera basti farsi crescere la barba, fumare la pipa, bere a damigiane e scrivere complicato. Sbagliano, anzitutto perché Brera non scriveva complicato, poi per il principio generale che se il genio ha dei tratti distintivi non basta riprodurne i tratti distintivi per diventare geni. Sbagliano anche perché Brera, a leggerlo veramente, riesce tutto il contrario dell’immaginario postumo che gli è stato cucito attorno: era crudele, selettivo, socialista a modo suo, razzista, nordista. Usava la parola “Padania” con frequenza sospetta. Oggi, a occhio, non scriverebbe sui giornali politicamente correttissimi che ne oscurano l’imago a furia d’incenso. Odiava Umberto Eco, figuriamoci come tratterebbe Saviano. Anche nel calcio aveva alcune ostinate idee sbagliate (tipo Facchetti centravanti) che affascinavano proprio perché ci credeva davvero, perché quando scriveva non cercava di fare il Brera della situazione: essendolo già, non aveva bisogno di sforzarsi di diventarlo.

Infine Brera aveva un pregio: spostava lettori, garantiva cinquantamila copie in più al giornale per il quale scriveva, trasformava in soldi il ticchettio dei polpastrelli. Non era un nemico del sistema-calcio, non era un nemico del capitalismo, non era un autore di nicchia che scriveva per gli happy few dal sopracciglio perennemente arcuato o il ditino steso a perenne monito. Soprattutto, Brera non faceva l’imitazione di nessuno, ragion per cui è improponibile voler diventare emuli di Brera imitandolo. Sapete invece chi mi ha ricordato Brera l’originale, a Lodi nel ventennale dello schianto? Maurizio Milani, non l’avrei mai detto, che era seduto in ultima fila ad ascoltare la presentazione del Calciolinguaggio di Gianni Brera di Maietti. Chiacchierandoci mi è tornata in mente un’asserzione di Mariarosa Mancuso, secondo la quale Milani è uno scrittore vero perché ha un mondo e un linguaggio. Mondo e linguaggio sono gli assi cartesiani entro i quali si è mosso Brera, funzionando perché erano il suo mondo e il suo linguaggio di riferimento nella vita quotidiana; e funzionano anche per Milani il quale, chiacchierando con vari astanti quorum ego, utilizza lo stesso mondo e lo stesso linguaggio entro i cui confini scrive, senza andare a riprodurre mondi e linguaggi altrui. Se un domani, poniamo, mi mettessi in testa di diventare l’emulo di Milani e cercassi di scrivere come lui, pernacchie meriterei e non applausi perché farei piroette in un mondo e in un linguaggio precostituiti, non miei. Vale anche per Brera. È più brerista Milani, che s’è inventato un mondo e un linguaggio nuovo e a sé stante, di tanti che si sono messi a seguire la processione. Forse, per diventare il nuovo Brera, è anzitutto necessario dimenticarselo.

Giovedì infine ero a una cena goliardica con duecento studenti: un evento annuale talmente bello che descriverlo è inutile. Non c’è linguaggio e non ci sono parole, dice il salmista (18, 4). Riferirò solo, prima che i polpastrelli mi si consumino, che alla fine lo studente più anziano si alza sulla sedia e intona il Gaudeamus, che è l’inno internazionale degli universitari. È un evento col quale ho lunga consuetudine eppure, quando ho visto duecento ventenni ritti sulla sedia a cantare “Ubi sunt qui ante nos / in mundo fuere? / Vadite ad superos / transite ad inferos / ubi iam fuere”, sarà che in latino le cose vengono meglio, sarà che a vent’anni uno non ci fa caso ma a trenta sì, ecco che la cena goliardica mi si è trasformata in danza macabra a sua insaputa e, mangiando e bevendo, ho avuto la rappresentazione plastica che allegra o godereccia quantunque la vita è breve: “Dove sono coloro che prima di noi furono al mondo? Andate nei cieli, passate dagli inferi, li trovate lì”. Non c’è tempo di passare le giornate a preparare un concorso, figuriamoci di mettersi a scrivere facendo le imitazioni.

 [Il resto della rubrica, cioè la metà di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]