martedì 29 gennaio 2013

Per la cronaca, non serve leggere i giornali locali: basta leggere Voltaire per sapere che gli uomini “sono sempre stati mentitori, furbi, perfidi, ingrati, briganti, deboli, ladri, pigri, invidiosi, mangioni, beoni, avari, ambiziosi, sanguinari, calunniatori, debosciati, fanatici, ipocriti e scemi”; basta leggere Machiavelli per sapere che gli uomini “mangiono l’un l’altro”, solgono “affliggersi nel male e stuccarsi nel bene”, sono “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”, “ciechi nelle cose dov’e’ peccano, e acerrimi persecutori de’ vizi che non hanno”; che dico, basta leggere il Vangelo, dove Gesù dice chiaro e tondo che nessuno è buono. 

Su Qwerty, il blog di Tempi.it che recensisce i giornali, tocca a La Nuova Ferrara, dove un maschicidio dà adito a considerazioni più generali.

lunedì 28 gennaio 2013

Finalmente domenica!
Ventiduesima giornata, 27 gennaio 2013

Savonarola, non venivo a Ferrara da sei anni: una mia amica che di mestiere faceva la modella léttone mi aveva detto di scendere un attimo per un caffè – vivevamo allora entrambi a Modena – e invece mi aveva rapito caricandomi in macchina e portandomi fin lì. Sotto il tuo monumento, che ti ritrae nella postura del prestigiatore irritato perché nessun coniglio sbuca dal cilindro, perché nessuna colomba svolazza al cadere del drappo, le avevo chiesto ragione del suo atto dimostrativo, e lei: “Troppi libri. Eri arrabbiato. Volevo dimostrarti che si può vivere anche lontano”.

Savonarola, sei anni dopo mi ritrovo a passare sotto la tua statua (l’espressione non è migliorata col tempo) e penso che ho fatto bene a imbastire questa sfacchinata in trasferta – adesso vivo a Pavia e il viaggio è più lungo e costoso, ci vuole addirittura il Frecciarossa e la modella léttone chissà dov’è – perché la terra gira e rigira attorno al sole ma l’umore persiste uguale: troppi libri, sono arrabbiato. Leggo e leggo e mi sembra che me ne manchino sempre più per arrivare a una completezza decente. Scrivo e scrivo e mi sembra che mi pubblichino sempre di meno, in proporzione a produzione e qualità e aspettative. Allora ho bisogno di prendere il treno e andare a sbollire da qualche parte, in mancanza di qualcuno che mi rapisca e mi mostri come si possa vivere anche lontano dalla scrivania.

(Approfitto per la trasferta di un convegno e il quotidiano itinerario dall’albergo alla sede preposta passa esattamente sotto lo studio di un noto legale. Mi verrebbe voglia di salire le scale e chiedere: “Scusi, buongiorno, vorrei parlare con l’avvocato Franceschini”. “Mi spiace, signore, l’avvocato Franceschini si trova al momento fuori città”. “Fuori città, l’avvocato Franceschini, e dove?” “A Roma, signore, da qualche annetto ormai”. “A Roma, l’avvocato Franceschini, a fare che?” “A farsi, signore, crescere la barba”. “La barba, l’avvocato Franceschini, crede di essere il Che Guevara?”. “Non già, signore, però si vocifera che su un imprecisato tovagliolo di un imprecisato ristorante l’imprecisato segretario di un imprecisato partito abbia schizzato l’organigramma di un imprecisato futuro nel quale l’avvocato risulterebbe incombente presidente della Camera”. “Della Camera, l’avvocato Franceschini? Senta a me, glielo impedisca, lo leghi alla sedia, piuttosto lo minacci di raderlo con la ceretta, per il suo bene s’intende: non vorrà mica fargli fare la fine di Fini, l’ha vista la fine che ha fatto Fini? O di Bertinotti, a fare da spalla in cardigan a Paolo Rossi su Rai3? O di Casini, Dio scampi? Luciano Violante, se lo ricorda qualcuno Luciano Violante? Presidente della Camera, l’avvocato Franceschini, ma per favore. Se gli vuole bene glielo impedisca con tutte le sue forze, a meno che non lo voglia inguainato nel cuoio a presentare trasmissioni su Italia1 come Irene Pivetti”.)

Savonarola! Non so tu ma io, se fossi l’avvocato Franceschini, indipendentemente dalla barba mi ritirerei a Ferrara che è tranquilla e nobile e a scanso di ogni rischio passerei il tempo a passeggiare e a scrivere, tanto gli pubblicano qualsiasi cosa e non ha i problemi che mi fanno dormire male per carenza di editori. Invece io, Savonarola, mi dibatto nel paradosso perché più ci penso e meno vedo vie d’uscita in quanto, se anche volessi incanalare la mia rabbia editoriale in una protesta organica, in mancanza di modelle léttoni, cosa potrei fare? Entrare in una Feltrinelli e mangiarmi l’ultimo romanzo di, boh, Paolo Di Paolo? Andare in edicola e comprare questo o quel giornale al solo scopo di stracciarlo dopo avere controllato che non contenga articoli miei?

Niente, avvocato Franceschini, volevo dire, Savonarola, l’unica maniera sensata di incazzarmi costruttivamente perché non mi pubblicano sarebbe di sedermi alla scrivania e buttare giù, a mano, un libro: ma poi avrei bisogno di qualcuno che me lo pubblicasse e allora tornerei al punto di partenza, schiavo del paradosso che io stesso ho ingenerato, esattamente come te che, a furia di invocare il rogo per questo e il rogo per quello, allo scopo di dimostrare la credibilità delle tue intenzioni infine al rogo hai dovuto farti mettere tu, eh, Savonarola?

[Come ogni lunedì, il resto della rubrica, in cui Francesco Savio parla agli ubriaconi mentre io parlo ai monumenti, si trova su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport.]

lunedì 21 gennaio 2013

Finalmente domenica!
Ventunesima giornata, 20 gennaio 2013

Rassegniamoci, viviamo nella terribile era dell’immediato in cui, per avere ragion d’essere, ogni commento dev’essere quanto più appiccicato all’evento di cui parla; se non contemporaneo a esso; se non anticipato. Di conseguenza internet, che è strumento elastico volto alla rapidissima diffusione dei contenuti, finisce per ottenere due inattese conseguenze. La prima è che l’autorevolezza contenuto perde d’importanza a discapito della velocità con cui lo si veicola; è come se sul podio della Formula1 salissero i copertoni anziché i piloti. La seconda è che lo schema interpretativo degli avvenimenti, anche sulla lunga distanza, viene calibrato sulla reazione contingente e non sulla solidità dei classici che hanno secolarmente formato il comune pensare.

Esempio: l’eventissimo di gennaio è stata l’ospitata di Berlusconi da Santoro. Ormai risale a dieci giorni fa, quindi internet non dovrebbe occuparsene più; sono sopraggiunti altri tempi, altre cure, altri pensieri. I giornali invece di tanto in tanto vi fanno fugace riferimento, per lo più incidentale, e soprattutto dopo essersi affrettati a fornire al mattino dopo ampio risalto alle reazioni emerse sulle reti sociali man mano che la trasmissione si dipanava. Se uno invece avesse avuto, come me, tutto l’agio di guardare Berlusconi, e pensarci, guardare Santoro, e pensarci, andare a teatro, e pensarci, ricordarsi per caso della tesina su Pirandello che aveva presentato alla maturità quando ancora era un esame serio e si aveva facoltà di presentare saggi monografici lunghi quanto le attuali tesi di laurea breve, ossia trenta pagine, nonché di fare tutta una serie di altre cose utili al proseguimento della vita e contemporaneamente pensare alla trasmissione de La7 che diventava progressivamente obsoleta – dicevo, se uno anziché ricopiare le reazioni becere da facebook e quelle sgrammaticate da twitter avesse potuto considerare l’attualità sub specie aeternitatis, e la tv come un nano sulle spalle di un gigante classico della letteratura, si sarebbe accorto senza meno che i nove milioni di spettatori di Servizio Pubblico sono come i nove personaggi secondari di Così è (se vi pare), al momento in tournée nell’allestimento di Michele Placido.

Se per stare su internet non abbiamo tempo di andare a teatro, almeno rileggiamoci il copione su wikisource. Dopo essersi lungamente lambiccati su chi abbia ragione fra il signor Ponza e la signora Frola sua suocera, e vedendo che a furia di ragionare e discutere non si riesce a venire a capo della vera identità della signora Ponza (è la figlia dell’una o la seconda moglie dell’altro?), questi nove personaggi secondari che occupano costantemente il centro della scena optano per il confronto diretto quale soluzione finale: “Mettendoli insieme, ora, di fronte, vuoi che non si scopra dove sia il fantasma, dove la realtà?”.

I nove milioni di spettatori si sono sintonizzati su La7 perché convinti che quest’incontro frontale coram populo fra Berlusconi e Santoro avrebbe portato uno dei due a soccombere e a rivelare da che parte stesse la verità. Chiusi nello stesso studio, sotto l’occhio impassibile delle telecamere, o Berlusconi avrebbe ammesso che Santoro aveva ragione, e che le accuse contro di sé erano veritiere, oppure Santoro avrebbe ammesso che Berlusconi aveva ragione, e che le accuse contro di lui erano montate. Tempo tre ore ed entro mezzanotte si sarebbe dissolto il mistero che da un ventennio ossessionava l’Italia intera; lo studio televisivo sarebbe diventato ciò che il palcoscenico era per Pirandello, e che Giovanni Macchia definiva efficacemente “stanza della tortura”. Questo marchingegno psicologico aveva garantito l’enorme successo del suo teatro, attirando il pubblico con la prospettiva di raffrontare due versioni inconciliabili e poi lasciandolo in sospeso.

In Così è (se vi pare) il signor Ponza accusa la signora Frola di essere pazza, e la signora Frola accusa il signor Ponza di essere malato; lei dichiara di simulare la propria pazzia per compiacere il genero, e lui di simulare la propria malattia per assecondare la suocera; l’uno rivendica che la suocera sa benissimo che la signora Ponza è la sostituta della figlia morta, l’altra invece che il genero è consapevole che costei sia davvero la moglie originaria. Eppure, posti uno di fronte all’altra, i due protagonisti smettono di urlarsi addosso, si abbracciano, piangono insieme; lui ammette di essere malato come dice la suocera, lei di esser pazza come sostiene il genero. La prospettiva parziale di ciascuno dei due è necessaria alla definizione dell’identità dell’altro. I nove testimoni, che credevano di risolvere in un sol colpo la questione, restano sgomenti e conservano ognuno la propria idea, chi per il signor Ponza, chi per la signora Frola.

In Servizio Pubblico Santoro sostiene di non credere a Berlusconi e Berlusconi di non fidarsi di Santoro. Urlano e si accusano ma poi si scambiano battute e occhiate complici; ridono insieme e sono pronti ad ammettere ammiccando di essere ciascuno un po’ come l’altro lo descrive, per quanto distante possa essere quest’identità fantasmatica dall’idea che hanno di sé. Gli spettatori restano basiti, e dopo tre ore ognuno permane nella convinzione che aveva prima che sulla stanza della tortura si accendesse la lucina delle telecamere.

E la signora Ponza, ossia la verità oggettiva? Negli allestimenti pirandelliani è una giovane che appare di spalle o col volto velato mentre il marito e la suocera la cingono simultaneamente per appropriarsene. In Servizio Pubblico è il duplice Marco Travaglio, adamantino censore per Santoro e diffamatore professionista per Berlusconi; entrambi ne hanno bisogno per definire e difendere la rispettiva identità di accusatore giusto e di vittima innocente. Il finale è parallelo. In Pirandello, la signora Ponza conclude: “Per me, io sono colei che mi si crede”. Da Santoro, Berlusconi uscendo dallo studio si lascia sfuggire: “Non lasciatevi infinocchiare da questi qui”.

[Come ogni lunedì, l'altra metà della rubrica è opera di Francesco Savio e si trova su Quasi Rete.]

lunedì 14 gennaio 2013

Finalmente domenica!
Ventesima giornata, 13 gennaio 2013
Ieri sera stavo aspettando che Oscar Buonamano arrivasse a Milano per guardare Inter-Pescara (lui; non m’interessano altrettanto gli scontri fra provinciali) e a causa del traffico ho dovuto attenderlo per tre quarti d’ora nella zona di piazzale Lotto. Essendo elevata la probabilità di incorrere in incontri sgradevoli, onde evitare di trovarmi di fronte i bravi di don Rodrigo (“Questo matrimonio non s’ha da fare!” “Guardate, con me non c’è pericolo”), sono entrato in un bar che era altresì l’unica traccia visibile di insediamento umano nei dintorni.

Oltre a me, la clientela era variegata e, dovendo bere mezzo litro di birra chiara non filtrata e non avendo portato meco né libro né taccuino, ho avuto tutto l’agio di studiarla. C’era una bellissima mulatta che studiava un volumone dall’inquietante titolo La cura dell’amore – che oggi documentandomi ho scoperto avere per sottotitolo “Donne, uguaglianza, dipendenza” – sottolineandolo furiosamente e appuntandone i passi salienti su un quaderno a quadretti. C’era una coppia di anziani molto vecchi, con lei che aveva evidenti difficoltà di movimento ma che mangiava tutta contenta una fetta di torta e poi, chiesto al marito di comprarle un sacchetto di liquirizie, se l’era fatto aprire e aveva offerto la prima alla cameriera. Di fronte a loro, tre signori di una certa età vagliavano animatamente chi fosse il candidato premier più votabile alle politiche; non trascrivo il loro responso per non dare dispiaceri né a Bersani né a Monti, ma vi assicuro che il prescelto non era Ingroia. Al tavolo attiguo, tre signore di una certa età discutevano su chi dovesse pagare il conto complessivo. In fondo all’altro capo della sala, gli immancabili e impassibili giocatori di briscola muti che vengono noleggiati da qualsiasi bar rispettabile per creare l’atmosfera.

Accipicchia!* In tutto questo non mi sono messo a pensare a monsignor Vincenzo Paglia? Questi nel pomeriggio aveva rilasciato un’intervista a Radio Vaticana stigmatizzando la rivendicazione di non so che diritti per le coppie omosessuali, dicendo che il metro sul quale misurarli non poteva essere il desiderio personale. Quanto è vero, mi sono detto, altrimenti va a finire che bisogna rassegnarsi anche ad accondiscendere alle istanze di un eventuale Marchese de Sade redivivo, sulla scorta dell’idea che, poverino, solo così potrà realizzare la propria individualità (o, come direbbe il volgo, il suo sogno). Io stesso, se avessi diritto a tutto quanto desidero, sarei una compagnia pericolosissima per varie persone che mi circondano, a cominciare dalla mulatta che con ogni evidenza mi preferisce il libro femminista e l’iPod.

Meglio cercare di soddisfare i propri desideri come meglio si può senza cercare di ficcarli nel codice civile; se i diritti dovessero servire a connettere la felicità ai desideri su vasta scala, staremmo freschi. Intorno a me la vecchissima anziana gongola mentre raccoglie con le dita le ultime briciole di torta, i tre signori di una certa età vengono abbordati dalle tre signore di una certa età, i briscoleggianti sciolgono consesso per andare a cena. Dilaga la contentezza, eppure vent’anni fa – scommetto – nessuno di loro avrebbe desiderato che la propria vita si dipanasse in maniera tale da farli finire a trascorrere il sabato sera nel bar in cui sono capitato, nelle tenebre che circondano piazzale Lotto. Giudicando in base ai propri desideri, avrebbero concluso di avere diritto a tutt’altra felicità che il destino di vivere nella Milano suburbana, o di essere malata o di doverne accudire una, o addirittura di dover leggere La cura dell’amore. Ieri tuttavia, colti così, alla sprovvista e a campione, erano tutti soddisfatti e confermavano che è inutile piantare grane per diventare chissà che; aveva ragione Trilussa quando scriveva che “tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”.


*Nota a beneficio dei filologi: la prima stesura in questo luogo riportava “Cazzo!”.


[L'altra metà della rubrica, comprendente lo storico primo calcio di Pietro Savio raccontato dal padre Francesco, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]

giovedì 10 gennaio 2013

Doveva succedere, non poteva non succedere, è successo: Bobo Maroni contro Fratelli d’Italia, nuovo partito del centrodestra nazionale; Ignazio La Russa contro la proposta di trattenere al nord il 75% delle tasse, nuovo cavallo battaglia della Lega. Se si aggiunge che non prima di due mesi fa i parlamentari leghisti erano insorti contro l’obbligo di insegnare nelle scuole l’Inno di Mameli, il titolo “La Lega contro Fratelli d’Italia” è praticamente già pronto, servito su un piatto d’argento.

Eppure, senza voler mettere bocca nell’appassionante dibattito sulle alleanze politiche, la Lega è l’unico partito al quale converrebbe che nelle scuole venisse insegnato Fratelli d’Italia: tutto quanto però, e non solo la prima strofa abitualmente cantata dai calciatori e contenente le fatali parole “schiava di Roma”. Se si passa alla strofa successiva, si nota che l’invito “raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora sonò” non fa riferimento esplicito al tricolore bensì solamente al miglioramento delle condizioni di popoli “calpesti e derisi” qualora si fossero uniti sotto un unico drappo identitario. È esattamente l’ideale patrocinato dalla Lega dal 1996 in poi: i popoli del Nord smetteranno di essere vessati da una tassazione iniqua solo se si uniranno in una macroregione che si riconosce in un’unica bandiera (presumibilmente il sole verde della Padania).

Qual è stata la condizione posta da Maroni al momento di diventare segretario della Lega? Il perseguimento dell’indipendenza del nord, che sia attraverso l’amministrazione locale, l’ostruzionismo verso le leggi romane o la lotta per la secessione. E cos’ha scritto Mameli nella terza strofa? “Giuriamo far libero il suolo natio”; l’Inno infatti inizia auspicando unità ma emoziona quando parla di indipendenza. Lo fa nella quarta strofa, cantando la vittoria della Lega Lombarda (appunto) sul Barbarossa alla battaglia di Legnano nel 1176, la strenua difesa della Repubblica di Firenze a fronte dell’assedio di Carlo V nel 1530, il mitologico Balilla che sobilla Genova contro gli austro-piemontesi nel 1746. Questi versi dimostrano che Mameli ha scritto un inno a ciò che storicamente più preme alla Lega, l’autodeterminazione dei popoli; e culmina, alla quinta strofa, nell’aperto dileggio del dominatore ostile: “Già l’aquila d’Austria le penne ha perdute”.

Il contesto di questo riferimento allo scorno del governatore può rinvenirsi nel curioso episodio che segnò la svolta psicologica che nella lotta fra l’oppressore straniero e gli i patrioti lombardi. Racconta l’allora vicesegretario della congregazione municipale di Milano, Francesco Crippa: “Verso le ore 4 pomeridiane del giorno 3 gennaio 1858, le contrade della città di Milano cominciarono ad essere innondate da bande di soldati che, contro la loro abitudine, i loro mezzi pecuniari, e le severe discipline militari, avevano il sigaro in bocca. Non pochi ne avevano due contemporaneamente”. Era accaduto che da un giorno all’altro, la notte di Capodanno, i milanesi avessero deciso di smettere di fumare per non versare ulteriori soldi nelle casse austriache. “Non volendo né dovendo adoperare forme illegali”, continua Crippa, “si adottò unanimemente il già ventilantesi partito di non fumare, e con maraviglioso ed indimenticabile esempio fedelmente ci si attenne al proposito”.

I soldati austriaci caddero nella provocazione e aggredirono i milanesi. Di lì a poco ci furono le Cinque Giornate e, pur sedata, l’insurrezione (cui prese parte anche Mameli) lasciò abbondantemente spennata l’aquila imperiale. Ecco il senso del Risorgimento di cui si parla in Fratelli d’Italia: unità di un popolo intorno all’identità che lo accomuna, indipendenza dal dominatore straniero, desiderio di pagare meno tasse e di gestirne i proventi per conto proprio. Praticamente, il programma antieuropeista e autarchico della Lega. E cos’hanno in comune il partito di Maroni e quello di La Russa? L’ostilità verso la diluzione dell’identità nazionale attorno all’esosa bandiera stellata dell’Unione Europea. Per capire che Mameli avrebbe benedetto l’alleanza fra Lega Nord e Fratelli d’Italia, basterebbe rileggere l’Inno nazionale.

[Disponibile su Tempi Web]

lunedì 7 gennaio 2013

Finalmente domenica!
Diciannovesima giornata, 6 gennaio 2013


Non c’è bisogno di essere Bobo Maroni per capire che ho la Lombardia in testa; non c’è bisogno di essere uno dei Pooh per capire che il mio posto è là. Quand’ero piccolo e il Guerin Sportivo era una questione di vita o di morte, il mio opinionista preferito era Vladimiro Caminiti e credo che ancora oggi qualcosa di lui mi sia rimasto appiccicato addosso: non la tintura per capelli, che pure iniziano a imbiancare, ma una certa passionaccia per considerazioni poco commestibili espresse in scintillante prosa barocca, sciasciana (mi riferisco a lui; io ci provo). Bene, Caminiti diceva che un uomo non è del luogo dov’è nato, ma di quello dove decide di vivere e di far nascere i propri figli; ragion per cui lui, venendo dalla Sicilia, diceva di essere di Torino.

Io non so se mi spingerei altrettanto, anche perché ancora non ho fatto nascere figli che mi inchiodino definitivamente a Pavia; però più passa il tempo più ho difficoltà, quando mi chiedono “Di dove sei?”, a rispondere “Di Gravina”. Delle due settimane di ferie pugliesi che termino oggi di trascorrere qui mi è rimasta l’impressione di un unico pasto lautissimo e copioso che si è snodato inarrestabile dal 21 dicembre a oggi, a causa soprattutto dell’improvvida circostanza per la quale le vigilie cadevano di lunedì, quando già si era sopramangiato per i due giorni del fine settimana. Forse per questo mai come quest’anno ho patito il cultural divide che mi separa dalla mia pretesa patria, dove il primo comandamento e fondamentale collante della società è: mangiare.

La masticazione qui cessa di essere sostentamento e diventa una via di mezzo fra il passatempo e la prova di forza: si mangia con gli amici, si mangia per non far dispiacere i parenti, si mangia quando si rende visita e quando si ospita qualcuno; si mangia alle presentazioni di libri o alle inaugurazioni di mostre, anzi si tende a inaugurare mostre e presentare libri per poter mangiare; si mangia fra un pasto e l’altro, per tirare sera e fare bella figura, perché non si può dire di no, perché il digiuno è in sé offensivo; si mangia tutto quello che gli antenati non hanno potuto mangiare, si mangia – tautologicamente – perché l’atto stesso del mangiare certifica la gravinesità; mangiare è obbligatorio tanto quanto lamentarsi, durante il pasto successivo, di avere mangiato troppo in precedenza.

Sul cibo posso reggere botta, per quanto barcolli e mi puntelli con la sottomarca di un noto effervescente. Le altre due persone della trinità locale mi trovano più impreparato, e sono: ordine e (no, non disciplina ma) una volta.

L’ordine è centripeto. Ogni famiglia ha un addetto all’ordine (generalmente, la signora) che provvede a cancellare le tracce degli insediamenti umani dalle abitazioni, a velocità talmente elevata che ormai si è radicata la convinzione che non si lavi il bagno perché lo si è usato ma che si debba usarlo in fretta perché c’è da lavarlo. La massima concentrazione di ordine si verifica negli immediati pressi di quest’addetto e va via via sfumando nell’allontanarsene, fino a raggiungere picchi di anarchia igienica per la pubblica strada dove i cittadini, sputando sull’asfalto o incendiando i cassonetti o parcheggiando a pettine metà in divieto di sosta e metà sulle strisce, si rifanno dell’oppressione alla quale sono costretti entro le mura domestiche. Dall’ossessione per l’ordine deriva la diffusa scarsa dimestichezza con l’oggetto libro, di difficile conservazione e foriero di polvere.

Da un approfondito esame della memoria collettiva emerge però la consolidata nozione che non sempre Gravina è andata a scatafascio; una volta era una città ideale. “Una volta” è un periodo storico di varia composizione che dura grossomodo dagli insediamenti rupestri all’infanzia del relatore. Era il periodo in cui Gravina era più grande di Bari, in cui Federico II di Svevia viveva a Gravina, in cui il Papa era gravinese, il traffico era scorrevole, gli artigiani sapevano lavorare come si deve, i giovani erano bravi, i vecchi erano giovani, l’aria era pulita, si poteva giocare per strada, e la collettività esercitava i tipici mestieri gravinesi che sono poi stati esportati nelle altre città garantendo così lo sviluppo del mondo; inoltre si mangiava bene e tutto era in ordine.

Sono dati di fatto che ho sempre avuto sotto gli occhi, eppure ci sono voluti anni perché giungessi ad accorgermene col lucido distacco degli antropologi. Funziona così: uno se ne va, poi si accorge dei motivi per cui se n’è andato e decide di far nascere i figli altrove, fino a che questi non crescono e gli dicono: “Papà, ma non ti eri accorto che quest’altrove è così e così? Come t’è venuto? Basta, ce ne andiamo”. A questo stavo pensando, mentre cercavo di adeguarmi e digerire senza mettere disordine (come si faceva una volta). Stavo anche pensando che quand’ero piccolo e leggevo il Guerin Sportivo ho forse sbagliato a scegliere modello di riferimento: metà siciliano e metà torinese, questi era talmente benvoluto da nord a sud dello Stivale che nella stagione di massimo fulgore dell’Anonima Sequestri un giorno in curva – non ricordo più lo stadio esatto – apparve lo striscione: “Diamo in cambio dei rapiti / Vladimiro Caminiti”.

[Il resto della rubrica, in cui Francesco Savio rivela le letture di Mario Monti, si trova come sempre su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport.]

sabato 5 gennaio 2013

Gay Talese aveva scelto di evitare la carriera di romanziere (lo ricordava tempo fa Camilla Baresani) per paura di rivelare i propri vizi più intimi benché velati da falso nome. Si trattava probabilmente di un retaggio ancestrale dovuto all'ascendenza calabrese, che però non ha impedito alla narrazione del vizio di emergere impetuosa nei massicci reportage "Onora il padre" (1971) e "La donna d'altri" (1980). In questi due libri Talese affronta con ogni dettaglio due implicazioni complesse del vizio: la morte violenta e il sesso estremo.

Morte violenta e sesso estremo a volontà nel mio articolo in edicola sul Foglio di oggi.

giovedì 3 gennaio 2013

Ma la letteratura non si fa coi codici postali, soprattutto per una città come Oxford che nella narrativa è sempre sospesa a metà fra fantasia dell’autore e immaginario collettivo. Una rapida scorsa ai romanzi ambientati lì mostra la tendenza dei narratori a fornire riferimenti topografici secchi, con l’indicazione precisa di vie e luoghi del centro come la Bodleian Library o la Radcliffe Camera, che si presuppongono già noti al lettore; senza accompagnarli, contrariamente al galateo romanzesco, con descrizioni della loro architettura o dei dintorni.

Sul Foglio di oggi spiego com'è difficile orientarsi a Oxford leggendo i romanzi di Colin Dexter, Richard Mason, Martin Amis e Javier Marias. Il pezzo è disponibile anche online sul sito del Fogliuzzo.

martedì 1 gennaio 2013

Finalmente Capodanno!
Sosta natalizia, 1 gennaio 2013

Io avevo questo vizio, dal 2006 all’anno scorso, di aspettare il 31 dicembre per rileggere i titoli di tutti i libri che avevo letto nei dodici mesi precedenti e poi organizzare un avvincente torneo a eliminazione diretta in mente mei per sancire quale fosse il migliore dell’anno appena trascorso. Un argomentato resoconto veniva dapprima pubblicato su un sito letterario di cui non ricordo il nome, e che poi ha chiuso; quindi sul webmagazine sudista Books Brothers, che poi ha chiuso; ora mi azzardo qui, e se dovesse accadere qualcosa me ne assumo sin d’ora ogni colpa.

Bisogna specificare la peculiarità di non assegnare questo riconoscimento, peraltro consistente in un bel nulla, a un libro che sia stato pubblicato nell’anno in questione bensì a un libro che nel medesimo lasso di tempo io avessi letto per la prima volta, foss’anche uscito mille anni addietro. È un necessario distinguo per ribadire non tanto la preminenza del soggettivo sull’oggettivo quanto l’urgenza di riconoscere che per far esistere i libri non basta qualcuno che li stampi ma anche qualcun altro che li legga. Ditelo ai vostri amici che stampano a proprie spese il romanzo nel cassetto.

È inoltre un esercizio utile a capire cosa leggo, come e quanto, monitorandolo di anno in anno. Emerge che nel 2012 ho letto 126 libri, con un preoccupante picco di 20 in aprile (Gesù) e un altrettanto preoccupante avvallamento sparso sui mesi di giugno, luglio, settembre, ottobre e novembre, nei quali tutti non sono riuscito a raggiungere il minimo sindacale di dieci libri al mese ovvero uno ogni tre giorni: se ci pensate, non è tanto. Questo credo sia dovuto a tre cause: la prima è che invecchio, la vista si accorcia, i neuroni si esauriscono e quindi giro le pagine meno velocemente; la seconda è che la memoria si sta esaurendo ergo ho preso a leggere stabilmente con la matita in mano, di modo tale da sottolineare i passi salienti e segnare a margine spunti che altrimenti resterebbero scolpiti sull’acqua, e questo procedimento rallenta la digestione delle parole; infine, un po’ per sconforto un po’ per noia un po’ per troppe faccende sono abbondati i periodi in cui non ho girato pagina, che è la colpa maggiore.

Mi consolo pensando che leggo un po’ meno ma leggo meglio, matita a parte, riuscendo a selezionare a colpo d’occhio quali libri possano essermi davvero utili e benefici anziché darmi all’affastellamento; d’altra parte la cultura di una persona si manifesta soprattutto da ciò che decide di non leggere. Nessuno è tuttavia infallibile e ogni anno mi capita di finire dei libri accorgendomi che anziché leggerli avrei tratto maggior profitto dall’essere tifoso dell’Inter. Quest’anno sono stati sette e, per una curiosa coincidenza, risultano tutti romanzi di autori italiani viventi. Non rivelerò i loro nomi perché se voglio fare carriera dovrò pur conservarmi degli amici, ma mi consola notare che questi libri sono stati pubblicati da Mondadori, Marsilio, Feltrinelli, Einaudi (due), Rizzoli nonché dal piccolissimo Laurana, come a dire che piove sui giusti e sugli ingiusti.

Per fortuna i libri notevolissimi che mi sono passati quest’anno per le mani sono quasi il doppio. Li riferisco in ordine di crescente piacere nella lettura: al tredicesimo posto, Teoria del romanzo di Guido Mazzoni, che vince anche il premio per il saggio più temerario; dodicesimo, Jude l’oscuro di Thomas Hardy; undicesimo, Indignazione di Philip Roth, che vince anche il premio per la migliore scena di sesso orale scritto; decimo, Io le pago di Chester Brown, un fumetto sui vantaggi giuridici e umani della prostituzione; nono, Devi cambiare la tua vita di Peter Sloterdijk, che è il miglior libro sportivo del mio anno benché travestito da corpulento saggio filosofico; ottavo, Putain di Nelly Arcan; settimo, Una nuova vita di Bernard Malamud; sesto, Il senso di una fine di Julian Barnes; quinto, Pas son genre di Philippe Vilain, arguto romanzo su intellettuali e sciampiste appena tradotto da Gremese. Medaglia di legno a Quella sera dorata di Peter Cameron, in cui i dialoghi rendono superfluo il narratore. Sul gradino più basso del podio, i Pubblici discorsi di Nori, che trasformano la sbobinatura in forma d’arte. Sconfitto di un’incollatura, La donna d’altri di Gay Talese, inchiestona sul sesso che dimostra come noialtri non sappiamo più fare nessuna delle due cose. Mio libro del 2012, The Marriage Plot di Jeffrey Eugenides, altresì premio romanzo-cattedrale.

Le femministe protesteranno che su tredici libri ho indicato una sola autrice, e che per giunta faceva commercio del proprio corpo in Quebec: bionda e arguta psicologa di sé stessa, ha finito il secondo romanzo e s’è impiccata. Ma non devono lamentarsi; mi sembra una degna rappresentanza dei tempi. Piuttosto mi preme sottolineare come i periodi di vacanza siano stati segnati da forti riletture in rapida successione. A inizio anno ho ripreso tre romanzi che fra loro hanno in comune più di quanto non si veda: Lamento di Portnoy di Philip Roth, Le particelle elementari di Houellebecq e Maschio Adulto Solitario di Cosimo Argentina. Ad agosto mi sono lungamente reimmerso nei classici dell’anglofonia moderna ovvero, in ordine cronologico inverso, David Lodge, Anthony Burgess, Graham Greene, George Orwell, David Herbert Lawrence, Virginia Woolf, G.B. Shaw e E.M. Forster. È stato indubbiamente il periodo più gradevole dell’anno, letterariamente parlando, e questo getta una nuova luce sull’elenco di libri letti che compilo su carta semplice da quando avevo sedici anni, tanto che oggi posso vantarmi di averlo fatto per più di metà vita.

Quando sarò morto e chiuso in una bara, non voglio un codazzo di tram ma chiederò al Padreterno due cose: rivedere le partite di quando avevo dagli uno ai quindici anni, tutte; riandare al momento in cui l’elenco dei libri letti, sotto la mia mano, era ancora candido come un’agendina del nuovo anno, e pronto a essere riempito di volute d’inchiostro – prima blu poi nero – che avrebbero recato le tracce del mio originario ardore di leggere tutti i libri, e non il mio attuale bisogno di averli letti tutti.