venerdì 31 gennaio 2014

L'importanza, se non la bellezza, di Masterchef risiede nell'assunto inverso a quello dei concorsi sulla tv generalista, dove a tutti è concesso di mostrare il proprio talento, anche ai poco talentuosi, e dove non viene risparmiato a nessuno l'elogio caciarone e il generico incoraggiamento a non arrendersi, a perseguire il proprio sogno. Masterchef è il contrario. Si basa sull'idea che pochi hanno talento, pochissimi sanno esercitarlo e quasi nessuno ha la forza morale di sforzarsi di migliorarlo costantemente. Se nello specifico la cattiveria dei tre giudici mal si adatta alla cucina, che dovrebbe essere gioia e panza piena anziché piatti che volano come gli insulti, va riconosciuto che il principio generale su cui si regge questo show vagamente sadomaso è esattamente quello che negli ultimi cinque anni è completamente sfuggito alla destra italiana: selezione, non inclusione; nettezza, non lassismo. Tutto qui.

La destra italiana invece ha preferito essere più italiana che destra e ha seguito il modello della tv generalista rinunziando a un'identità precisa in cambio di una maggiore estensione dell'audience, ossia del bacino di voti. Ma è meglio puntare sul milione di aficionados che seguono Masterchef con dedizione piuttosto che su dieci milioni di svagati spettatori di Ti Lascio Una Canzone che poi magari nemmeno sanno come si chiami di preciso Antonella Clerici.

Basterebbe per la destra italiana rifarsi al modello Rachida. La sarta magrebina è l'agent provocateur di quest'edizione di Masterchef: è incapace; è fastidiosa; strilla; semina zizzania; guarda tutti con superiorità demoniaca; se viene criticata, protesta che ciò avviene perché lei è diversa; piagnucola; odia tutti; tutti la odiano. Orbene un personaggio del genere sarebbe portato in palmo di mano sulla tv generalista, o in un partito di massa: all'inizio risulterebbe antipatico a tutti, poi capirebbe di avere sbagliato, si integrerebbe, verrebbe aiutato dai tutti nei momenti di difficoltà e finirebbe per diventarne il beniamino. Sarebbe il modello perfetto dell'immigrato immaginario, ossia della maniera in cui auspichiamo che si comportino davvero le presenze minacciose che ci impauriscono; è un pensiero consolatorio che serve a farci dormire tranquilli nonostante la realtà concreta.

Gli autori di Masterchef sono invece dei malandrini e sanno che Rachida ci affila l'amigdala, ovvero quella parte del cervello che allerta in presenza di un pericolo esterno e che, per caso non credo fortuito, si chiama come la pietra appuntita che nella preistoria fu una delle prime armi. Per questo Rachida non è ancora stata eliminata: perché i giudici possano continuare a trattarla male, a criticarla quando sbaglia, a scimmiottarla quando si lamenta, a deriderla quando piagnucola e a non portare il minimo rispetto alla sua diversità perché è lei a dover adeguarsi a loro e non loro a lei. Se la destra volesse davvero vincere le prossime elezioni, le basterebbe presentarsi con la leadership di Cracco o Bastianich; Barbieri, vicepremier.

giovedì 30 gennaio 2014

Se non avete capito che è proprio iniziata una nuova stagione della politica è perché ieri sera non avete guardato l'inizio di Porta a Porta, col faccia a faccia fra Giovanni Toti e Stefano Fassina. Toti, per la prima volta negli studi Rai, ha esordito raggiante chiedendo a Bruno Vespa con quale legge si elegga la terza camera della Repubblica; la sua naturalezza nel sottoporre questa disinvolta boutade era tale che con lui si sono complimentati perfino i dodici autori professionisti impiegati per architettarla. Bruno Vespa, per la cronaca, ha risposto che la terza camera non si scioglie mai anche se d'Alema avrebbe voluto scioglierla nell'acido.

Stefano Fassina, dal canto suo, prima ha lamentato che con la nuova legge elettorale ci saranno meno candidati donna; ed è sorprendente, perché io credevo che una legge elettorale servisse a stabilire chi viene eletto mentre ognuno candida chi gli pare. Subito dopo ha raddoppiato proponendo a Toti di approvare seduta stante, garanti Bruno Vespa e il fittizio maggiordomo, una nuova riforma elettorale maggioritaria con l'uninominale secco: un metodo efficace per contrapporre al becero populismo di Renzi, che incontra il capo dell'opposizione per vagliare attentamente i compromessi a cui eventualmente scendere, una politica più seria e competente, dove le riforme si fanno a cazzo di cane in diretta tv. Ho spento tutto e sono andato a letto.

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Poscritto: menzione d'onore per il Corriere della Sera che stamattina, parlando della "FCA", a pagina 9 incorre nel refuso che tutti si aspettavano e la chiama "FGA".

mercoledì 29 gennaio 2014

Io notoriamente sono timido - mi vergogno a parlare in pubblico, non so come attaccare discorso con le ragazze e non tengo un blog perché non trovo mai nulla di interessante da scrivere - ma sabato ho preso coraggio e ho fatto una cosa che non si fa. Passando per Corso Cavour ho visto Peppe Servillo che guardava le vetrine; allora mi sono avvicinato felpatissimo e gli ho furtivamente domandato se potessi complimentarmi per l'ottima rappresentazione della sera prima (Le voci di dentro di Eduardo, con Toni Servillo e fratello, al teatro Fraschini di Pavia) dicendogli che il fratello Toni, vabbe', è bravo e lo sappiamo già, ma che lui, Peppe, ha una mimica che gli permette di recitare con ogni muscolo del corpo. Lui, che per strada è dinoccolato e manierista come sul palcoscenico, ha ringraziato sembrandomi sinceramente contento perché io ero evidentemente sincero. Siccome sono timido ci siamo stretti la mano e ci siamo separati dopo un minuto ma, se fossi stato spaccone, avrei potuto aggiungere, trovandolo oltremodo interessato:

"Che poi la pièce era tutta sui sogni e sull'effettiva incapacità di distinguere la scatola nera delle percezioni durante il sonno e quella delle percezioni durante la veglia. Io, ad esempio, la notte ultimamente sogno cose molto più interessanti di quelle che faccio in piedi. L'altra sera ero a Oxford, da dormiente perché da sveglio non la reggo, stavo guardando una di quelle rappresentazioni shakespeariane in giardino che tormentano la primavera-estate inglese e mi ero sistemato di spalle agli attori perché volevo vedere come recitavano con la schiena (una cosa che di rado capita di poter fare a teatro) ma a un certo punto era venuta su la mia ex collega [OMISSIS] la quale aveva iniziato a inveire contro di me dicendo di togliermi di lì perché impallavo l'inquadratura. Io le avevo risposto inquadratura un cazzo, a  teatro mica ci sono le telecamere, e poi - colpo ad effetto - mi sistemo dove mi pare perché questa rappresentazione l'ho scritta io. Al che lei aveva risposto che l'aveva scritta lei e avevamo iniziato a litigare su chi di noi avesse scritto la tragedia di Shakespeare, naturalmente interrompendo la rappresentazione per tafferugli, finché io non avevo pensato adesso ti faccio vedere io chi è l'autore, e con tutta la mia autorevolezza avevo chiamato il pubblico a me con un solo cenno e l'avevo condotto alla Reggia di Caserta, che tuttavia al proprio interno si rivelava un trilocale, nell'ultima stanza della quale trovavo [OMISSIS] che non vedevo da molto tempo e per esprimere contentezza me la trombavo, però senza togliermi i vestiti perché con le ragazze io non voglio tanto impegnarmi. A lei capita mai? Anche se a onor del vero ultimamente questi sogni esotici sono una rarità; dall'anno nuovo i miei sogni tendono a spostarmi di pochi chilometri e a farmi restare in Lombardia. Una notte sogno di andare a un matrimonio a Mantova, e i dettagli architettonici della chiesa e della piazza sono effettivamente presi dalla realtà mentre meno preso dalla realtà, spero, è il dettaglio di [OMISSIS] che passa con una maglietta e un enorme zaino sulle spalle e litri di sudore che le colano sulla schiena e sotto le ascelle e fra i seni e io chiedo come mai suda tanto e lei risponde che non è sudore, è il sangue del bambino che porta nello zaino. Un'altra notte sogno di andare a una conferenza a Lodi e i dettagli architettonici sono esattamente quelli della volta in cui andai a una conferenza a Lodi e nel pubblico incontrai Maurizio Milani, che non è un sogno ma esiste veramente fisso. Insomma, ultimamente faccio sogni che valorizzano il territorio. Magari se ne parlo con Maroni mi allestisce un padiglione-brandina all'Expo".

Ho come l'impressione che, se mi fossi addentrato in un'argomentazione del genere, avrei potuto distogliere Peppe Servillo da attività più gradevoli e a posteriori sono lieto di avere sorvolato. Rimpiango però di non avergli parlato della coppia dietro di me in platea - quella che, dopo avere visto Toni Servillo apparire sulla scena poco dopo Peppe, dopo avere visto che si somigliavano, dopo avere notato che erano vestiti in modo quasi identico, dopo avere apprezzato che recitavano pressoché in sincrono con grande naturalezza, dopo avere avuto il sentore che recitavano la parte di due fratelli, quando sul palcoscenico è apparso insieme a Toni Servillo il bravo attore Gigio Morra, si sono chiesti: "Ma quello sarà il fratello?". Sono ragionevolmente sicuro di non essermelo sognato.

martedì 28 gennaio 2014

Il principale effetto della riforma universitaria introdotta nel 1999 da Luigi Berlinguer – il famigerato tre più due – è stato di raddoppiare le feste di laurea. Il candidato si presenta di fronte alla commissione, discute la tesi come può, viene proclamato dottore, indossa la corona d’alloro, si mette in posa pagando cinque o dieci euro a scatto, brinda con parenti e amici e il giorno dopo torna a lezione come se niente fosse, in attesa di laurearsi di nuovo un paio d’anni dopo se tutto va bene. Né si può escludere il caso limite: uno al mattino si laurea e al pomeriggio si sfila la cravatta, depone l’alloro e ancora tramortito dal pranzo faraonico va a sostenere un esame con un professore già membro della commissione mattutina, il quale magari lo boccia: così che a sera il neodottore, mentre parenti e amici ancora brindano per festeggiare, già beva per dimenticare.

Alla questione delle feste di laurea Repubblica ha dedicato qualche settimana fa una lenzuolata in cui il professor Maurizio Bettini, che insegna filologia classica a Siena, lamentava gli eccessi delle lauree-evento quanto a vestiario, filmini, palloncini, coriandoli e tappi di champagne. Ha ragione. Se con la tradizionale laurea del vecchio ordinamento la discussione era un evento accademico aperto a pochi intimi atterriti dall’autorevolezza dei docenti, nel giro di dieci anni è diventato di moda festeggiare la più squallida delle lauree brevi imbrattando tutto, sfasciando quel che si può e affiggendo sopra le lapidi degli antichi barbogi volantini fotocopiati con la foto del neodottore ubriaco o seminudo o assiso sulla tazza del cesso con didascalie che riecheggiano un ritornello di Checco Zalone: “Se ce l’ho fatta io / ce la puoi farcela anche tu; / se ce l’ho fatta io / figuriti tu”. Solo che lui scherzava e loro dicono sul serio, solo che lui sbagliava apposta e loro vanno fieri di poter scrivere del loro genio di famiglia: “Se c’è là fatta lui…”.

Ai suoi tempi Luigi Berlinguer presentava la propria riforma come ineludibile. Di ineludibile qui c’è solo l’evoluzione antropologica del popolo delle prime comunioni: quelli che dieci anni fa festeggiavano il pargolo in saio bianco con celebrazioni megagalattiche, quelli che da qualche tempo al diciottesimo compleanno gli regalano un servizio fotografico professionale che più tamarro non si può, a maggior ragione lo esaltano ora che è cresciuto e veste l’alloro, ancorché alloro triennale: tutti hanno diritto a un royal wedding per ogni tappa importante della vita, anche se il giorno dopo tornano a sedere fra i banchi spogliati di ogni fronda. Alle Università non resta che emettere velleitarie ordinanze (non schiamazzate! non lanciate uova o farina sugli affreschi! non scagliate il nonno nella fontana vuota!), assistere impotenti mentre vengono disattese e poi pagare i danni di tasca propria. A meno che non si colga al volo l’opportunità che sembra offerta da un’inversione di tendenza: lo scorso anno le statistiche hanno alfine registrato un numero di immatricolazioni, e quindi di rette, inferiore al numero di lauree, e quindi di feste. La mia modesta proposta per i magnifici rettori è dunque di sopperire ai mancati introiti e di ripianare le spese da eccesso d’entusiasmo emettendo un’innovativa ordinanza per cui l’ingresso alle sedute di laurea sia gratuito soltanto per il candidato ma costi dieci euro per genitori orgogliosi, zii tracotanti, compagni di bisbocce e amici goliardoni. Se è uno spettacolo, allora si paga il biglietto.

lunedì 27 gennaio 2014

"Mi contraddico? Certo che mi contraddico: sono vasto, contengo moltitudini", diceva Walt Whitman. Sarà che sono meno vasto e contengo solitudini ma oggi ho riletto cos'avevo scritto sulla giornata della memoria la bellezza di sei anni fa e non ho notato nessuna contraddizione con quello che penso al momento. Ragion per cui, visto che la vita è lunga ma la memoria breve, ricopio pari pari qui sotto le sette motivazioni che all'epoca avevo scagliato contro la ricorrenza odierna:

1) Perché generalmente si tende a dover ricordare le faccende che altrimenti si dimenticherebbero. Io sono agendina-dipendente ma sulla medesima agendina segno le date fluttuanti (la conferenza su Zanardelli è il 13 o il 20 febbraio? quand’è che si sposa mio cugino? la roba in lavanderia devo ritirarla lunedì o martedì?) oppure gli impegni ai quali preferirei sottrarmi (le pasticche di Immubron; i viaggi in treno; le cose stesse che devo scrivere qui sopra). Non ho alcun bisogno di segnarmi ciò che mi piace fare – nessun bisogno di ricordarmi per iscritto che al martedì mattina devo comprare il Guerin Sportivo, o che al martedì sera devo vedere Desperate Housewives) – né ciò in cui credo fermamente – dovrei ricordarmi per iscritto che ogni giorno c’è da dire lodi, ora media, vespri e compieta? o, più banalmente, che è sempre bene farsi una doccia? La stessa esistenza della giornata della memoria è quindi una forzatura, un monumento alla coscienza sporca, e più la si ostenta più si è consapevoli che altrimenti la si dimenticherebbe, più si denunzia che la si vive come una memoria innaturale, indotta, ipocrita.

2) Perché chi ricorda un giorno all’anno, dimentica facilmente nei restanti trecentosessantaquattro (o trecentosessantacinque, visto che quest’anno siamo bisestili). È la stessa psicologia di coloro i quali a Natale vanno alla messa di mezzanotte, affollano i banchi della stessa chiesa che disertano per il resto dell’anno liturgico, vanno a prendere la comunione al solo scopo di sfilare nella navata centrale. Una giornata della memoria comporta un anno di dimenticanza, e celebrarla ha lo stesso senso della messa natalizia in cui sfoggiare la pelliccia nuova.

3) Perché la giornata della memoria diventa facilmente il lavacro della coscienza. In altri termini, fare gli afflitti per un dì, prima e dopo i pasti, consente poi di avere maggior agio nell’attaccare i vari versanti dell’ebraismo fino alla giornata della memoria dell’anno successivo. Un po’ come quelli che ogni 11 settembre versano lacrime di coccodrillo ma poi, quando si tratta di sostenere gli Stati Uniti con i fatti e non coi piagnistei, si ritengono legittimati a sfilarsi. Così si celebra in maniera rutilante la giornata della memoria e poi si dice che non sta bene lasciare un enorme cratere al posto dell’Iran di Ahmadinejad, tanto per dire, o che i kamikaze palestinesi hanno le loro buone ragioni, poverelli.

4) Perché è vittimistica. Presentando gli ebrei esclusivamente come vittime della Shoah, ne deforma la storia millenaria secondo quella che autorevoli studiosi ebrei, che si evita accuratamente di studiare, hanno definito con disprezzo “l’interpretazione lacrimosa” (David Abulafia, tanto per dire). La giornata della memoria dà pertanto alle persone intellettualmente neutre (id est ignoranti) che vi si accostano (e troppe ce ne sono), l’idea che gli ebrei siano agnellini sacrificali, e come tali da compiangere e basta là.

5) Perché è diabolica. Introduce una sottile distinzione lì dove non c’è nulla da distinguere. La prima cosa che si impara sull’ebraismo è che è l’unico caso in cui razza, terra, religione e Stato coincidano appieno, senza che nessun elemento abbia la preminenza decisiva sugli altri, ma in maniera tale che tutti cooperino allo stesso mosaico armonico. La giornata della memoria, invece, fa la capziosa ed esprime sostegno alla razza ebraica (riconoscendovi le vittime dei nazisti), ma non alla sua terra (in quanto antisionista) né al suo Stato (figuriamoci, essendo mondialista) né tampoco alla religione ebraica (in nome del solito ritrito noiosissimo laicismo, per cui il culto di Dio è un accidente folkloristico nonché un attentato al buon nome dell’umanità). Se fossi ebreo, mi sentirei offeso da uno che in sostanza mi dicesse: “Ti ospiterò a casa mia quando ne avrai bisogno, ma per favore non venire vestito da ebreo!”

6) Perché è controproducente. Il quidam ragazzino, costretto a trascorrere la domenica mattina al freddo e al gelo ad attaccare foto di vittime della Shoah in giro per il suo paesello, con ogni probabilità diventerà antisemita e per il resto della vita sua vorrà fare agli stessi ebrei quello che invece andrebbe fatto ai suoi professori che l’hanno buttato giù dal letto alle sette nell’unico giorno libero della settimana.

7) Perché è intellettualmente provinciale. Mentre noi non ebrei stiamo qui a ritornare di anno in anno sulla necessità di non dimenticare la Shoah (e allora? dobbiamo ricordarci di non dimenticare la Notte di San Bartolomeo? i massacri di cattolici irlandesi ad opera di Cromwell? le incursioni mussulmane a Otranto e dintorni? io me le ricordo benissimo anche senza l’aiuto del calendario), l’ebreo Woody Allen l’ha consegnata con sette parole alla storia dell’ironia e dell’autoironia: “I record sono fatti per essere superati”. Guardiamo avanti, pensiamo a Israele oggi

domenica 26 gennaio 2014

L'Italia è il paese che ama e io non posso trattenermi dall'antologizzare sinteticamente e sinotticamente quel poco che ho scritto fra le tante cose da dire sul ventennio di Berlusconi:

Quella volta che "Berlusconi" fu la parola più cercata dell'anno sul sito del Guardian.

Quella volta che Berlusconi parlò di Dio alla nazione.

Quella volta che (esageriamo) mi venne l'idea della lista del Popolo della Libertà il giorno prima che venisse anche a Berlusconi.

Quella volta che Berlusconi difese Eluana Englaro dalla cecità istituzionale.

Splendori e miserie di Silvio Berlusconi.

Quella volta che Berlusconi si rivelò innocent e non delinquent.

Quella volta che guardai Il Caimano e morì Nils Liedholm.

Quella volta che consigliai a Berlusconi di difendersi dai giudici ripubblicando Lo zio Gustavo e le donne.

Quella volta che Berlusconi andò ospite in tv da Michele Santoro.

Quella volta che Angelo Mellone spiegò Berlusconi a sua figlia.

Quella volta che diedi in anticipo i risultati delle elezioni del 2008.

Quella volta che scoprii che un personaggio di Sandro Veronesi votava per Berlusconi.

Quella volta che sembrava che il caso Petraeus non c'entrasse proprio niente.

Quella volta che il Guardian rivelò al mondo la censura esercitata da Berlusconi sulle notizie italiane.

venerdì 24 gennaio 2014

Se invece andate adesso sul sito di Tempi trovate scritto quanto segue:

La notizia più importante di ieri è quella giunta da Bologna, di cui parlava Luca Doninelli sul Giornale, riguardo alla professoressa che aveva severamente redarguito una propria alunna sorpresa, mentre passava un'ambulanza, a farsi il segno della croce. Il segno della croce, come sappiamo, è oltremodo offensivo per tutti i nostri amici che non credono nelle stesse sottigliezze metafisiche in cui ci rifugiamo noialtri pertanto noi, volendo molto bene a questi amici, non abbiamo diritto a segnarci se non in privato, di nascosto, quando siamo sicuri che nessuno si vede nemmeno col binocolo. Dov'è allora la novità? Nel fatto che stavolta la professoressa redarguente non ha avuto una reazione alla Adel Smith, non so se ve lo ricordate, quello che andava negli ospedali a lanciare i crocifissi dalla finestra perché gli facevano impressione; la buona professoressa ha invece cercato di andare incontro alle istanze della propria allieva proponendole un saggio compromesso. Quando passa l'ambulanza, le ha detto in buona sostanza, se proprio ti scappa da farti il segno della croce trattieniti e tocca ferro, così non offendi nessuno. Pensate cosa le avrebbe detto se la studentessa fosse stato uno studente.

Quest'abile mossa diversiva suggerita dalla professoressa mi ha finalmente fatto prendere atto del mio limite intrinseco, che mi impedisce di dialogare con cotali progressisti. Io ho infatti sempre erroneamente creduto che quando passava un'ambulanza, oppure un carro funebre, farsi il segno della croce fosse un modo di affidare al Signore il corpo e l'anima dello sconosciuto della cui sofferenza avevamo una testimonianza diretta e impossibile da ignorare, accompagnata com'era da sirena e/o corone di fiori. Invece la professoressa m'insegna - d'altra parte le professoresse sono fatte apposta per insegnare - che il segno della croce in tali circostanze ha valore apotropaico; uno si segna per scongiurare di finire in un'ambulanza o in un carro funebre, e chi c'è sdraiato dentro peggio per lui, saranno fatti suoi. Essendo refrattario non sono riuscito subito a cogliere la portata rivoluzionaria del progressismo civile: preoccuparsi sempre di casi generici al plurale, come i migranti e gli omosessuali; oppure di casi storici, come i partigiani e gli ebrei, però quelli morti nei campi di concentramento e non quelli vivi in Israele; oppure di casi lontani, lontanissimi, la Cambogia, l'Eritrea, le Filippine. Ma se per un malaugurato caso vicino a me vedo qualcuno che sta soffrendo, una strizzatina ai coglioni e passa la paura.

mercoledì 22 gennaio 2014

Se andate sul sito di Tempi trovate scritto quanto segue:

L'insurrezione degli atei: aspettavo da tempo questa notizia e finalmente eccola qua. Leggo sul Venerdì di Repubblica (una miniera di postmodernità) che "sposarsi in chiesa per gli atei comporta parecchi inconvenienti" in quanto "può essere considerato una simulazione totale, bastevole per ciò stesso a rendere nullo il matrimonio sin dall'origine". Non solo di fronte alla Sacra Rota, spiega l'estensore del trafiletto ingiustamente sottovalutato, ma anche davanti alla Corte di Cassazione, che una ne pensa e cento ne fa.

E' subito esplosa la protesta dell'Unione degli Atei Agnostici Razionalisti, questo residuato bellico del tardo Seicento che si scaglia contro la divisione "tra cittadini di prima e di infima categoria": i primi sarebbero i cattolici e gli infimi gli atei agnostici razionalisti uniti, per i quali "non credere al matrimonio come istituto sacrale non significa negarne gli effetti civili".

Saranno atei quanto vogliono, saranno agnostici e anche uniti ma di sicuro non sono razionalisti, perché ragionando ragionando ecco quel che di fatto chiedono:

1) che chi non crede in Dio possa sposarsi in parrocchia;

2) che il rifiuto della religione non pregiudichi la possibilità di voler contrarre matrimonio religioso;

3) che cessi in Italia la persecuzione degli spinozisti;

4) che un sacramento contratto da un ateo valga per la Cassazione che non è la Sacra Rota;

5) che il diritto riconosca a tutti gli effetti la validità della promessa fatta da un ateo davanti a Dio.

Aspettavo questo momento perché non c'è miglior prova che, gratta gratta, Dio esiste e gli atei no.

Sul Foglio in edicola oggi, a pagina 4, "Trasformare i pettegolezzi in arma politica. Guida pettegola per Hollande": in cui leggo Guida pettegola al Settecento francese di Francesca Sgorbati Bosi (Sellerio) e spiego come si sarebbe regolato ai giorni nostri un Filippo d'Orléans.

[Aggiornamento: adesso è anche disponibile sul sito del Foglio.]

martedì 21 gennaio 2014

In vista delle elezioni politiche del 1992 - che andarono come andarono, con la DC per la prima volta sotto il 30%, il primo PDS che perse dieci punti rispetto all'ultimo PCI, la Lega Nord all'8% su scala nazionale - il Partito Socialista Italiano aveva escogitato un arguto spot televisivo. A quanto ricordo si vedeva Bettino Craxi intento a conferire formalmente con, boh, con Reagan forse, e dopo pochi ma significativi secondi una voce femminile fuori campo interveniva dicendo grossomodo: "Per errore abbiamo trasmesso immagini del governo Craxi, quando l'Italia era diventata la quinta potenza economica mondiale".

Si trattava del famoso sorpasso del pil italiano rispetto a quello britannico, avvenuto nel 1987 appunto durante il secondo governo Craxi. Non è tanto questo che conta dello spot, tuttavia, quanto che col medesimo artificio retorico si può provare a leggere l'intero ventennio successivo:

- Per errore abbiamo trasmesso immagini del governo Berlusconi, che ha promesso un milione di posti di lavoro, è caduto, ha promesso di abbassare le tasse, è caduto, ha promesso la rivoluzione liberale, è caduto.

- Per errore abbiamo trasmesso immagini del governo Dini, per cui state ancora lavorando.

- Per errore abbiamo trasmesso immagini del primo governo Prodi, che ha stabilito il cambio lira/euro in modo tale da raddoppiare i prezzi e dimezzare gli stipendi.

- Per errore abbiamo trasmesso immagini del secondo governo Prodi, e di Fassino, e di Rutelli, e di Bertinotti, e di Diliberto, e di Di Pietro, e di Pecoraro Scanio, e di Boselli, e di Mastella, e di Turigliatto.

- Per errore abbiamo trasmesso immagini del governo Monti, al quale va riconosciuto il grande merito storico di avere fatto tornare l'Italia all'antico ruolo di espressione geografica.

- Per errore abbiamo trasmesso il governo Letta.

lunedì 20 gennaio 2014

Poteva mancare il mio commento al caso Hollande? (No, non poteva mancare). Su Tempi in edicola questa settimana scrivo un corsivo per dimostrare che in Francia si stava meglio quando si stava peggio, ossia prima della rivoluzione, con il libertinismo erudito di Diderot al posto del moralismo laico della république.

Ora è disponibile anche sul sito di Tempi, basta cliccare qui.
Ci saranno degli inevitabili correttivi, com'era facile e forse ovvio aspettarsi. Non una quota percentuale di sbarramento nella singola circoscrizione bensì a livello nazionale per favorire i partiti piccoli ma non troppo. Liste bloccate ma non così striminzite da garantire la stretta rappresentanza del territorio, magari. Un premio di maggioranza abnorme tanto quanto quello che c'era bisogno di levare. Al netto di questi accorgimenti volti a renderlo più confacente all'Italia il sistema elettorale emerso dall'incontro del Nazareno fra Renzi e Berlusconi fa benissimo a chiamarsi Ispanico perché è un accordo fra due ingeniosos hidalgos.

sabato 18 gennaio 2014

Ricordatevi, anzi, ricordiamoci che oggi - dopo l'incontro fra Renzi e Berlusconi e prima dell'aperitivo - Gino Cervi e io presentiamo Il silenzio della felicità, nuovo romanzo di Francesco Savio. Ore 18:30, Libreria Il Delfino, Pavia (piazza Cavagneria 10).

Per allenarvi, potete trascorrere il sabato a rileggere tutto Finalmente domenica, il diario parallelo che Savio e io abbiamo tenuto lo scorso anno su Quasi Rete della Gazzetta dello Sport.

venerdì 17 gennaio 2014

Ma dunque negli anni Settanta esisteva ancora la cultura? Sono andato al Fraschini a vedere Leo Gullotta in Prima del silenzio di Giuseppe Patroni Griffi e ho notato che ancora nel 1979 era ammissibile che un attore sottoponesse il pubblico prima a un paragone fra Gary Cooper e Yorick e poi, quasi senza soluzione di continuità, alla lunga descrizione di un quadro senza spiegare di star descrivendo un quadro ma presentando il tutto come moto della propria fantasia e lasciando che il pubblico cogliesse da sé il riferimento.

Oggi che la cultura non c'è più qualsiasi autore - di teatro o di narrativa, per tacer dei giornalisti - si sarebbe sentito in dovere di spiegare che ciò che vedeva nella sua mente era un calco esatto della Zattera della Medusa di Géricault, o di introdurre con un trucchetto un acuto personaggio che commentasse il paragone di Gary Cooper con lo scolio: "Ah, certo, Yorick, il buffone di corte danese caro ad Amleto, il quale ne scoprì il teschio pur senza usarlo nel celebre monologo shakespeariano, e il nome del quale (di Yorick, non di Amleto) sarà ripreso come pseudonimo dello scrittore britannico Laurence Sterne (1713-1768)".

Poiché all'epoca c'era ancora la cultura, Patroni Griffi poteva invece far raccontare al protagonista di essere andato a Londra, negli uffici della Faber & Faber, solo per incontrare di persona Thomas Stearns Eliot e morire di piccolezza guardandolo negli occhi cerulei. "Oggi", dice grossomodo il personaggio del 1979, "nessuno si muove più perché può ricevere gli scrittori a domicilio, con la televisione". Oggi, aggiunge lo spettatore del 2014, nessuno sta più attento guardando quei pochi scrittori in tv perché sui social network può interloquire coi loro simulacri convincendosi di essere uguale a loro solo perché entrambi ticchettano ai due capi dello stesso cavo, o anzi superiore perché magari lui scrive e tagga e twitta e loro non gli rispondono giammai.

D'altra parte si dirà che ogni epoca ha la cultura che si merita. Ad esempio, durante lo spettacolo, dopo che da cinque minuti l'apparizione di una donna stava inveendo contro il protagonista parlando di casa loro e dei loro figli, un acuto spettatore alle mie spalle non ha mancato di notare: "Ah, quindi quella è la moglie".

Ahimè, povero Yorick.

giovedì 16 gennaio 2014

La Padania pubblica una rubrica intitolata "Qui Kyenge" in cui segnala a quali iniziative pubbliche partecipi giorno per giorno il ministro per l'integrazione; ciò viene visto come istigazione all'odio razziale e minaccia all'incolumità del ministro. In realtà non si capisce bene che tipo di istigazione sia visto che una simile rubrica è dedicata a Flavio Zanonato; ci dev'essere un oscuro legame di sangue fra italo-congolesi e italo-padovani. Non si vede dove risieda la minaccia visto che le attività rese note dal quotidiano sono ricopiate dal sito del ministero, liberamente accessibile anche ai server padani. Qualche paladino ha detto che l'intento della pubblicazione è derisorio: pertanto, trattandosi di un nudo elenco riprodotto pari pari, questo paladino deve sostenere che evidentemente sono le attività ministeriali a essere ridicole.

Conta però soprattutto una dichiarazione di Cécile Kyenge, la quale ha invitato La Padania a pubblicare non solo una selezione ma l'intero elenco delle proprie attività. A rigor di logica se ne deduce che:

1) o il ministro Kyenge è consapevole che alcune delle proprie attività siano ridicole, e che quindi sia il caso di mimetizzarle in un elenco più vasto per non farle spiccare come avviene su La Padania;

2) oppure il ministro Kyenge ritiene che la pubblicazione di un elenco parziale delle attività a cui partecipa non istighi a sufficienza all'odio razziale e auspica pertanto che, con la pubblicazione integrale, la sua incolumità venga minacciata in modo più esauriente.

Qualcuno non ragiona; ma chissà, forse sono io.

[Approfondimenti: qui due parole su come Cécile Kyenge non ha sedato una rissa fra immigrati; qui un ragionamento sul ruolo storico di Cécile Kyenge.]

mercoledì 15 gennaio 2014

Sabato 18 gennaio grande serata a Pavia di Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport: Francesco Savio presenta il suo nuovo romanzo Il silenzio della felicità (Fernandel editore) dialogando con Gino Cervi e con me alla Libreria Il Delfino in piazza Cavagneria 10. Parleremo male di alcuni scrittori i cui nomi verranno rivelati solamente in loco ma sui quali si accettano scommesse. Si inizia alle 18:30 e si finisce andando a bere da qualche parte.

Per chi volesse un assaggio dello stile di Savio, eccone due: il resoconto di un Genoa-Milan visto con l'ombra di Luciano Bianciardi e un dialogo sulla poesia con l'inconsapevole Andrea Agnelli durante uno Juventus-Novara.

(Sì, avete letto bene: Gino Cervi, Fernandel.)
Un amico mi ha raccontato di essere stato vittima di una tentata rapina a Milano, dove un magrebino gli si è parato davanti chiedendogli dei soldi e brandendo un coltellino. A quanto pare è bastato urlare che sarebbe arrivata la polizia a spedirlo immantinente oltremare a calci in culo per far desistere l'aggressore ma è evidente che non ci si può limitare a questi provvedimenti improvvisati; bisogna pianificarne uno su vasta scala.

Propongo pertanto che negli immediati dintorni di Milano si costruisca Milano: una copia conforme a grandezza naturale benché in polistirolo di tutte le aree più significative: Duomo, Galleria, Stazione Centrale, San Siro, Via Montenapoleone, tutto. Queste aree saranno collegate da anonime zone squallide per riprodurre le quali non ci sarà bisogno di rifarsi a un modello preesistente in quanto vengono bene da sé. In questa Milano farlocca bisogna far arrivare i pullman di turisti giapponesi o nordeuropei che vengono solo (rispettivamente) per fotografare e ubriacarsi; verranno mostrate loro le riproduzioni delle aree celebri spacciandole per originali.

Nelle zone di raccordo saranno intanto stati sistemati magrebini, rumeni, cinesi e i loro vari sottogeneri. Costoro avranno così agio di esercitare rapine sui giapponesi, che tanto sono ricchi e possono permettersele, e aggressioni sui nordeuropei, che sono maneschi e darebbero vita a risse dal garantito intrattenimento. In questa maniera Milano - quella vera, l'originale - tornerà a essere bella e libera. Se proprio qualche giapponese inopinatamente insospettito dovesse domandare dove sono mai i milanesi basterà rispondergli che sono persone serie: lavorano tutto il giorno e poi subito a nanna.

martedì 14 gennaio 2014

Scusate ma io, quando ho appreso che Valérie Trierweiler era stata ricoverata dopo avere visto le foto compromettenti di Hollande sullo scooter, ho pensato due cose.

La prima è Monica Vitti che entra ed esce dall'ospedale in Dramma della gelosia e, man mano che infuria attorno a lei la competizione fra Mastroianni e Giannini, si fa un nome in corsia e viene riconosciuta e salutata con grande trasporto dai paramedici mentre la barella avanza di gran carriera.

La seconda è che per la povera première dame dev'essere stato proprio difficile reggere alla sorpresa per la scappatella dell'uomo che qualche anno fa era scappato con lei

lunedì 13 gennaio 2014

Dopo che donne sempre in ritardo mi avevano impedito per ben due volte di guardarlo al cinema, ho visto La grande bellezza. E' la storia drammatica di Jep Gambardella, un personaggio complesso e cinico che si aggira per Roma alla ricerca di altri personaggi ma riesce a incontrare soltanto prevedibili macchiette e inquadrature pretenziose. La trama gode tuttavia di due momenti chiave. Il primo è quando Sabrina Ferilli si spoglia nuda sullo schermo e in sala ci si domanda se la Roma abbia vinto lo scudetto. Il secondo è quando il protagonista deve intervistare una suora centenaria e costei gli risponde: "La povertà non si racconta"; dopo di che fa una lunga pausa durante la quale lo spettatore ha tempo di dirsi: "Adesso completerà la frase dicendo che la povertà non si racconta, si vive"; dopo di che lo spettatore ha tempo anche di dirsi: "Ma no, non può davvero dire 'si vive'; dire 'si vive' sarebbe troppo banale perfino se la sceneggiatura l'avessi scritta io"; finché al termine della lunga pausa significativa e cogitabonda, quando la suspense sta facendo tintinnare le coronarie, la suora centenaria completa con grande solennità la frase dicendo proprio, a sorpresa: "Si vive". Dalla versione definitiva del film risulta tagliato in fase di montaggio il colpo di scena finale, un rigurgito metacinematografico in cui Jep Gambardella guarda dritto in camera e si rivolge a Paolo Sorrentino chiedendogli: "Uagliò, ma si' propio sicuro sicuro ca tu si' 'o stesso reggista che ha fatto Il divo?".

venerdì 10 gennaio 2014

Ieri rientrando a piedi dall'ufficio ho visto sbucare dalla cappa di nuvole grigie all'orizzonte una sagoma che zampettava sicura su tacchi alti calpestando le gittate di cemento e scansando con baldanza gli pseudo-ciottoli che caratterizzano il medioevo contemporaneo di Pavia. Sembrava che conoscesse la città a menadito e l'avesse mappata per estrapolare tutti i possibili itinerari che le consentissero di non spaccarsi le scarpe e conseguentemente di non perdere dignità sfracellandosi al suolo. L'ho guardata avvicinarsi mentre avanzava soave, notando che non recava nessun segnacolo di impiego lavorativo: non una cartellina, non un portatile sottobraccio, non un telefonino da compulsare col pollice; aveva i capelli in ordine perfetto e di sicuro le due cose erano correlate. La gonna era dotata di un orlo di pizzo dal quale spuntavano due polpacci che erano due fusi; il seno era fiero ma minuto, presente ma non ostentato; gli occhi mi hanno guardato diritto, si sono abbassati per un picosecondo, sono tornati a guardarmi e prima che io attaccassi discorso mi ha chiesto lei: "Scusi, posso chiederle un'informazione? Cerco la mensa del collegio Fraccaro". Dopo che le ho spiegato come girare l'angolo ha sorriso e ha detto "Ti ringrazio" dandomi la seconda persona perché ogni passante è un estraneo ma un cavaliere non più; poi se n'è andata nella direzione che le avevo indicato zampettando sicura sui tacchi coi fusi che sporgevano dal pizzo, seguendo indefettibilmente l'itinerario descritto dalle gittate di cemento, allontanandosi verso la cappa grigia dell'orizzonte opposto e lasciandomi in cuore la gioia di una bella notizia: ieri da Pavia in via del tutto eccezionale è passata una donna.

giovedì 9 gennaio 2014

E se il problema non fosse la satira? Si dà per scontato che il caso Dieudonné sia generalizzzabile e che quindi le questioni da porsi siano le seguenti: se un comico abbia diritto di deridere gli ebrei; se si abbia diritto di fare dell'umorismo sulle camere a gas; se lo Stato abbia diritto di impedire gli spettacoli di un comico; se impedirne gli spettacoli non possa risultare vantaggioso per il comico in termini di portata e diffusione delle sue battute.

Io sono invece abituato ad affrontare i casi concreti individuali perché la generalizzazione è la scappatoia del diavolo e la spersonalizzazione uccide l'uomo. Dieudonné è un comico musulmano; tracciamo quindi una storia essenziale dei rapporti fra Islam e satira. Nel 2005 dei musulmani erano scesi in piazza per protestare contro il diritto di satira perché un giornale francese aveva pubblicato alcune vignette danesi su Maometto; nel 2014 dei musulmani scendono in piazza per protestare a favore del diritto di satira perché lo Stato francese intende impedire a un ammiccante comico musulmano di inneggiare all'olocausto.

Non è che il problema è l'Islam? Dire che la questione verte sul diritto di satira è come concentrarsi sul dito che indica la mezzaluna.

mercoledì 8 gennaio 2014

Avevo dimenticato di scrivere che il numero speciale del Venerdì di Repubblica dedicato ai venticinque anni dalla fine del comunismo è un piccolo capolavoro di editoria. C'è l'autoironia di falce e martello che campeggiano sopra la testata, che per l'occasione contempla sessantadue pagine di ricognizione storico-geografica: l'intervista a Gorbacev, quella a Occhetto, le mire sovietiche sulla Russia odierna, la Cina, i kolkhoz spagnoli, i cattolici cubani, le due Coree e le prospettive concrete di rivoluzione proletaria negli Stati Uniti. Seguono quindici pagine di oroscopo illustrato perché, caduto il Muro di Berlino, a qualcosa bisogna pur credere.

martedì 7 gennaio 2014

Visto che non la voteranno mai, si può fantasticare sulla nuova legge elettorale. L'uninominale secca resta il migliore dei sistemi: si divide il Paese in tante circoscrizioni quanti devono essere gli eletti e il candidato che vi prende più voti si accaparra il seggio e risponde del proprio operato all'intero territorio che rappresenta. Siccome oggi l'Italia non è però il migliore dei Paesi, non merita questo sistema e deve cercarsene un altro.

E' evidente che l'unica legge elettorale che negli ultimi trent'anni abbia funzionato a queste latitudini è quella per i sindaci, che può essere agevolmente adattata alla scala nazionale in quanto concentra in sé tre grandi passioni italiane: il personalismo, la contrapposizione e il rimestio delle alleanze. Il problema del doppio turno è facilmente risolvibile con un accorgimento ulteriore. Basta che sulla stessa scheda - identica a quella delle elezioni comunali - l'elettore indichi con una croce il candidato per cui vota e col numero 2 quello al quale andrebbe il proprio voto se il preferito non dovesse arrivare al ballottaggio.

Poniamo che ci siano quattro candidati, che per convenzione chiameremo Berlusconi, Renzi, Grillo e Rockfeller. Se il mio preferito è Berlusconi, appongo la crocetta sul suo nome; poi mi dico che fra gli altri il male minore mi sembra Renzi e lo contrassegno col 2. Si contano le crocette per scoprire i due candidati che ottengono più voti. Se l'immediato ballottaggio dovesse essere fra Berlusconi e uno qualsiasi degli altri candidati, il mio voto resterebbe a lui anche nel riconteggio: in questo caso conterebbe ancora la crocetta. Se il ballottaggio dovesse essere invece fra Renzi e Grillo o fra Renzi e Rockfeller, il mio voto verrebbe riconteggiato a favore di Renzi come seconda scelta: in questo caso la crocetta sarebbe inutile ma conterebbe il numero 2. Se infine il ballottaggio dovesse essere fra Grillo e Rockfeller, il mio voto si trasformerebbe in scheda bianca.

Questo semplicissimo sistema ha altresì il vantaggio di essere troppo complicato per buona parte degli italiani, che s'ingarbuglierebbe e lascerebbe perdere perché non lo capisce; può dunque fungere anche da efficace antidoto contro l'eccesso di democrazia.

venerdì 3 gennaio 2014

A parte IL del Sole 24 Ore, il mensile più interessante d'Italia è Mondo Nuovo perché si limita a narrare avvenimenti compresi fra il 1492 e il 1870, quando le cose avevano ancora un senso; così da raggiungere vette di incontrastato fascino con un dossier sul nuovo ordinamento d'Europa nella guerra dei trent'anni e, quando non si sporge troppo in là nel tempo, da poter mirare a mutare la propria testata in Rococò: il Mensile della Restaurazione.

Anche il XIX secolo tuttavia offre spunti istruttivi ai nostri giorni: il numero dello scorso novembre ad esempio racconta che ancora oggi a Peshawar, a mezza strada fra Kabul e Islamabad, le madri pakistane che vogliano chetare i figli minacciano: "Se non stai buono, arriva Abu Tabela". Codesto Abu Tabela era in realtà il generale Paolo Bartolomeo Avitabile, napoletano, il quale fu nominato governatore di Peshawar per conto del pascià dal 1834 al 1843: "Per pacificare quella provincia", riferisce Mondo Nuovo, "Avitabile tortura, mutila, impicca e impala o getta i condannati dall'alto dei minareti".

Ora, pensate che centocinquant'anni dopo l'incresciosa faccenda dei marò le mamme indiane diranno ai propri figli: "Se non stai buono, arriva Emma Bonino?".

giovedì 2 gennaio 2014

Passeggiando oziosamente fra le quattro bancarelle che si pregiano di portare anche nei paesi un pizzico di spirito dell'apparenza natalizia, una ne spicca che vende borse di carta sotto la dicitura: "Quattro sorprese a un euro". Qualcuno sosta, qualcuno scruta, qualcuno torna sui propri passi: l'offerta di una busta in cambio di una monetina è allettante. Qualcuno però mi chiede quali sorprese potranno essere mai confezionate in una busta da un euro? Quattro, poi. Ci ho pensato e secondo me sono queste: la prima sorpresa è che la busta è leggera; la seconda che la busta è vuota; la terza che il numero di telefono sulla confezione risulta inesistente; la quarta è che quando torni a protestare la bancarella non è più lì. Grossomodo lo stesso che è accaduto con l'euro, a voler fare i metaforici.